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Analisi criminologica della delittuosità finanziaria

fuoco (dentro di te)
Ph. Luca Martini / fuoco (dentro di te)

Analisi criminologica della delittuosità finanziaria

 

I postulati di Sutherland

I lemmi white collar crime (crimini dei colletti bianchi) sono stati coniati da Sutherland in uno Studio del 1939. Laub (1983)[1] ha affermato che gli asserti di Sutherland hanno dato il via ad una vera e propria “rivoluzione copernicana” della Criminologia, che non aveva mai preso in considerazione l'acuta pericolosità sociale della devianza dei professionisti. Del pari, Mannheim (1975)[2] evidenziava la rottura con una Scienza del crimine troppo concentrata sul tradizionale trinomio “omicidio volontario-stupro-rapina”. Prima della “scoperta” dello white collar crime, gli Operatori mettevano in risalto quasi esclusivamente la delittuosità violenta agita da individui provenienti da ceti sociali poveri e disagiati. In effetti, per parte sua, Forti (2000)[3] sostiene che “[bisogna] strappare la spessa coltre di rispettabilità convenzionale da cui è circondata la categoria dei colletti bianchi […] gli illeciti di dirigenti, amministratori, funzionari, azionisti di maggioranza, banche, giornalisti, magistrati, uomini politici e, soprattutto, grandi imprese industriali e commerciali vanno meticolosamente passati al setaccio, senza sottacere nomi, date e particolari”.

Come notato da Raciti (2005)[4], il merito di Sutherland consta nell'aver fondato la teoria delle associazioni differenziali, per la quale “il reato va ricondotto nell'alveo delle dinamiche interrelazionali del gruppo sociale […]. La condotta delinquenziale deriva dall'apprendimento di un eccesso di definizioni favorevoli all'illegalità, a prescindere dal contesto ambientale di riferimento; la trasmissione di tali definizioni avviene attraverso un rapporto interpersonale caratterizzato da frequenza, durata, priorità ed intensità”. In realtà, anche gli italiofoni Lombroso & Ferrero (1893)[5] nonché Laschi (1899)[6] avevano inaugurato una certa produzione scientifica afferente alla “delinquenza bancaria”. Parimenti, negli USA, Veblen (1899/1999)[7], Josephson (1934)[8] e Morris (1935)[9] hanno anticipato gli scritti di Sutherland (1940)[10]. Da menzionare sono pure i giornalisti “muckrackers” (indagatori del marcio), che, nei primi decenni del Novecento, avevano pubblicato una serie di articoli di cronaca su individui della “upper class” dediti a reati rimasti impuniti a causa della rispettabilità formale di siffatti esponenti dell'alta borghesia nord-americana. In particolar modo, Raciti (ibidem)[11] ha rimarcato che la Criminologia statunitense degli Anni Venti, Trenta e Quaranta del XX Secolo “ha smentito in modo categorico la precedente elaborazione criminologica”, per la quale l'unica delittuosità collettivamente destabilizzante sarebbe quella del sotto-proletariato formato da alcolisti e disoccupati. D'altronde, Ruggiero (1999)[12] ha evidenziato che, con Sutherland ed i suoi precursori, “per la prima volta si attribuivano spazio e dignità, nel dibattito scientifico, a reati perpetrati mediante condotte fraudolente e corruttive in ambito politico, economico e professionale: in breve, alla criminalità dei potenti”.

Le ricerche sullo white collar crime, dopo decenni di menzogne scientifiche, ripristinavano la ratio novecentesca della piena eguaglianza tra consociati. Veniva abbandonato, quindi, lo stereotipo dell'operaio povero ed incline al crimine etero-lesivo. Anzi, giustamente, Volk (1998)[13] ha messo in risalto il profilo “democratico” dell'analisi del crimine dei colletti bianchi, il quale “genera indignazione [e] i consociati, per conseguenza, si attendono e pretendono energiche forme di contrasto ed un severo trattamento sanzionatorio […] [ poiché] è innegabile il senso di ingiustizia e frustrazione derivante dalla possibilità che l'esercizio dell'azione penale sia influenzato dall'appartenenza dell'autore ad un determinato ceto sociale, garantendo una sorta di zona franca di impunità per le classi dominanti”. Probabilmente, a parere di chi redige, Sutherland (ibidem)[14] non era estraneo al fascino dell'egualitarismo socialista sorto proprio nei primi anni del Novecento. E' innegabile, infatti, una spinta verso il desiderio collettivo di “giustizia sociale” all'interno dell'analisi dello white collar crime. D'altra parte, la pericolosità della delinquenza dei ceti borghesi non reca affatto una pericolosità sociale meramente “astratta”, bensì altera il delicato equilibrio macroeconomico IS/LM.

