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Cassazione Penale: legittimo l’Italian Design sui prodotti importati dall’estero

Sezione Terza Penale

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Con sentenza in data 26/1/2006, pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, il Gup presso il tribunale di Como mandava assolto con la formula “perché il fatto non sussiste” Tizio dal reato di cui all’articolo 517 Cp in relazione all’articolo 4 comma 49 legge 350/03 per avere nella sua qualità di rappresentante legale della Srl “Alfa” con sede in Senigallia detenuto per la vendita, presentandoli in dogana per l’importazione, n. 1949 orologi da polso fabbricati per suo conto da un produttore di Hong Kong, recanti indicazioni di provenienza fallaci. In particolare, detti orologi recavano tutti incisa sul retro della cassa la dicitura “Officina del Tempo – Italy”, nonché, la maggior parte di essi, la dicitura “Italian design”, impressa sulla parte inferiore del quadrante. Il Tribunale mandava assolto Tizio sul presupposto che, nel caso di specie, le diciture di cui sopra si limitavano ad indicare che il produttore (inteso come soggetto giuridico) era italiano e che la progettazione era opera di designer italiani: circostanze assolutamente veritiere. Il fatto che la fabbricazione fosse delocalizzata all’estero osservava il primo Giudice non rilevava ai fini della sussistenza del delitto, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica di Como, argomentando che la pronuncia impugnata era allineata con le prime sentenza in tema di questa Corte, ritenendo, tuttavia, che tale orientamento meritasse di essere riconsiderato alla luce della genesi storica e della ratio dell’articolo 4 comma 49 legge 350/03. In particolare assumeva il ricorrente l’orientamento giurisprudenziale in base al quale l’imputato era stato assolto tendeva a privare le definizioni di “ falsa” e “ fallace indicazione di provenienza” di un reale coefficiente innovativo rispetto alla generale disposizione di cui all’articolo 517 Cp. Si chiedeva, pertanto, l’annullamento della sentenza con rinvio al Gup per una nuova decisione.

In data 8/1/2007 la difesa del Tizio presentava una memoria rilevando come, del tutto correttamente, la sentenza di primo grado avesse aderito al prevalente indirizzo giurisprudenziale, che nega al concetto di “provenienza” o “origine” delineato dall’articolo 517 Cp qualunque valenza geografica. Andava altresì considerato che il fatto era stato commesso in data 22/7/2004, quando, cioè, la formulazione letterale del precetto penale si limitava alle “fallaci indicazioni di provenienza”, senza alcun riferimento alla “origine”.

L’inciso “o di origine” era stato, infatti, inserito circa un anno dopo con il Dl 35/2005. In ogni caso argomentava la Difesa anche l’introduzione di tale inciso non sembrava aver introdotto un riferimento “geografico” al concetto di provenienza. Nel caso specifico, la “Alfa Srl”, avvalendosi di stilisti italiani, redigeva i progetti ed i modelli ornamentali degli orologi di sua esclusiva proprietà: i suoi dirigenti controllavano costantemente il processo di assemblaggio e le operazioni finali di verifica e collaudo venivano eseguite in Italia. Pertanto, l’unica fase della produzione delegata doveva ritenersi l’assemblaggio, operazione da sola non sufficiente a negare l’origine italiana di un prodotto. Si chiedeva il rigetto del ricorso.

Il proposto ricorso deve ritenersi infondato e, come tale, va rigettato.

La motivazione adottata dal tribunale di Como è perfettamente allineata con l’indirizzo di questa Corte, secondo cui, con l’espressione origine e provenienza del prodotto, il Legislatore ha inteso fare riferimento alla provenienza del prodotto da un determinato produttore e non già da un determinato luogo (cfr., ex multis, Cassazione, Sezione terza, sentenza 24043/06, Dewar; cfr. Sezione terza, 19/4/2005, Tarantino). Invero, secondo la più accreditata dottrina e giurisprudenza, il marchio rappresenta il segno distintivo di un prodotto siccome proveniente da un determinato imprenditore e contenente determinate caratteristiche qualitative in quanto risultato di un processo di fabbricazione del quale il suddetto imprenditore, titolare del segno distintivo, coordina economicamente e giuridicamente i vari momenti e fattori del procedimento di produzione.

Nell’interpretazione del precetto penale, dunque, non può trascurarsi la funzione che il marchio ha nella attuale realtà economica, in cui numerose imprese, multinazionali o nazionali, si avvalgono, ai fini della produzione, della attività di altre imprese in vario modo controllate. Questo tipo di organizzazione produttiva è pacificamente ritenuto lecito, proprio perché la garanzia che l’articolo 517 Cp ha inteso assicurare al consumatore riguarda l’origine e la provenienza del prodotto, non già da un determinato luogo (ad eccezione delle ipotesi espressamente previste dalla legge), bensì da un determinato produttore, vale a dire da un imprenditore che ha la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione.

