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Cassazione Penale: il delitto di associazione mafiosa può figurare tra i reati-presupposto del delitto di riciclaggio

Con ordinanza in data 8 agosto 2008 il Tribunale di Roma, costituito ai sensi dell’art 309 c.p.p., ha annullato la ordinanza del GIP in sede in data 15.7.2008, come corretta con ordinanza del 25.7.2008, che aveva applicato, fra gli altri, a P.M. la misura della custodia cautelare in carcere per concorso in tentativo di riciclaggio aggravato dal metodo mafioso. Il fatto riguardava plurimi atti, aggravati dalla metodologia mafiosa e dalla strumentalità agevolatrice degli interessi della associazione mafiosa, diretti in modo non equivoco ad ostacolare la individuazione della provenienza delittuosa della provvista di denaro riferibile in parte alle diverse famiglie del c.d. clan dei casalesi, provento delle attività criminali del clan di concorrenza sleale violenta e minatoria (con riferimento in particolare al monopolio della Alfa di D. G. nella rivendita di bombole di gas in tutto il casertano e nel basso Lazio, acquisito con metodi sleali, violenti ed intimidatori in virtù dei collegamenti del D. con i clan camorristici della zona e segnatamente con la famiglia di R. G. detto … e del delitto di associazione mafiosa, ovvero del relativo reimpiego, quantificabile nella misura complessiva di circa Euro 21.700.000; provvista destinata ad essere reimpiegata in attività economiche lecite, nella specie per l’acquisto del capitale sociale della Beta, facente capo a L.C.. In base alle investigazioni svolte il denaro era riferibile al clan dei casalesi e proveniva o direttamente dalle attività criminali del clan ovvero dal reimpiego dei proventi acquisiti a mezzo di tali attività ed era nella disponibilità di D.G. che lo aveva immobilizzato in investimenti in essere in …

In tale ambito al P.M., che era direttore della banca di Tuscia, filiale di …, era stato contestato di avere supportato D.C.G. - quest’ultimo ritenuto mandatario di D. G., a sua volta ritenuto detentore della provvista finanziaria per conto proprio e delle associazioni mafiose operanti in provincia di … - anche con il contributo di altri coindagati ed in particolare di B.G., C.A., F.D., attuando plurime operazioni bancarie finalizzate a rendere materialmente disponibile la provvista dall’estero in Italia, così cooperando con il D.C. nelle operazioni dirette all’acquisto della Beta (predisposizione del futuro assetto societario, preparazione della documentazione necessaria ad attestare la reale disponibilità della provvista, coprendone la titolarità sostanziale, co-organizzazione di un gruppo di tifoseria organizzata laziale per indurre violentemente il presidente della Beta alla vendita del pacchetto di controllo societario, individuazione di Z.S. quale apparente finanziatore dell’acquisto, in modo da coprire il reale titolare delle somme, partecipazione diretta alle negoziazioni ed al mantenimento delle pubbliche relazioni).

Il Tribunale, andando di contrario avviso rispetto al GIP, ha escluso la sussistenza del reato contestato, ritenendo - al di là del materiale probatorio in atti, che ha ritenuto di non esaminare - che il riciclaggio non potesse avere ad oggetto genericamente i proventi di una attività mafiosa, bensì dovesse necessariamente riguardare il risultato economico di condotte illecite determinate, ancorchè poste in essere in esecuzione del programma criminale del sodalizio.

Ad avviso del Tribunale occorreva cioè che la provenienza del denaro fosse "tracciata" (e non meramente ipotizzata in quanto riferibile ad in soggetto o anche ad un gruppo criminale) al fine di accertarne l’ammontare e la effettiva provenienza da uno specifico delitto, posto anche che il delitto associativo, in quanto reato di pericolo, non produceva ex se un compendio criminoso e che la mancata indicazione delle specifiche attività criminose e dei proventi che avrebbero prodotto minava gravemente il diritto di difesa; e ciò anche con riguardo al delitto, ritenuto ugualmente presupposto, di illecita concorrenza con violenza e minaccia, poichè non era stato indicato a quanto ammontavano i proventi delittuosi che sarebbero confluiti nella somma che si intendeva riciclare e in base a quale tracciamento si assumeva che il denaro sarebbe stato destinato al delitto contestato e non per altre, eventualmente illecite, attività, considerato che era emerso che il D. aveva affidato alcune attività ai propri figli.

Ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma lamentando erronea applicazione dell’art. 648 bis c.p., nonchè mancanza o manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato sotto due diversi profili:

1) non era vero che il delitto associativo mafioso non potesse produrre ex se profitti o vantaggi ingiusti, a prescindere della commissione dei reati fini eventualmente costituenti il programma criminoso, poichè - al contrario di quanto avveniva per le ordinarie associazioni per delinquere e ciò costituiva il motivo per cui era stato introdotto nell’ordinamento il reato di cui all’art. 416 bis c.p. - era ben possibile ed anzi era usuale il fatto che le associazioni mafiose conseguissero profitti anche senza commettere ulteriori reati rispetto a quello associativo, in forza delle caratteristiche stesse della associazione, della intimidazione, dell’assoggettamento e della conseguente omertà interna ed esterna, promanante dal controllo delle attività economiche del territorio, che consentiva alla associazione mafiosa sia di trarre vantaggi da attività di per sè lecite, come ad esempio appalti pubblici conseguiti con metodo mafioso, sia di riservare a se stessa le attività più lucrative, senza dovere ricorrere alla commissione di ulteriori delitti - costituenti l’extrema ratio, anche per i rischi che comportavano - poichè il non associato desisteva volontariamente dal compiere attività concorrenziali o anche semplicemente sgradite alla associazione mafiosa; tale tesi trovava conforto anche nel novellato art. 12 ter del c.d. pacchetto sicurezza (L. 24 luglio 2008, n. 125) che aveva introdotto nel D.P.R. n. 115 del 2002, l’art. 76, comma 4 bis per cui era ritenuto immeritevole del patrocinio a spese dello stato il mafioso condannato anche soltanto per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., in base alla ratio che anche la semplice partecipazione alla associazione mafiosa provocava lucrosi proventi; era erroneo anche pretendere, ai fini della sussistenza del reato contestato, che la provenienza del denaro fosse tracciata poichè la tracciabilità del denaro e dei mezzi di pagamento era proprio l’obiettivo delle leggi antiriciclaggio e quindi la mancata individuazione della traccia era sintomo, e cioè indizio, della provenienza illecita del denaro, mentre l’esame delle prove in atti - che il Tribunale aveva omesso- avrebbe consentito di stabilire la relazione esistente fra il denaro che si intendeva utilizzare per l’acquisto del capitale sociale della Beta e quello che il D. aveva ricavato dalla sua partecipazione al sodalizio mafioso e dalla commissione del delitto di cui all’art. 513 bis c.p.; non vi era poi necessità di identificazione precisa del reato presupposto e della provenienza del bene da delitto, specie nel caso di denaro che era bene fungibile e la cui provenienza poteva essere anche mediata;

2) era illogica la motivazione del provvedimento impugnato laddove affermava che non era dato sapere a quanto ammontavano i proventi delittuosi della attività del D. confluiti nella somma che intendeva riciclare ed in relazione a quale condotta il delitto presupposto sarebbe stato compiuto, poichè per affermare ciò il Tribunale avrebbe dovuto esaminare il merito, il che avrebbe dimostrato che esisteva il clan dei casalesi cui era intraneo il D. che aveva acquisito il monopolio della commercializzazione del gas proprio in virtù del metodo mafioso e si era storicamente occupato delle attività finanziarie della suddetta organizzazione criminale e che infine il D., dopo avere depositato in istituti di credito di …, nel solo periodo fra …, denaro "non tracciato" per oltre Euro 3.000.000, ritenuto di provenienza illecita e quindi sottoposto a sequestro, aveva poi inteso investire il denaro ricavato "dal lavoro di una vita", come risultante da una intercettazione in atti, nell’acquisto della Beta.

Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.

Il ricorso è in effetti fondato.

