Cassazione SU Civili: la violazione dei doveri dell’intermediario finanziario non comporta nullità del contratto
Le Sezioni Unite sono partite nel proprio percorso interpretativo dal rilievo che "le norme dettate dal citato art. 6 della legge n. 1 del 1991 (al pari di quelle che le hanno poi sostituite) hanno carattere imperativo: nel senso che esse, essendo dettate non solo nell’interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma anche nell’interesse generale all’integrità dei mercati finanziari (come è ora reso esplicito dalla formulazione dell’art. 21, letto a, del D. Lgs n. 58 del 1998, ma poteva ben ricavarsi in via d’interpretazione sistematica già nel vigore della legislazione precedente), si impongono inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti. Questo rilievo, tuttavia, non è da solo sufficiente a dimostrare che la violazione di una o più tra dette norme comporta la nullità dei contratti stipulati dall’intermediario col cliente. E’ ovvio che la loro violazione non può essere, sul piano giuridico, priva di conseguenze - e se ne dirà - ma non è detto che la conseguenza sia necessariamente la nullità del contratto.
Innanzitutto, è evidente che il legislatore - il quale certo avrebbe potuto farlo e che, nella medesima legge, non ha esitato ad altro proposito a farlo - non ha espressamente stabilito che il mancato rispetto delle citate disposizioni interferisce con la fase genetica del contratto e produce l’effetto radicale della nullità invocata dai ricorrenti. Non si tratta quindi certamente di uno di quei casi di nullità stabiliti dalla legge ai quali allude il terzo comma dell’art. 1418 c.c.
Neppure i casi di nullità contemplati dal secondo comma dell’articolo da ultimo citato, però, sono invocabili nella situazione in esame. E’ vero che tra questi casi figura anche quello della mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325, e che il primo di tali requisiti è l’accordo delle parti. Ma, ove pure si voglia ammettere che nella fase prenegoziale la violazione dei doveri di comportamento dell’intermediario sopra ricordati siano idonei ad influire sul consenso della controparte contrattuale, inquinandolo, appare arduo sostenere che sol per questo il consenso manca del tutto; ed i vizi del consenso - se pur di essi si possa parlare - non determinano la nullità del contratto, bensì solo la sua annullabilità, qualora ricorrano le condizioni previste dagli artt. 1427 e segg. c.c.
Resta però da considerare l’ipotesi che, in casi come quello di cui qui si discute, la nullità possa dipendere dall’applicazione della disposizione dettata dal primo comma del citato art. 1418: che si possa, cioè, predicare la nullità (c.d. virtuale) del contratto contrario a norme imperative, tali essendo appunto le norme dettate dall’articolo 6 della Legge 1 del 1991".
Vale la pena di riportare i passaggi salienti della pronuncia, che si chiude con una pietra tombale sulla possibilità di invocare la nullità del contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull’intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva.
"Nel settore della intermediazione finanziaria non è dato assolutamente rinvenire indici univoci dell’intenzione del legislatore di trattare sempre e comunque le regole di comportamento, ivi comprese quelle concernenti i doveri d’informazione " dell’altro contraente, alla stregua di regole di validità degli atti.
La difesa di parte ricorrente ha inteso trarre argomento dalla previsione di nullità dei contratti di prestazione a distanza dei servizi finanziari, contemplata dall’art. 16, quarto comma, del D. Lgs. 19 agosto 2005, n. 190, per il caso in cui il fornitore ostacoli l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente ovvero non rimborsi le somme da questi eventualmente pagate, oppure violi gli obblighi informativi precontrattuali in modo da alterare significativamente la rappresentazione delle caratteristiche del servizio. Ma, oltre ad essere di molto successiva ai fatti di causa, detta previsione resta sistematicamente isolata nel nostro ordinamento e presenta evidenti caratteri di specialità, che non consentono di fondare su di essa nessuna affermazione di principio.
Se si ha poi riguardo, in modo particolare, al tenore letterale delle norme dettate per disciplinare l’attività ed i contratti delle società d’intermediazione mobiliare, si constata immediatamente come il legislatore abbia espressamente ipotizzato alcune ipotesi di nullità, afferenti alla forma ed al contenuto patti zio dell’atto (art. 8, ult. comma, della legge n. 1 del 1991, ed ora all’art. 23, commi l, 2 e 3, ed art. 24, ult. comma, del d. 19s. n. 58 del 1998), nessuna delle quali appare tuttavia riconducibile alla violazione delle regole di comportamento gravanti sull’intermediario in tema di informazione del cliente e di divieto di operazioni in conflitto d’interessi o inadeguate al profilo patrimoniale del cliente medesimo. Situazioni, queste ultime, che il legislatore ha invece evidentemente tenuto in considerazione per i loro eventuali risvolti in tema di responsabilità, laddove ha espressamente posto a carico dell’intermediario l’onere della prova di aver agito con la necessaria diligenza (art. 13, ult. comma, della legge n. 1 del 1991, ora sostituito dall’art. 23, ult. comma, del d. 19s. n. 58 del 1998).