Su tale tematica, Volk (ibidem)[15] ha puntualizzato che “si possono innescare effetti vortice, per cui coloro che operano sul mercato con mezzi illeciti sono avvantaggiati rispetto ai concorrenti onesti, così determinando l'attrazione di questi ultimi nel vortice del crimine, allo scopo di rimanere competitivi”. D'altro canto, è noto che il crimine dei colletti bianchi viene esercitato con una climax quantitativamente e qualitativamente ascendente, in tanto in quanto, nel lungo periodo, la “catena” dei reati professionali, anziché indebolirsi, si accresce d'intensità e porta il reo ad una reiterazione compulsiva degli atti corruttivi. E' pure importante, come fatto sempre da Volk (ibidem)[16], non minimizzare le “conseguenze dannose” della delittuosità in colletto bianco; ovverosia, il crimine finanziario scardina la “concorrenza perfetta”, recando ad una macroeconomia profondamente inficiata dall'illegalità e non realmente produttiva. A parere di chi scrive, tale “inquinamento” del mercato è emblematicamente esemplificato dal contesto dei mercati dell'ex Unione Sovietica poco prima dello scioglimento dell'URSS; le oligarchie e la corruttela generano gravi ingiustizie sociali che, nel lungo periodo, provocano l'implosione dell'intero sistema. Volk (ibidem)[17], con estrema amarezza, nota anch'egli che “la business missconduct […] riguarda materie specialistiche, di ardua intelligibilità per l'uomo medio […]. Si avverte poco un'unanime riprovazione sociale. [Nel settore della finanza] la sensazione di minaccia e la riprovazione etico-sociale si dileguano nella nebbia dell'ignoranza, del disinteresse e dell'incomprensione”.

All'opposto, lo street crime provoca una notevole e subitanea reazione collettiva di rigetto. Il crimine di strada tende ad unire la collettività imbevuta della demagogia e del populismo mass-mediatico. Anzi, l'opinione pubblica si manifesta, nei confronti dei delitti “dei deboli” (Ruggiero, ibidem)[18], estremamente scettica circa la ratio della riabilitazione carceraria, come dimostrano certune richieste a-tecniche di “pene esemplari” di lunga durata. Volk (ibidem)[19] sintetizza molto bene che “[sussiste] un atteggiamento di indifferenza verso lo white collar crime da parte dei consociati, che non si sentono direttamente minacciati. Molta gente non è spaventata tanto da questo tipo di criminalità, quanto dall'idea che lo Stato possa sprecare […] energie per combatterla, invece di preoccuparsi della sicurezza personale dei cittadini nella vita di tutti i giorni”. Ciò che manca, a parere di chi commenta, è una seria prospettiva nazionalpopolare di lungo periodo; adulterare un contesto IS/LM non è mai privo di conseguenza, pur se si tratta di cambiamenti lenti e difficilmente percettibili senza una visione tecnicamente contestualizzante. Interessante è l'analisi etica che dello white collar crime fornisce Green (2006)[20], che parla di “moral ambiguity” (ambiguità morale) del crimine finanziario. Tale Dottrinario anglofono evidenzia che, presso l'opinione pubblica, non sempre si condanna la delittuosità dei professionisti, la quale viene ridotta a “scorrettezze” di calibro bagatellare.

Con attinenza a siffatta problematica, anche Forti (ibidem)[21] invoca la necessità di un “risanamento etico dei settori corrotti della società […] [Poiché] una morale economica debole dev'essere sorretta con un busto penalistico dalle stecche rigide”. Di nuovo, in Forti (ibidem)[22] si sottolinea la diffusa mancanza di un lucido senso civico in grado di prevenire o, perlomeno, di sradicare i reati commerciali. In realtà, come nota Friedrichs (2004)[23], “un decisivo contributo alla frequente deformazione dell'immagine dello white collar crime presso l'opinione pubblica viene dallo specchio costituito dai mass-media, che tendono a minimizzare l'impatto del fenomeno, preferendo concentrarsi sullo street crime, più sensazionale e meno astruso […] [Il fine dei giornalisti] è anche quello di evitare contenziosi legali aventi per oggetto stratosferiche richieste di risarcimento danni, a seguito di possibili casi di diffamazione a mezzo stampa”. Analogo è il parere di Forti (ibidem)[24], a parere del quale esiste “indifferenza nei confronti dello white collar crime da parte di opinioni pubbliche ed istituzioni, allarmate più dai vistosi fatti di sangue investiti dai riflettori della cronaca che dalla sotterranea distruzione della compagine morale della società perpetrata quotidianamente dalle sue élites politiche ed economiche”. Quindi, Forti (ibidem)[25] denunzia la mancanza di una corretta etica economica nel mondo dell'alta borghesia. Sono lontani i tempi della teoria della “mano invisibile” di Smith e Keyns.