Non può, invero, negarsi che l’imprenditore, nel campo dell’attività industriale, ben può affidare a terzi sub fornitori l’incarico di produrre materialmente un determinato bene e può imprimervi il proprio marchio con i suoi segni distintivi. La disposizione di cui all’articolo 517 Cp è volta a tutelare la fiducia dell’acquirente. A tal fine, la induzione in inganno di cui all’articolo 517 Cp riguarda l’origine, la provenienza o qualità dell’opera o del prodotto.

Ma, a ben vedere, i primi due elementi sono funzionali al terzo, che, in realtà, è il solo fondamentale, giacché, normalmente, il luogo o lo stabilimento in cui il prodotto è confezionato è del tutto indifferente alla qualità del prodotto stesso. Del resto, la disciplina generale del marchio non esige che venga pure indicato il luogo di produzione del prodotto e, dal punto di vista giuridico, il marchio non garantisce la qualità del prodotto, ma rappresenta solo il collegamento tra un determinato prodotto e l’impresa, non nel senso della materialità della fabbricazione, ma della responsabilità del produttore il quale ne garantisce la qualità, essendo il solo responsabile verso l’acquirente.

Da questi principi è stata fatta derivare la conseguenza che “ anche una indicazione errata o imprecisa relativa al luogo di produzione non può costituire motivo di inganno su uno dei tassativi aspetti considerati dall’articolo 517 Cp, in quanto deve ritenersi pacifico che l’origine del prodotto deve intendersi in senso esclusivamente giuridico, non avendo alcuna rilevanza la provenienza materiale, posto che origine e provenienza sono indicate, a tutela del consumatore, solo quali origine e provenienza dal produttore (cfr. Cassazione, Sezione terza, 7/7/1999, Thum).

Questa Corte ha anche più volte ribadito che il richiamato orientamento interpretativo non può ritenersi superato per effetto dell’ articolo 4, comma 49, della legge 350/03 (anche come modificato dal Dl 14/3/2005, articolo 1, comma 9, convertito nella legge 80/2005), in quanto le nuove disposizioni non possono essere interpretate nel senso che con esse il Legislatore abbia voluto implicitamente stravolgere la costante interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, rendendo applicabile l’articolo 517 Cp anche ai casi di prodotti fabbricati o fatti fabbricare in stabilimenti esteri da un produttore italiano che si assume la piena responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione e che rechino solo il marchio o l’indicazione della impresa italiana e non anche l’indicazione del fatto che la fabbricazione materiale è avvenuta in uno stabilimento estero.

Conferma di questa conclusione si ha anche dalla considerazione che, se il Legislatore avesse voluto effettivamente modificare la portata precettiva dell’articolo 517 Cp, la normativa richiamata dal Procuratore della Repubblica ricorrente avrebbe imposto agli imprenditori italiani, che commercializzano in Italia beni da essi o per essi prodotti all’estero, un obbligo di positiva indicazione del luogo in cui i beni importati sono materialmente prodotti.

La tesi seguita da questa Corte trova anche conferma nella necessità di dare alle disposizioni in esame la dovuta interpretazione adeguatrice, giacché, se dovesse ritenersi che le nuove disposizioni abbiano davvero imposto agli imprenditori italiani un obbligo siffatto, sorgerebbero seri dubbi di contrasto con alcuni principi comunitari e costituzionali. Sotto il primo profilo, può rammentarsi che gli organi dell’Unione Europea si sono più volte espressi con disfavore in ordine alla marcatura di origine dei prodotti in applicazione dei principi sulla libera circolazione delle merci; sotto il secondo profilo, potrebbe prospettarsi, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, una ingiustificata disparità di trattamento tra gli imprenditori nazionali.

Invero, sarebbe consentito solo agli imprenditori nazionali, che si rivolgono per la realizzazione dei propri prodotti ad altri produttori nazionali, di omettere l’indicazione della origine e provenienza, mentre tale indicazione sarebbe obbligatoria qualora i prodotti fossero realizzati a parità di condizioni qualitative all’estero. Inoltre, poiché in ambito comunitario vige il principio che il prodotto legalmente commercializzato in uno Stato membro deve poter essere commercializzato negli altri Stati membri e poiché non risulta l’esistenza di norme comunitarie che impongano l’indicazione della origine e provenienza del prodotto in casi come quello in esame, l’operatore nazionale potrebbe trovarsi discriminato rispetto all’operatore di altro Stato membro, poiché solo al primo sarebbe imposto l’obbligo della indicazione della origine del prodotto.

Il ricorso proposto deve essere conseguentemente rigettato

PQM

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso del Pubblico Ministero.