Il delitto di riciclaggio di cui all’art. 648 bis c.p., riformulato dalla legge 328/1993, art.4, che ha provveduto a riscriverne la condotta in conformità alla Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, nonchè della Direttiva n. 166 del 10 giugno 1991 del Consiglio dei Ministri della Comunità Europea con cui gli stati membri venivano invitati ad evitare il riciclaggio dei proventi di reato, è oggi svincolato dalla pregressa tassativa indicazione dei reati che potevano costituirne il presupposto, esteso attualmente a tutti i delitti non colposi previsti dal codice penale (per cui il delitto di riciclaggio può presupporre come reato principale non solo delitti funzionalmente orientati alla creazione di capitali illeciti quali la corruzione, la concussione, i reati societari, i reati fallimentari, ma anche delitti che, secondo la visione più rigorosa e tradizionalmente ricevuta del fenomeno, vi erano estranei, come ad esempio i delitti fiscali e qualsiasi altro) e consiste in qualsiasi condotta tendente a "ripulire" il c.d. denaro sporco facendo perdere le tracce della sua provenienza delittuosa nelle diverse forme della sostituzione o del trasferimento del denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita ovvero del compimento di altre operazioni in modo da dissimularne la origine illecita e da ostacolarne l’identificazione della provenienza illecita.

La eliminazione della indicazione normativa dei reati - presupposto si è resa necessaria in conseguenza della straordinaria mutabilità delle forme usate dal mercato finanziario ed economico in genere nella formazione di capitali illeciti suscettibili di essere successivamente "lavati" e per la altrettanto straordinaria capacità delle menti finanziarie della grande criminalità organizzata nell’escogitare metodi e sistemi di pulitura dei capitali illeciti.

Da ciò deriva necessariamente anche la inclusione della associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p. fra i reati da cui provengono capitali illeciti, che, in quanto tali ed onde potere essere rimessi in circolazione come capitali ormai depurati e perciò investibili anche in attività economiche produttive legali, devono essere riciclati.

La tesi, sostenuta nel provvedimento impugnato, per cui solo i reati fine dell’associazione mafiosa potrebbero costituire presupposto del riciclaggio, mentre la associazione mafiosa, quale reato di puro pericolo, non potrebbe ex se produrre proventi illeciti, non appare in alcun modo condivisibile poichè il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. sussiste anche allorchè lo scopo dell’associazione è quello di trarre vantaggi o profitti da attività di per sè lecite (ad esempio gestione di attività economiche, acquisizione di appalti pubblici), purchè lo stesso sia perseguito con metodo mafioso, quale l’uso della forza intimidatrice della associazione, l’assoggettamento delle persone con tale timore, l’imposizione di atteggiamento omertoso (v. Cass. sez. 1 n. 4714 del 1996, rv. 204550; rv. 198576; rv. 198576; rv. 231967). E’ cioè possibile ed anzi usuale che la associazione mafiosa abbia fra i suoi scopi anche il perseguimento di attività di per sè formalmente lecite, conseguite attraverso il metodo mafioso che imponga, ad esempio, il monopolio di soggetti mafiosi in un certo settore attraverso la desistenza di eventuali concorrenti (v. Cass. sez. 6 n. 1793 del 1994, rv. 198576); il che determina che sia la stessa associazione mafiosa a creare proventi caratterizzati dal metodo mafioso, senza necessità della commissione di altri diversi reati da qualificare come fine della associazione.

Costituisce infatti un principio giurisprudenziale ormai consolidato quello per cui l’associazione di tipo mafioso si distingue dalla comune associazione per delinquere, come può rilevarsi dal semplice raffronto testuale fra le due norme incriminatrici (a cominciare dalla rispettiva rubrica, la prima delle quali è priva, non a caso, a differenza della seconda, dell’inciso "per delinquere"), anche per il fatto che essa non è necessariamente diretta alla commissione di delitti - pur potendo, questi, ovviamente, rappresentare lo strumento attraverso il quale gli associati perseguono i loro scopi - ma può anche essere diretta a realizzare, sempre con l’avvalersi della particolare forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, taluno degli altri obiettivi indicati dall’art. 416 bis c.p., fra i quali anche quello, assai generico, costituito dalla realizzazione di "profitti e vantaggi ingiusti per sè o per altri"; per cui, mentre non può parlarsi di associazione per delinquere ordinaria quando gli associati abbiano come scopo esclusivo la commissione non di un numero indeterminato di delitti, ma solo di uno o più delitti previamente individuati, nulla vieta la configurabilità, invece, del reato di associazione di tipo mafioso quando gli associati, pur essendosi dati un programma che, quanto a fini specificamente delittuosi, presenti le stesse limitazioni dianzi indicate, siano tuttavia mossi da altre concorrenti finalità comprese fra quelle previste dalla norma incriminatrice e comunque adottino, per la realizzazione di quel programma e delle altre eventuali finalità, i particolari metodi descritti dalla stessa norma (v., per tutte, Cass. sez. 1 n. 5405 del 2000, rv. 218089).