 

I successori di Sutherland

Negli Anni Duemila, Meier (2001)[26] sostiene che Sutherland sia ancora perfettamente attuale. Viceversa, Green (ibidem)[27] reputa che, dopo un'ottantina d'anni, la locuzione “white collar crime” è “imprecisa e vaga […] e non fornisce all'interprete alcun filtro selettivo attraverso cui circoscriverne il valore semantico […] [ Si tratta di] una locuzione talmente problematica e sfaccettata da non permettere la prevalenza di una definizione unitaria”. D'altra parte, con molta onestà intellettuale, lo stesso Sutherland (ibidem)[28] si dichiarava aperto a nuovi orizzonti ermeneutici e riconosceva, egli medesimo, “il carattere non definitivo del concetto di white collar crime”. Negativamente critico si manifesta pure Raciti (ibidem)[29], secondo cui “esistono molte difficoltà nella caratterizzazione criminologica del c.d. colletto bianco, concepito come persona rispettabile, o almeno rispettata, ed appartenente alla classe superiore. Difatti, l'elemento della rispettabilità pecca, a ben vedere, di soggettivismo e tende a sovrapporsi alle condizioni patrimoniali [agiate] dell'individuo […]. E' meglio ricostruire questo concetto in chiave giuridica, ossia in termini di assenza di precedenti penali a carico del colletto bianco autore del reato”.

A sua volta, invece, Mannheim (ibidem)[30] reputa che il reo di crimini finanziari è, di fatto, una persona “rispettabile”, nel senso che i consociati non dubitano della “onestà e probità del criminale in colletto bianco”. Più sfumato e Geis (1974)[31], a parere del quale il responsabile di delitti economici pone in essere solamente “upperworld crime”, ossia “reati commessi da soggetti non rientranti nella categoria dell'abituale tipo delinquenziale, ovvero individui che vivono in contesti degradati e/o sofferenti di anomalie psichiche”. Secondo Nelken (1994)[32], un grave errore di Sutherland consta nel non distinguere tra la responsabilità penale personale dei singoli infrattori e la responsabilità simbolica delle persone giuridiche esercenti un'attività d'impresa; più nel dettaglio, in buona sostanza, Nelken (ibidem)[33] censura che “Sutherland ha omesso di tracciare un confine netto tra i reati commessi uti singuli dai criminali dal colletto bianco ed i fenomeni di illegalità in ambito societario (i cc.dd. corporate crime), con ciò contribuendo in maniera decisiva a rendere ambigua la categoria dello white collar crime”. Dunque, in Sutherland, non si distingue sufficientemente bene tra la “personalità” della responsabilità penale e la “natura meramente patrimoniale” di un'eventuale condanna della persona giuridica. Del pari, Hirschi & Gottfredson (1987)[34] contestano, in Sutherland, la mancata precisazione del carattere esclusivamente “simbolico” della responsabilità penale delle imprese.

Secondo taluni Dottrinari, lo white collar crime è tale non perché agito da professionisti, bensì perché ha ad oggetto reati che alterano la genuinità della libera concorrenza. P.e., secondo Reiss & Biderman (1980)[35], è “crimine dei colletti bianchi” un illecito “a fini di lucro” messo in atto con “modalità fraudolente” e consumato “in ambito politico-affaristico”. Dunque, come si nota, Reiss & Biderman (ibidem)[36] focalizzano l'attenzione della Criminologia sul reato, mentre le qualifiche del reo passano in secondo piano. Il crimine finanziario, pertanto, possiede una valenza ontologica ed indipendente dalla posizione sociale e dal ruolo di dirigenza rivestiti dall'infrattore. Altri Autori, come Brickey (1990)[37] hanno predisposto un elenco catalogico di fattispecie penalmente definite come “crimini dei colletti bianchi”. Altri ancora, come Green (ibidem)[38] e Volk (ibidem)[39] evidenziano che i delinquenti economici sono riconoscibili da caratteristiche comportamentali “fisse” che li accomunano sotto il profilo della qualificazione criminologica. Infine, non sono mancati coloro che hanno suggerito di abbandonare la ratio del “crimine in colletto bianco”, ma si tratta di una tesi minoritaria, in tanto in quanto siffatta categoria ha riscosso un successo ormai globale, come dimostrano le innumerevoli traduzioni delle Opere di Sutherland.