Roma, 24 gennaio 2007

Depositato il 1 marzo 2007

Sezione Terza Penale

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Con sentenza in data 26/1/2006, pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, il Gup presso il tribunale di Como mandava assolto con la formula “perché il fatto non sussiste” Tizio dal reato di cui all’articolo 517 Cp in relazione all’articolo 4 comma 49 legge 350/03 per avere nella sua qualità di rappresentante legale della Srl “Alfa” con sede in Senigallia detenuto per la vendita, presentandoli in dogana per l’importazione, n. 1949 orologi da polso fabbricati per suo conto da un produttore di Hong Kong, recanti indicazioni di provenienza fallaci. In particolare, detti orologi recavano tutti incisa sul retro della cassa la dicitura “Officina del Tempo – Italy”, nonché, la maggior parte di essi, la dicitura “Italian design”, impressa sulla parte inferiore del quadrante. Il Tribunale mandava assolto Tizio sul presupposto che, nel caso di specie, le diciture di cui sopra si limitavano ad indicare che il produttore (inteso come soggetto giuridico) era italiano e che la progettazione era opera di designer italiani: circostanze assolutamente veritiere. Il fatto che la fabbricazione fosse delocalizzata all’estero osservava il primo Giudice non rilevava ai fini della sussistenza del delitto, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica di Como, argomentando che la pronuncia impugnata era allineata con le prime sentenza in tema di questa Corte, ritenendo, tuttavia, che tale orientamento meritasse di essere riconsiderato alla luce della genesi storica e della ratio dell’articolo 4 comma 49 legge 350/03. In particolare assumeva il ricorrente l’orientamento giurisprudenziale in base al quale l’imputato era stato assolto tendeva a privare le definizioni di “ falsa” e “ fallace indicazione di provenienza” di un reale coefficiente innovativo rispetto alla generale disposizione di cui all’articolo 517 Cp. Si chiedeva, pertanto, l’annullamento della sentenza con rinvio al Gup per una nuova decisione.

In data 8/1/2007 la difesa del Tizio presentava una memoria rilevando come, del tutto correttamente, la sentenza di primo grado avesse aderito al prevalente indirizzo giurisprudenziale, che nega al concetto di “provenienza” o “origine” delineato dall’articolo 517 Cp qualunque valenza geografica. Andava altresì considerato che il fatto era stato commesso in data 22/7/2004, quando, cioè, la formulazione letterale del precetto penale si limitava alle “fallaci indicazioni di provenienza”, senza alcun riferimento alla “origine”.

L’inciso “o di origine” era stato, infatti, inserito circa un anno dopo con il Dl 35/2005. In ogni caso argomentava la Difesa anche l’introduzione di tale inciso non sembrava aver introdotto un riferimento “geografico” al concetto di provenienza. Nel caso specifico, la “Alfa Srl”, avvalendosi di stilisti italiani, redigeva i progetti ed i modelli ornamentali degli orologi di sua esclusiva proprietà: i suoi dirigenti controllavano costantemente il processo di assemblaggio e le operazioni finali di verifica e collaudo venivano eseguite in Italia. Pertanto, l’unica fase della produzione delegata doveva ritenersi l’assemblaggio, operazione da sola non sufficiente a negare l’origine italiana di un prodotto. Si chiedeva il rigetto del ricorso.

Il proposto ricorso deve ritenersi infondato e, come tale, va rigettato.

La motivazione adottata dal tribunale di Como è perfettamente allineata con l’indirizzo di questa Corte, secondo cui, con l’espressione origine e provenienza del prodotto, il Legislatore ha inteso fare riferimento alla provenienza del prodotto da un determinato produttore e non già da un determinato luogo (cfr., ex multis, Cassazione, Sezione terza, sentenza 24043/06, Dewar; cfr. Sezione terza, 19/4/2005, Tarantino). Invero, secondo la più accreditata dottrina e giurisprudenza, il marchio rappresenta il segno distintivo di un prodotto siccome proveniente da un determinato imprenditore e contenente determinate caratteristiche qualitative in quanto risultato di un processo di fabbricazione del quale il suddetto imprenditore, titolare del segno distintivo, coordina economicamente e giuridicamente i vari momenti e fattori del procedimento di produzione.

Nell’interpretazione del precetto penale, dunque, non può trascurarsi la funzione che il marchio ha nella attuale realtà economica, in cui numerose imprese, multinazionali o nazionali, si avvalgono, ai fini della produzione, della attività di altre imprese in vario modo controllate. Questo tipo di organizzazione produttiva è pacificamente ritenuto lecito, proprio perché la garanzia che l’articolo 517 Cp ha inteso assicurare al consumatore riguarda l’origine e la provenienza del prodotto, non già da un determinato luogo (ad eccezione delle ipotesi espressamente previste dalla legge), bensì da un determinato produttore, vale a dire da un imprenditore che ha la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione.