E di ciò si ha riprova anche nella legge 24 luglio 2008 n. 125, art. 12 ter (c.d. pacchetto sicurezza ), che ha introdotto nel D.P.R. 115/2002 l’art. 76 comma 4 bis (per cui per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli art. 416 bis c.p., nonchè per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, ai soli fini del presente decreto, il reddito si presume superiore ai limiti previsti), citato dal pubblico ministero ricorrente, che esclude dal patrocinio a spese dello stato il condannato anche soltanto per associazione mafiosa, sul chiaro presupposto che tale reato possa produrre ex se lucrosi proventi, indipendentemente dai reati fine della associazione.

La sentenza citata dal provvedimento impugnato (Cass. sez 2 n. 44138 del 2007, rv. 238311) non appare, dal suo canto, supportare la tesi per cui la attività di riciclaggio non potrebbe avere per presupposto il delitto associativo bensì solo il provento dei reati fine della associazione mafiosa, in quanto affronta il diverso problema - che qui non interessa - della possibilità che il concorrente nel reato associativo e cioè il partecipante alla associazione possa essere chiamato a rispondere anche del delitto di riciclaggio dei beni o dei profitti provenienti dalla attività associativa, con riferimento ai soli proventi della attività associativa ex se, indipendentemente dai proventi dei reati fine, e non lo risolve neppure con efficacia di giudicato in quanto nel caso di specie i proventi del reato di riciclaggio erano, in concreto, da individuarsi nei delitti fine della associazione rispetto ai quali non opera pacificamente la clausola di riserva "fuori dei casi di concorso nel reato" che qualifica la disposizione incriminatrice del delitto di riciclaggio.

Sotto tale profilo le conclusioni cui giunge il provvedimento impugnato sono quindi erronee, anche con riguardo alla presunta violazione dei diritti di difesa dell’indagato poichè, come risulta dal provvedimento impugnato, la provvista prima trasferita all’estero e poi rientrata in Italia, era stata ritenuta derivante dalle attività dei clan mafiosi operanti in provincia di …, di cui il D. era ritenuto collettore, oltre che dai proventi del delitto di illecita concorrenza violenta e minatoria riferibile al monopolio della Alfa, il che non limitava i diritti difensivi, restando poi una questione di merito la sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza in ordine alla condotta contestata.

E’ poi erroneo pure il secondo passaggio del provvedimento impugnato per cui mancherebbe, in relazione ad entrambi i reati indicati nella imputazione come reati - presupposto, il tracciamento preventivo del denaro proveniente da delitto e destinato al presunto riciclaggio, il che escluderebbe in radice la sussistenza del reato contestato.

Premesso che il riciclaggio esiste anche se non vengono identificati fattualmente tutti gli elementi costitutivi del reato presupposto, come ad esempio la data di commissione, potendo all’uopo sopperire le prove logiche e che non è neppure necessario che il reato presupposto sia stato accertato giudizialmente, è infatti corretto, anche sotto tale profilo, il rilievo del Pubblico Ministero ricorrente per cui, essendo diretto il riciclaggio ad eliminare la traccia delle operazioni illecite di provenienza, soltanto l’esame degli elementi indiziari offerti dall’accusa avrebbe potuto consentire di ricostruire la traccia della provenienza, anche mediata, del denaro da attività delittuosa. Appare quindi ingiustificato e contraddittorio il rifiuto, da parte del provvedimento impugnato, di prendere in esame il compendio indiziario (costituito nella specie da dichiarazioni dei collaboratori, intercettazioni telefoniche, indagini bancarie e precedenti accertamenti giudiziari versati in atti) per poi desumerne che non era dato conoscere l’ammontare dei proventi delittuosi confluiti nella somma che si intendeva riciclare e non in altre, eventualmente illecite, attività, poichè solo il controllo del materiale indiziario offerto dall’accusa e di eventuali controprove offerte dalla difesa, avrebbe consentito di verificare se dai reati presupposto erano derivati o meno proventi illeciti confluiti nella somma che, secondo la ipotesi accusatoria, l’indagato, in concorso con altri numerosi soggetti, intendevano riciclare.

Il provvedimento impugnato deve essere pertanto annullato con rinvio al Tribunale del riesame di Roma il quale si atterrà ai principi di diritto sopra indicati, con libertà di giudizio in ordine alla valutazione del compendio indiziario.