Secondo un primo filone esegetico, inaugurato da Simon (2002)[40], la c.d. “devianza delle élites deve inserire, nel concetto di white collar crime, oltre alle condotte penalmente rilevanti, anche quelle non costituenti reato, ma pur sempre riprovevoli”. Viceversa, Edelhertz (1970)[41] è più restrittivo, ovverosia, a parere di tale Criminologo, “la gran parte dei crimini dei colletti bianchi non viene commessa da appartenenti alle élites sociali. Emblematico, al riguardo, è l'esempio del reato di insider trading, il cui leading case, trattato dalla Corte Suprema federale nel 1980 (United States vs. Chiarella) concerneva la condotta di un impiegato di tipografia, dunque una tuta blu e non uno white collar”. In terzo luogo, Clinard & Quinney (1973)[42] sostengono, nel reinterpretare ed integrare Sutherland, che i crimini finanziari tali sono e rimangono sotto il profilo sostanziale, quindi “a prescindere dal ceto di appartenenza dell'autore”. A ragion veduta, la posizione di Clinard & Quinney (ibidem)[43] è stata radicalmente contestata da Green (ibidem)[44], in tanto in quanto sganciare i delitti economici dal “ceto di appartenenza dell'autore” impedisce, nella Prassi, di sussumere molti reati all'interno della categoria degli white collar crimes. Ovverosia, è troppo concettuoso pretendere di distinguere la sfera privata del colletto bianco da quella professionale, giacché l'indole delinquenziale compulsiva è sempre la medesima. Il soggetto in colletto bianco manifesta consotte antisociali nonché antigiuridiche anche al di fuori della sfera lavorativa.

Lyman & Potter (2004)[45] notano che “al di là dei tentativi di elaborare una diversa locuzione idonea a descrivere il fenomeno [del crimine finanziario], va sottolineato che, negli ultimi decenni, la criminalità economica ha subito una vera e propria mutazione genetica, conformandosi, per molti aspetti, alle caratteristiche del crimine organizzato comune”. Come ovvio, gli asserti di Lyman & Potter (ibidem)[46] si attagliano perfettamente alla situazione delle mafie calabro-sicule, le quali, nell'ultimo periodo, si sono “professionalizzate”, abbandonando l'uso della violenza fisica e materiale. A tal proposito, Fornari (1997)[47] mette in evidenza che “[le mafie e lo white collar crime] sono accomunate da un dato di scontata rilevanza giuridica: il carattere associativo che entrambe tali forme di criminalità presentano nelle loro più frequenti manifestazioni. Più in generale, il trait d'union tra queste due tipologie delinquenziali consta nel comune orientamento al profitto, cui corrisponde il sempre più visibile riprodursi, nell'area della criminalità economica, di modalità operative tipiche dell'organized crime: in primis la corruzione di pubblici funzionari”. Similmente, Paliero (2004)[48] rimarca la contiguità tra “criminalità economica” e “criminalità organizzata”.

D'altra parte, in Dottrina, svariati Autori hanno rilevato che, in Italia, a partire dagli Anni Novanta del Novecento, istituti penalistici messi in campo dal Legislatore per la lotta alla mafia sono oggi utilizzato anche per contrastare le devianze degli white collars. P.e., Alessandri (2005)[49] sottolinea che la confisca è abbondantemente impiegata tanto per la criminalità organizzata quanto per gli illeciti dei colletti bianchi, ovverosia, secondo il summenzionato Dottrinario, “esistono condotte che, ad un certo livello, si assomigliano in modo impressionante […] [poiché]la finanziarizzazione della produzione della ricchezza, sia essa lecita o illecita, ha determinato l'adozione di identiche strategie di contrasto”. In effetti, nei leading cases Cirio, Parmalat e Antonveneta/BNL, la Magistratura requirente ha spesso utilizzato il concetto di “associazione per delinquere” ex Art. 416 CP.