Non può, invero, negarsi che l’imprenditore, nel campo dell’attività industriale, ben può affidare a terzi sub fornitori l’incarico di produrre materialmente un determinato bene e può imprimervi il proprio marchio con i suoi segni distintivi. La disposizione di cui all’articolo 517 Cp è volta a tutelare la fiducia dell’acquirente. A tal fine, la induzione in inganno di cui all’articolo 517 Cp riguarda l’origine, la provenienza o qualità dell’opera o del prodotto.

Ma, a ben vedere, i primi due elementi sono funzionali al terzo, che, in realtà, è il solo fondamentale, giacché, normalmente, il luogo o lo stabilimento in cui il prodotto è confezionato è del tutto indifferente alla qualità del prodotto stesso. Del resto, la disciplina generale del marchio non esige che venga pure indicato il luogo di produzione del prodotto e, dal punto di vista giuridico, il marchio non garantisce la qualità del prodotto, ma rappresenta solo il collegamento tra un determinato prodotto e l’impresa, non nel senso della materialità della fabbricazione, ma della responsabilità del produttore il quale ne garantisce la qualità, essendo il solo responsabile verso l’acquirente.

Da questi principi è stata fatta derivare la conseguenza che “ anche una indicazione errata o imprecisa relativa al luogo di produzione non può costituire motivo di inganno su uno dei tassativi aspetti considerati dall’articolo 517 Cp, in quanto deve ritenersi pacifico che l’origine del prodotto deve intendersi in senso esclusivamente giuridico, non avendo alcuna rilevanza la provenienza materiale, posto che origine e provenienza sono indicate, a tutela del consumatore, solo quali origine e provenienza dal produttore (cfr. Cassazione, Sezione terza, 7/7/1999, Thum).

Questa Corte ha anche più volte ribadito che il richiamato orientamento interpretativo non può ritenersi superato per effetto dell’ articolo 4, comma 49, della legge 350/03 (anche come modificato dal Dl 14/3/2005, articolo 1, comma 9, convertito nella legge 80/2005), in quanto le nuove disposizioni non possono essere interpretate nel senso che con esse il Legislatore abbia voluto implicitamente stravolgere la costante interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, rendendo applicabile l’articolo 517 Cp anche ai casi di prodotti fabbricati o fatti fabbricare in stabilimenti esteri da un produttore italiano che si assume la piena responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione e che rechino solo il marchio o l’indicazione della impresa italiana e non anche l’indicazione del fatto che la fabbricazione materiale è avvenuta in uno stabilimento estero.

Conferma di questa conclusione si ha anche dalla considerazione che, se il Legislatore avesse voluto effettivamente modificare la portata precettiva dell’articolo 517 Cp, la normativa richiamata dal Procuratore della Repubblica ricorrente avrebbe imposto agli imprenditori italiani, che commercializzano in Italia beni da essi o per essi prodotti all’estero, un obbligo di positiva indicazione del luogo in cui i beni importati sono materialmente prodotti.

La tesi seguita da questa Corte trova anche conferma nella necessità di dare alle disposizioni in esame la dovuta interpretazione adeguatrice, giacché, se dovesse ritenersi che le nuove disposizioni abbiano davvero imposto agli imprenditori italiani un obbligo siffatto, sorgerebbero seri dubbi di contrasto con alcuni principi comunitari e costituzionali. Sotto il primo profilo, può rammentarsi che gli organi dell’Unione Europea si sono più volte espressi con disfavore in ordine alla marcatura di origine dei prodotti in applicazione dei principi sulla libera circolazione delle merci; sotto il secondo profilo, potrebbe prospettarsi, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, una ingiustificata disparità di trattamento tra gli imprenditori nazionali.

Invero, sarebbe consentito solo agli imprenditori nazionali, che si rivolgono per la realizzazione dei propri prodotti ad altri produttori nazionali, di omettere l’indicazione della origine e provenienza, mentre tale indicazione sarebbe obbligatoria qualora i prodotti fossero realizzati a parità di condizioni qualitative all’estero. Inoltre, poiché in ambito comunitario vige il principio che il prodotto legalmente commercializzato in uno Stato membro deve poter essere commercializzato negli altri Stati membri e poiché non risulta l’esistenza di norme comunitarie che impongano l’indicazione della origine e provenienza del prodotto in casi come quello in esame, l’operatore nazionale potrebbe trovarsi discriminato rispetto all’operatore di altro Stato membro, poiché solo al primo sarebbe imposto l’obbligo della indicazione della origine del prodotto.

Il ricorso proposto deve essere conseguentemente rigettato

PQM

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso del Pubblico Ministero.

Roma, 24 gennaio 2007

Depositato il 1 marzo 2007