Così deciso in Roma, il 27 novembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2009

Con ordinanza in data 8 agosto 2008 il Tribunale di Roma, costituito ai sensi dell’art 309 c.p.p., ha annullato la ordinanza del GIP in sede in data 15.7.2008, come corretta con ordinanza del 25.7.2008, che aveva applicato, fra gli altri, a P.M. la misura della custodia cautelare in carcere per concorso in tentativo di riciclaggio aggravato dal metodo mafioso. Il fatto riguardava plurimi atti, aggravati dalla metodologia mafiosa e dalla strumentalità agevolatrice degli interessi della associazione mafiosa, diretti in modo non equivoco ad ostacolare la individuazione della provenienza delittuosa della provvista di denaro riferibile in parte alle diverse famiglie del c.d. clan dei casalesi, provento delle attività criminali del clan di concorrenza sleale violenta e minatoria (con riferimento in particolare al monopolio della Alfa di D. G. nella rivendita di bombole di gas in tutto il casertano e nel basso Lazio, acquisito con metodi sleali, violenti ed intimidatori in virtù dei collegamenti del D. con i clan camorristici della zona e segnatamente con la famiglia di R. G. detto … e del delitto di associazione mafiosa, ovvero del relativo reimpiego, quantificabile nella misura complessiva di circa Euro 21.700.000; provvista destinata ad essere reimpiegata in attività economiche lecite, nella specie per l’acquisto del capitale sociale della Beta, facente capo a L.C.. In base alle investigazioni svolte il denaro era riferibile al clan dei casalesi e proveniva o direttamente dalle attività criminali del clan ovvero dal reimpiego dei proventi acquisiti a mezzo di tali attività ed era nella disponibilità di D.G. che lo aveva immobilizzato in investimenti in essere in …

In tale ambito al P.M., che era direttore della banca di Tuscia, filiale di …, era stato contestato di avere supportato D.C.G. - quest’ultimo ritenuto mandatario di D. G., a sua volta ritenuto detentore della provvista finanziaria per conto proprio e delle associazioni mafiose operanti in provincia di … - anche con il contributo di altri coindagati ed in particolare di B.G., C.A., F.D., attuando plurime operazioni bancarie finalizzate a rendere materialmente disponibile la provvista dall’estero in Italia, così cooperando con il D.C. nelle operazioni dirette all’acquisto della Beta (predisposizione del futuro assetto societario, preparazione della documentazione necessaria ad attestare la reale disponibilità della provvista, coprendone la titolarità sostanziale, co-organizzazione di un gruppo di tifoseria organizzata laziale per indurre violentemente il presidente della Beta alla vendita del pacchetto di controllo societario, individuazione di Z.S. quale apparente finanziatore dell’acquisto, in modo da coprire il reale titolare delle somme, partecipazione diretta alle negoziazioni ed al mantenimento delle pubbliche relazioni).

Il Tribunale, andando di contrario avviso rispetto al GIP, ha escluso la sussistenza del reato contestato, ritenendo - al di là del materiale probatorio in atti, che ha ritenuto di non esaminare - che il riciclaggio non potesse avere ad oggetto genericamente i proventi di una attività mafiosa, bensì dovesse necessariamente riguardare il risultato economico di condotte illecite determinate, ancorchè poste in essere in esecuzione del programma criminale del sodalizio.

Ad avviso del Tribunale occorreva cioè che la provenienza del denaro fosse "tracciata" (e non meramente ipotizzata in quanto riferibile ad in soggetto o anche ad un gruppo criminale) al fine di accertarne l’ammontare e la effettiva provenienza da uno specifico delitto, posto anche che il delitto associativo, in quanto reato di pericolo, non produceva ex se un compendio criminoso e che la mancata indicazione delle specifiche attività criminose e dei proventi che avrebbero prodotto minava gravemente il diritto di difesa; e ciò anche con riguardo al delitto, ritenuto ugualmente presupposto, di illecita concorrenza con violenza e minaccia, poichè non era stato indicato a quanto ammontavano i proventi delittuosi che sarebbero confluiti nella somma che si intendeva riciclare e in base a quale tracciamento si assumeva che il denaro sarebbe stato destinato al delitto contestato e non per altre, eventualmente illecite, attività, considerato che era emerso che il D. aveva affidato alcune attività ai propri figli.

Ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma lamentando erronea applicazione dell’art. 648 bis c.p., nonchè mancanza o manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato sotto due diversi profili:

1) non era vero che il delitto associativo mafioso non potesse produrre ex se profitti o vantaggi ingiusti, a prescindere della commissione dei reati fini eventualmente costituenti il programma criminoso, poichè - al contrario di quanto avveniva per le ordinarie associazioni per delinquere e ciò costituiva il motivo per cui era stato introdotto nell’ordinamento il reato di cui all’art. 416 bis c.p. - era ben possibile ed anzi era usuale il fatto che le associazioni mafiose conseguissero profitti anche senza commettere ulteriori reati rispetto a quello associativo, in forza delle caratteristiche stesse della associazione, della intimidazione, dell’assoggettamento e della conseguente omertà interna ed esterna, promanante dal controllo delle attività economiche del territorio, che consentiva alla associazione mafiosa sia di trarre vantaggi da attività di per sè lecite, come ad esempio appalti pubblici conseguiti con metodo mafioso, sia di riservare a se stessa le attività più lucrative, senza dovere ricorrere alla commissione di ulteriori delitti - costituenti l’extrema ratio, anche per i rischi che comportavano - poichè il non associato desisteva volontariamente dal compiere attività concorrenziali o anche semplicemente sgradite alla associazione mafiosa; tale tesi trovava conforto anche nel novellato art. 12 ter del c.d. pacchetto sicurezza (L. 24 luglio 2008, n. 125) che aveva introdotto nel D.P.R. n. 115 del 2002, l’art. 76, comma 4 bis per cui era ritenuto immeritevole del patrocinio a spese dello stato il mafioso condannato anche soltanto per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., in base alla ratio che anche la semplice partecipazione alla associazione mafiosa provocava lucrosi proventi; era erroneo anche pretendere, ai fini della sussistenza del reato contestato, che la provenienza del denaro fosse tracciata poichè la tracciabilità del denaro e dei mezzi di pagamento era proprio l’obiettivo delle leggi antiriciclaggio e quindi la mancata individuazione della traccia era sintomo, e cioè indizio, della provenienza illecita del denaro, mentre l’esame delle prove in atti - che il Tribunale aveva omesso- avrebbe consentito di stabilire la relazione esistente fra il denaro che si intendeva utilizzare per l’acquisto del capitale sociale della Beta e quello che il D. aveva ricavato dalla sua partecipazione al sodalizio mafioso e dalla commissione del delitto di cui all’art. 513 bis c.p.; non vi era poi necessità di identificazione precisa del reato presupposto e della provenienza del bene da delitto, specie nel caso di denaro che era bene fungibile e la cui provenienza poteva essere anche mediata;

2) era illogica la motivazione del provvedimento impugnato laddove affermava che non era dato sapere a quanto ammontavano i proventi delittuosi della attività del D. confluiti nella somma che intendeva riciclare ed in relazione a quale condotta il delitto presupposto sarebbe stato compiuto, poichè per affermare ciò il Tribunale avrebbe dovuto esaminare il merito, il che avrebbe dimostrato che esisteva il clan dei casalesi cui era intraneo il D. che aveva acquisito il monopolio della commercializzazione del gas proprio in virtù del metodo mafioso e si era storicamente occupato delle attività finanziarie della suddetta organizzazione criminale e che infine il D., dopo avere depositato in istituti di credito di …, nel solo periodo fra …, denaro "non tracciato" per oltre Euro 3.000.000, ritenuto di provenienza illecita e quindi sottoposto a sequestro, aveva poi inteso investire il denaro ricavato "dal lavoro di una vita", come risultante da una intercettazione in atti, nell’acquisto della Beta.

Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.

Il ricorso è in effetti fondato.

Il delitto di riciclaggio di cui all’art. 648 bis c.p., riformulato dalla legge 328/1993, art.4, che ha provveduto a riscriverne la condotta in conformità alla Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, nonchè della Direttiva n. 166 del 10 giugno 1991 del Consiglio dei Ministri della Comunità Europea con cui gli stati membri venivano invitati ad evitare il riciclaggio dei proventi di reato, è oggi svincolato dalla pregressa tassativa indicazione dei reati che potevano costituirne il presupposto, esteso attualmente a tutti i delitti non colposi previsti dal codice penale (per cui il delitto di riciclaggio può presupporre come reato principale non solo delitti funzionalmente orientati alla creazione di capitali illeciti quali la corruzione, la concussione, i reati societari, i reati fallimentari, ma anche delitti che, secondo la visione più rigorosa e tradizionalmente ricevuta del fenomeno, vi erano estranei, come ad esempio i delitti fiscali e qualsiasi altro) e consiste in qualsiasi condotta tendente a "ripulire" il c.d. denaro sporco facendo perdere le tracce della sua provenienza delittuosa nelle diverse forme della sostituzione o del trasferimento del denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita ovvero del compimento di altre operazioni in modo da dissimularne la origine illecita e da ostacolarne l’identificazione della provenienza illecita.