 

Lo white collar crime e l'”organized crime”

Negli Anni Duemila, lo white collar crime si è distinto per i requisiti della “imprenditorialità” e della “organizzazione professionale”; siffatti due connotati richiamano da vicino le associazioni per delinquere, specialmente quelle di stampo mafioso. A tal proposito, Smith (1982)[50] sostiene che “la criminalità economica può essere concepita nei termini di un'impresa illegale, per molti versi accostabile ai racket gestiti dal crimine organizzato comune […] . I due fenomeni [i crimini finanziari e le mafie] possono essere osservati da un angolo visuale unitario, grazie alla valorizzazione del profilo dell'imprenditorialità”. Ognimmodo, già negli Anni Settanta del Novecento, Reiss (1978)[51] osservava che “bisogna porre l'accento sull'elemento organizzativo quele tratto caratterizzante del modus operandi dei colletti bianchi autori di reati […]. [Anzi] spesso lo white collar crime è addirittura sovrapponibile in pieno al concetto di organizational crime”. Dunque, per molti Autori, la delittuosità degli white collar è, in sintesi, “professionalmente ed imprenditorialmente” organizzata alla stregua di una vera e propria impresa commerciale.

Ovverosia, parafrasando l'Art. 2082 CC, “[è delinquente finanziario] chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi [illeciti]”. Del resto, anche Albanese (1982)[52] precisa che tanto le mafie quanto la criminalità dei colletti bianchi sono “imprese”, pur se l'oggetto, i fini e le modalità operative affondano le loro radici nella più totale illegalità. Analogamente, Maltz (1976)[53] mette in risalto che i colletti bianchi pongono in essere “reati [imprenditorialmente] organizzati”, che vengono consumati da “un'associazione per delinquere basata su violenza, furto, corruzione, abuso del potere economico, inganno, collusione o cooperazione della vittima”. Nuovamente, pertanto, Maltz (ibidem)[54] tratteggia lo white collar crime alla stregua di un delitto economico organizzato, il che avvicina i colletti bianchi agli esponenti della criminalità organizzata. In realtà, pure Sutherland ammetteva la frequente vicinanza tra criminalità economica ed organizzazioni mafiose.

P.e., Sutherland (ibidem)[55] osservava che “il crimine dei colletti bianchi è un crimine organizzato […] [poiché] gli white collars commettono illeciti attraverso l'impiego distorto di strumenti giuridici di per sé legali o di istituzioni rappresentative di categoria. […]. I reati dei colletti bianchi sono, dunque, simili a quelli della criminalità organizzata”. Anzi, Sutherland (1937)[56] evidenzia che, nel mondo dei professionisti devianti, sussistono un'unità ed un'omertà analoghe a quelle riscontrabili nelle cosche della malavita organizzata. Interessante è pure il parallelismo tra mafie e white collar crime posto da Ruggiero (2002)[57], nel senso che, per tale Dottrinario, “la tesi a sostegno dell'avvicinamento tra il crimine organizzato e quello degli white collars poggia su una pluralità di considerazioni, incentrate sulla somiglianza dei valori in gioco nei rispettivi ambiti, la complessità strutturale, l'impatto sul contesto di riferimento e la tendenziale comunanza del know-how delinquenziale […]. I colletti bianchi […] ed il crimine organizzato commettono reati congiuntamente. Essi formano partnership contingenti o di medio o lungo periodo, si scambiano servizi e promuovono scambievolmente le proprie attività imprenditoriali”.