La eliminazione della indicazione normativa dei reati - presupposto si è resa necessaria in conseguenza della straordinaria mutabilità delle forme usate dal mercato finanziario ed economico in genere nella formazione di capitali illeciti suscettibili di essere successivamente "lavati" e per la altrettanto straordinaria capacità delle menti finanziarie della grande criminalità organizzata nell’escogitare metodi e sistemi di pulitura dei capitali illeciti.

Da ciò deriva necessariamente anche la inclusione della associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p. fra i reati da cui provengono capitali illeciti, che, in quanto tali ed onde potere essere rimessi in circolazione come capitali ormai depurati e perciò investibili anche in attività economiche produttive legali, devono essere riciclati.

La tesi, sostenuta nel provvedimento impugnato, per cui solo i reati fine dell’associazione mafiosa potrebbero costituire presupposto del riciclaggio, mentre la associazione mafiosa, quale reato di puro pericolo, non potrebbe ex se produrre proventi illeciti, non appare in alcun modo condivisibile poichè il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. sussiste anche allorchè lo scopo dell’associazione è quello di trarre vantaggi o profitti da attività di per sè lecite (ad esempio gestione di attività economiche, acquisizione di appalti pubblici), purchè lo stesso sia perseguito con metodo mafioso, quale l’uso della forza intimidatrice della associazione, l’assoggettamento delle persone con tale timore, l’imposizione di atteggiamento omertoso (v. Cass. sez. 1 n. 4714 del 1996, rv. 204550; rv. 198576; rv. 198576; rv. 231967). E’ cioè possibile ed anzi usuale che la associazione mafiosa abbia fra i suoi scopi anche il perseguimento di attività di per sè formalmente lecite, conseguite attraverso il metodo mafioso che imponga, ad esempio, il monopolio di soggetti mafiosi in un certo settore attraverso la desistenza di eventuali concorrenti (v. Cass. sez. 6 n. 1793 del 1994, rv. 198576); il che determina che sia la stessa associazione mafiosa a creare proventi caratterizzati dal metodo mafioso, senza necessità della commissione di altri diversi reati da qualificare come fine della associazione.

Costituisce infatti un principio giurisprudenziale ormai consolidato quello per cui l’associazione di tipo mafioso si distingue dalla comune associazione per delinquere, come può rilevarsi dal semplice raffronto testuale fra le due norme incriminatrici (a cominciare dalla rispettiva rubrica, la prima delle quali è priva, non a caso, a differenza della seconda, dell’inciso "per delinquere"), anche per il fatto che essa non è necessariamente diretta alla commissione di delitti - pur potendo, questi, ovviamente, rappresentare lo strumento attraverso il quale gli associati perseguono i loro scopi - ma può anche essere diretta a realizzare, sempre con l’avvalersi della particolare forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, taluno degli altri obiettivi indicati dall’art. 416 bis c.p., fra i quali anche quello, assai generico, costituito dalla realizzazione di "profitti e vantaggi ingiusti per sè o per altri"; per cui, mentre non può parlarsi di associazione per delinquere ordinaria quando gli associati abbiano come scopo esclusivo la commissione non di un numero indeterminato di delitti, ma solo di uno o più delitti previamente individuati, nulla vieta la configurabilità, invece, del reato di associazione di tipo mafioso quando gli associati, pur essendosi dati un programma che, quanto a fini specificamente delittuosi, presenti le stesse limitazioni dianzi indicate, siano tuttavia mossi da altre concorrenti finalità comprese fra quelle previste dalla norma incriminatrice e comunque adottino, per la realizzazione di quel programma e delle altre eventuali finalità, i particolari metodi descritti dalla stessa norma (v., per tutte, Cass. sez. 1 n. 5405 del 2000, rv. 218089).