Di nuovo, chi redige reputa le osservazioni di Ruggiero (2002)[58] pienamente idonee alla descrizione delle mafie calabro-sicule, ove imprenditorialità, potere economico e corruzione dominano incontrastati. In effetti, Reed & Hughes (1992)[59] utilizzano il lemma anglofono “organization” sia per la criminalità organizzata sia per lo white collar crime. Anche secondo Pugh (1990)[60], tanto le mafie quanto i colletti bianchi hanno in comune un'associazione per delinquere, un fine unitario, un contesto ambientale criminogeno, una struttura gerarchica e la scelta di una strategia criminosa. Del pari, Bakke (1980)[61] riconosce che gli white collar ed i gregari della mafia condividono quasi sempre un ambiente, una struttura ed una strategia organizzata che rende non distinguibili i reati finanziari da quelli di cui all'Art. 416 bis CP. In ogni caso, si tratta sempre di reati professionalmente organizzati, come se si trattasse di una ordinaria impresa commerciale con fini leciti. Ecco, dunque, di nuovo il ritorno della “imprenditorialità nel crimine” ai sensi del paradigma ex Art. 2082 CC. D'altra parte, anche McIntosh (1975)[62] parla di una “efficienza tecnica d'impresa” la quale richiama da vicino quello che, nell'Ordinamento italiano, è l'Art. 2082 CC. Similmente, Bernard (1938)[63] impiega l'espressione “razionalità organizzativa”, intesa come quella “pianificazione” che consente, sia al mafioso sia al colletto bianco, di massimizzare il lucro senza essere scoperto ed incriminato dalla PG e dall'AG. Oppure ancora, entro tale medesima ottica “imprenditoriale” del crimine, Cressey (1972)[64] specifica che le “mafie economiche” razionalizzano la loro struttura e ripartiscono i ruoli come se si trattasse di una vera e propria “azienda” dedita, però, alla commissione di reati commerciali. A loro volta, Best & Luckenbill (1994)[65] evidenziano che, nella “organized deviance”, esistono delle cc.dd. “squadre” che si ripartiscono il lavoro in maniera razionalizzata ed altamente professionale; ciò, di nuovo, vale tanto per le mafie quanto per gli white collar.

A parere di Schager & Short (1978)[66] “riconoscere agli illeciti dei colletti bianchi, commessi in associazione, i caratteri dell'imprenditorialità, divisione del lavoro e specializzazione consente di aderire in maniera più precisa alla realtà fattuale, che, soprattutto in tempi recenti, è stata caratterizzata dall'aumento esponenziale di fenomeni illegali dal volto imprenditoriale, realizzati indistintamente si da gruppi di white collar sia da criminali comuni”. P.e., i leading cases Parmalat ed Enron hanno rivelato la collusione tra professionisti e criminalità organizzata, in tanto in quanto le mafie sono solite nascondere le proprie attività illecite all'interno di imprese apparentemente e formalmente lecite. P.e., Alessandri (1991)[67] ha affermato che esistono, tra la delinquenza economica e quella organizzata, dei “paradigmi comuni” che fanno estendere la precettività dell'Art. 416 bis CP alla fattispecie del crimine finanziario. In effetti, per Coffee (1979)[68], “l'impresa [apparentemente legale, ndr] ha carattere criminogeno laddove la politica aziendale costituisca l'epifania di una sub-cultura criminale”. P.e., si ponga mente al leading case “Pizza Connection”, in cui i proventi del narcotraffico erano riciclati in locali di ristorazione al di sopra di ogni sospetto. Oppure ancora, si pensi agli investimenti della 'Ndrangheta negli stabilimenti balneari della Spagna e del Sud della Francia. Addirittura, D'Amato (2006)[69] nota che ormai è passata l'epoca del ”reato monosoggettivo del colletto bianco”, nel senso che, negli Anni Duemila, la criminalità economica è quasi sempre commessa all'interno di associazioni per delinquere conformi al modello strutturale di cui all'Art. 416 bis CP. Di più, a parere di Gobert & Punch (2003)[70], gli white collars sono sempre più implicati in danni alle persone o alle cose, mentre, sino ad una trentina d'anni fa, si reputava che le estorsioni ed i regolamenti di conti fossero delitti tipicamente ed esclusivamente di stampo mafioso. Inoltre, in epoca odierna, sia la criminalità organizzata sia quella commerciale creano un sistema culturale di omertà e di intimidazione, ed anche ciò accomuna gli white collars ai gregari delle mafie.


Conclusioni

E' innegabile, perlomeno nel contesto normativo italiano, la somiglianza tra gli white collar crimes ed il paradigma de jure condito contenuto nell'Art. 416 bis CP. D'altra parte, Fornari (1997)[71] parla espressamente, nella criminalità dei colletti bianchi, dell'esistenza di un “gruppo di comando” dedito ad una commissione di reati “sistemica”, ossia “professionalmente organizzata”, come se si trattasse di una “ordinaria” impresa commerciale. Sempre Fornari (1997)[72] accosta la delittuosità finanziaria a quella mafiosa, in tanto in quanto, in entrambe le fattispecie, “le attività illecite vengono coordinate mediante modalità comunicative ed interattive che riproducono modelli costanti che stabiliscono l'esistenza dell'organizzazione. Di essa è elemento essenziale la presenza di uno statuto, più o meno formalizzato, che ne determina finalità e metodi operativi, articolandola, se necessario, in sotto-sistemi, fissandone la struttura gerarchica e rendendola così tendenzialmente insensibile ai mutamenti delle persone fisiche che si avvicendano al suo interno”. La magistrale descrizione suesposta di Fornari (1997)[73] richiama da vicino la struttura iper-organizzata delle “locali” della 'Ndrangheta. Utile, su tale tematica, è pure Heine (1996)[74], che parla di un “top management”, nel crimine professionale, il quale gestisce “una grande impresa [illecita, ndr], che acquisisce capacità di azione coordinando, con maggiore o minore autonomia, le diverse funzioni applicate nei vari reparti e sezioni aziendali”. Come si può notare, Heine (ibidem)[75] torna anch'egli a proporre una visione “imprenditoriale” sia dello white collar crime sia della assai simile criminalità organizzata.

 

Addirittura, Gross (1980)[76] giunge a parlare degli white collars come di “managers” impegnati nel “perseguimento degli obiettivi della loro impresa”. Pertanto, anche l'interpretazione di Gross (ibidem)[77] propone una visione “imprenditoriale” delle associazioni per delinquere capitanate dai colletti bianchi. Tutto ciò, come nelle migliori aziende, è, naturalmente, reso possibile, come asseriscono Monahan & Novaco (1980)[78], dalla supina “ubbidienza” dei gregari a quella che viene espressamente definita la “filosofia dell'impresa”. Ecco, nuovamente, il ritorno dello schema strutturale di cui all'Art. 2082 CC; ciononostante, nel caso delle associazioni per delinquere, la finalità non è un lucro onesto, bensì “frodi, evasioni fiscali, contributi ai politici e corruzione” (Tonry & Reiss, 1993)[79]. Oppure ancora, la supina ubbidienza dei gregari alle mafie economiche è ribadita da Lampe (1994)[80], il quale nota che “le direttive d'azione ed i valori dell'impresa veicolati attraverso l'apparato organizzativo e le reti di comunicazione intra-aziendali costituiscono indicazioni vincolanti per colui che deve agire per conto dell'ente”. Quindi, Lampe (ibidem)[81] giustamente mette in risalto il carattere assoluto del potere di chi gestisce l'associazione per delinquere finalizzata alla commissione di crimini economico-patrimoniali. Di nuovo, in Lampe (ibidem)[82], è riaffermata la somiglianza strutturale ed operativa tra mafie e delinquenza dei professionisti. Siffatto dettaglio non era adeguatamente e sufficientemente indagato nelle Opere di Sutherland. Nella Dottrina penalistica, Alessandri (ibidem)[83] ha sottolineato, ex comma 1 Art. 27 Cost.,  che “la responsabilità penale è personale […] dunque, in materia penale, è impossibile sfuggire alle proprie responsabilità […]. Ogni giustificazione di carattere astratto e generico - dallo Zeitgeist al complesso di Edipo – crolla […] [poiché] non vengono giudicati sistemi, tendenze o peccati originali, ma persone in carne ed ossa, come voi e come me”. In effetti, anche Gobert & Punch (ibidem)[84] mettono in risalto che gli white collars tendono ad imputare colpe al “sistema”, ma, nella Giuspenalistica, l'individualità della responsabilità impedisce l'imputabilità delle persone giuridiche e delle organizzazioni, la cui eventuale condanna in sede civilistica reca natura meramente pecuniario-risarcitoria. Parimenti, pure Forti (ibidem)[85] contesta la “visione istituzionale della criminalità d'impresa”, poiché la sussistenza di istituzioni illecite e persone giuridiche non può violare la ratio suprema di cui al comma 1 Art. 27 Cost. . A tal proposito, Gobert & Punch (ibidem)[86] osservano anch'essi che spesso gli associati per delinquere, nello white collar crime organizzato, tendono ad attribuire ogni responsabilità ad “enti collettivi personificati”, ma ciò viola il principio di individualità della colpa penale. D'altra parte, non avrebbe alcun senso parlare di una “rieducazione carceraria” di un'impresa o altro ente simile. Negli ultimi decenni, svariati Autori hanno coniato l'espressione “criminalità economica organizzata”. Questo concetto è nato negli USA, a seguito di gravi scandali finanziari che hanno manifestato, con piena evidenza, la contiguità strutturale e materiale esistente tra l'organized crime e la corruzione economica. Friedrichs (ibidem)[87] ha messo, però, in guardia dalle generalizzazioni.  In quanto non sempre lo white collar crime è consumato all'interno di/ con l'ausilio di forme criminose associative. Del pari, Green (ibidem)[88] reputa che sia eccessivo postulare una perenne congiunzione tra il crimine dei colletti bianchi e la criminalità organizzata. Probabilmente, Green (ibidem)[89] non tiene presente la situazione criminologica italiana, ove la “criminalità economica organizzata” costituisce il cibo ordinario di associazioni delinquenziali come Cosa Nostra, la 'Ndrangheta e la Camorra. Molti altri Dottrinari giudicano negativamente l'accostamento automatico dello stampo mafioso” ad ogni forma associativa nata per commettere la delinquenza finanziaria. Pertanto, nel Diritto Penale italiano, non esistono, de jure condito, parallelismi istantanei tra gli white collars ed i componenti di cosche mafiose organizzate. Per conseguenza, Forti (ibidem)[90] invita anch'egli a contestualizzare, di volta in volta, “i mezzi, gli strumenti e le tecnologie in uso per perpetrare i reati”. A parere di chi commenta, nel contesto italiano, perlomeno sotto il profilo sociologico e criminologico, lo white collar crime, in epoca attuale, è anche, nella quasi totalità dei casi, organized crime