E di ciò si ha riprova anche nella legge 24 luglio 2008 n. 125, art. 12 ter (c.d. pacchetto sicurezza ), che ha introdotto nel D.P.R. 115/2002 l’art. 76 comma 4 bis (per cui per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli art. 416 bis c.p., nonchè per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, ai soli fini del presente decreto, il reddito si presume superiore ai limiti previsti), citato dal pubblico ministero ricorrente, che esclude dal patrocinio a spese dello stato il condannato anche soltanto per associazione mafiosa, sul chiaro presupposto che tale reato possa produrre ex se lucrosi proventi, indipendentemente dai reati fine della associazione.

La sentenza citata dal provvedimento impugnato (Cass. sez 2 n. 44138 del 2007, rv. 238311) non appare, dal suo canto, supportare la tesi per cui la attività di riciclaggio non potrebbe avere per presupposto il delitto associativo bensì solo il provento dei reati fine della associazione mafiosa, in quanto affronta il diverso problema - che qui non interessa - della possibilità che il concorrente nel reato associativo e cioè il partecipante alla associazione possa essere chiamato a rispondere anche del delitto di riciclaggio dei beni o dei profitti provenienti dalla attività associativa, con riferimento ai soli proventi della attività associativa ex se, indipendentemente dai proventi dei reati fine, e non lo risolve neppure con efficacia di giudicato in quanto nel caso di specie i proventi del reato di riciclaggio erano, in concreto, da individuarsi nei delitti fine della associazione rispetto ai quali non opera pacificamente la clausola di riserva "fuori dei casi di concorso nel reato" che qualifica la disposizione incriminatrice del delitto di riciclaggio.

Sotto tale profilo le conclusioni cui giunge il provvedimento impugnato sono quindi erronee, anche con riguardo alla presunta violazione dei diritti di difesa dell’indagato poichè, come risulta dal provvedimento impugnato, la provvista prima trasferita all’estero e poi rientrata in Italia, era stata ritenuta derivante dalle attività dei clan mafiosi operanti in provincia di …, di cui il D. era ritenuto collettore, oltre che dai proventi del delitto di illecita concorrenza violenta e minatoria riferibile al monopolio della Alfa, il che non limitava i diritti difensivi, restando poi una questione di merito la sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza in ordine alla condotta contestata.

E’ poi erroneo pure il secondo passaggio del provvedimento impugnato per cui mancherebbe, in relazione ad entrambi i reati indicati nella imputazione come reati - presupposto, il tracciamento preventivo del denaro proveniente da delitto e destinato al presunto riciclaggio, il che escluderebbe in radice la sussistenza del reato contestato.

Premesso che il riciclaggio esiste anche se non vengono identificati fattualmente tutti gli elementi costitutivi del reato presupposto, come ad esempio la data di commissione, potendo all’uopo sopperire le prove logiche e che non è neppure necessario che il reato presupposto sia stato accertato giudizialmente, è infatti corretto, anche sotto tale profilo, il rilievo del Pubblico Ministero ricorrente per cui, essendo diretto il riciclaggio ad eliminare la traccia delle operazioni illecite di provenienza, soltanto l’esame degli elementi indiziari offerti dall’accusa avrebbe potuto consentire di ricostruire la traccia della provenienza, anche mediata, del denaro da attività delittuosa. Appare quindi ingiustificato e contraddittorio il rifiuto, da parte del provvedimento impugnato, di prendere in esame il compendio indiziario (costituito nella specie da dichiarazioni dei collaboratori, intercettazioni telefoniche, indagini bancarie e precedenti accertamenti giudiziari versati in atti) per poi desumerne che non era dato conoscere l’ammontare dei proventi delittuosi confluiti nella somma che si intendeva riciclare e non in altre, eventualmente illecite, attività, poichè solo il controllo del materiale indiziario offerto dall’accusa e di eventuali controprove offerte dalla difesa, avrebbe consentito di verificare se dai reati presupposto erano derivati o meno proventi illeciti confluiti nella somma che, secondo la ipotesi accusatoria, l’indagato, in concorso con altri numerosi soggetti, intendevano riciclare.

Il provvedimento impugnato deve essere pertanto annullato con rinvio al Tribunale del riesame di Roma il quale si atterrà ai principi di diritto sopra indicati, con libertà di giudizio in ordine alla valutazione del compendio indiziario.

Così deciso in Roma, il 27 novembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2009