 

[1]Laub, Criminology in the Making. An Oral History, Boston, 1983

 

[2]Mannheim, Trattato di criminologia comparata, trad. it a cura di Ferracuti, Torino, 1975

 

[3]Forti, L'immane concretezza (Metamorfosi del crimine e controllo penale), Milano, 2000

 

[4]Raciti, il criminale economico nella ricerca criminologica: dall'opera di Sutherland alle più recenti formulazioni teoretiche, in Rivista trimestrale di diritto penale dell'economia, 2005

 

[5]Lombroso & Ferrero, Sui recenti processi bancari di Roma e Parigi, in Archivio di psichiatria, scienze penali e antropologia criminale, 1893

 

[6]Laschi, La delinquenza bancaria nella sociologia criminale, nella storia e nel diritto, Torino, 1899

 

[7]Veblen, La teoria della classe agiata (1899). Traduzione italiana, Milano, 1999

 

[8]Josephson, I baroni ladri, 1934, tradizione italiana, Milano, 1947

 

[9]Morris,  Criminology, London, 1935

 

[10]Sutherland, White Collar Criminality, in American Sociological Review, Vol. 5. 1940

 

[11]Raciti, op. cit.

[12]Ruggiero, Delitti dei deboli e dei potenti, Milano, 1999

 

[13]Volk, sistema penale e criminalità economica (I rapporti tra dommatica, politica criminale e processo), Napoli, 1998

 

[14]Sutherland, op. cit.

 

[15]Volk, op. cit.

 

[16]Volk, op. cit.

 

[17]Volk, op. cit.

 

[18]Ruggiero, op. cit.

 

[19]Volk, op. cit.

 

[20]Green, Lying, Cheating and Stealing (A Moral Theory of White Collar Crime), Oxford, 2006

 

[21]Forti, op. cit.

 

[22]Forti, op. cit.

 

[23]Friedrichs, Trusted Criminals, II Ed., Belmont, 2004

 

[24]Forti, op. cit.

 

[25]Forti, op. cit.

 

[26]Meier, Geis, Sutherland and White Collar Crime, in Pontell & Shichor, Contemporary Issues in Crime and Criminal Justice, Upper Saddle River, 2001

 

[27]Green, op. cit.

 

[28]Sutherland, op. cit.

 

[29]Raciti, op. cit.

 

[30]Mannheim, op. cit.

 

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[33]Nelken, op. cit.

 

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[36]Reiss & Biderman, op. cit.

 

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[38]Green, op. cit.

 

[39]Volk, op. cit.

 

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[43]Clinard & Quinney, op. cit.

 

[44]Green, op. cit.

 

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[46]Lyman & Potter, op. cit.

 

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[54]Maltz, op. cit.

 

[55]Sutherland, op. cit.

 

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[71]Fornari (1997), op. cit.

 

[72]Fornari (1997), op. cit.

 

[73]Fornari (1997), op. cit.

 

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[75]Heine, op. cit.

 

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[77]Gross, op. cit.

 

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[81]Lampe, op. cit.

 

[82]Lampe, op. cit.

 

[83]Alessandri, op. cit.

 

[84]Gobert & Punch, op. cit.

 

[85]Forti, op. cit.

 

[86]Gobert & Punch, op. cit.

 

[87]Friedrichs, op. cit.

 

[88]Green, op. cit.

 

[89]Green, op. cit.

 

[90]Forti, op. cit.