Né giova appellarsi alla valenza generale dell’interesse alla correttezza del comportamento degli intermediari finanziari, per i riflessi che ne possono derivare sul buon funzionamento dell’intero mercato.
Alla tutela di siffatto interesse sono preordinati il sistema dei controlli facenti capo all’autorità pubblica di vigilanza ed il regime delle sanzioni che ad esso accede, ma nulla se ne può dedurre in ordine alla pretesa nullità dei singoli contratti sul piano del diritto civile, tanto più che questa dovrebbe pur sempre logicamente esser concepita in termini di nullità di protezione, ossia di nullità relativa (come infatti indicano le citate disposizioni del d. 19s n. 58 e del d. 19s. n. 190, con riguardo ai casi in cui la nullità è effettivamente contemplata), e già questo, in difetto di qualsiasi norma che espressamente lo preveda, rende problematico ogni ancoraggio alla figura generale della nullità configurata dal primo comma dell’art. 1418 c.c.
E’ significativo, d’altronde, che al descritto quadro normativo, per lo specifico profilo ora considerato, il legislatore non abbia mai avvertito la necessità di apportare modifiche di rilievo da quando fu emanata la legge n. 1 del 1991, nonostante le ripetute rivisitazioni di tale normativa sino al recentissimo del d. 19s. 17 settembre 2007, n. 164, che ha recepito la direttiva n. 2004/39/Ce e che del pari si è astenuto dall’estendere l’esplicita previsione di nullità alla violazione delle regole di comportamento contrattuale e precontratttuale di cui si sta discutendo.
Così stando le cose, la tesi secondo cui il mancato rispetto dei surriferiti doveri comportamentali dell’intermediario nella fase prenegoziale o in quella attuativa del rapporto sarebbe idoneo a riflettersi sulla validità genetica del contratto stipulato con il cliente, priva com’è di base testuale e di supporti sistematici, potrebbe nondimeno conservare una qualche plausibilità solo ove risultasse l’unica in grado di rispondere all’esigenza - sicuramente presente nella normativa in questione e coerente con la previsione dell’art. 47, comma 1, Costo - di incoraggiare il risparmio e garantirne la tutela. Ma è evidente che così non è, perché non può ragionevolmente sostenersi che la suaccennata esigenza implichi necessariamente la scelta, da parte del legislatore, del mezzo di tutela consistente proprio nel prevedere la nullità dei contratti nelle situazioni in discorso, cosi travolgendo sia il discrimine tra regole di comportamento e regole di validità sia quello tra vizi genetici e vizi funzionali del contratto.
Richiamando la distinzione già prima tracciata tra gli obblighi che precedono ed accompagnano la stipulazione del contratto d’intermediazione e quelli che si riferiscono alla successiva fase esecutiva, può subito rilevarsi come la violazione dei primi (ove non si traduca addirittura in situazioni tali da determinare l’annullabilità - mai comunque la nullità - del contratto per vizi del consenso) è naturalmente destinata a produrre una responsabilità di tipo precontrattuale, da cui ovviamente discende l’obbligo per l’intermediario di risarcire gli eventuali danni. Non osta a ciò l’avvenuta stipulazione del contratto. Infatti, per le ragioni già da tempo poste in luce dalla migliore dottrina e puntualmente riprese dalla citata sentenza di questa corte n. 19024 del 2005 - alla quale si intende su questo punto dare continuità - la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto.
La violazione dei doveri dell’intermediario riguardanti invece la fase successiva alla stipulazione del contratto d’intermediazione può assumere i connotati di un vero e proprio inadempimento (o non esatto adempimento) contrattuale: giacché quei doveri, pur essendo di fonte legale, derivano da norme inderogabili e sono quindi destinati ad integrare a tutti gli effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti. Ne consegue che l’eventuale loro violazione, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori in forza dei principi generali sull’inadempimento contrattuale, può, ove ricorrano gli estremi di gravità postulati dall’art. 1455 c.c., condurre anche alla risoluzione del contratto d’intermediazione finanziaria in corso.
Si possono ovviamente avere opinioni diverse sul grado di efficacia della tutela in tal modo assicurata dal legislatore al risparmio dei cittadini, che negli ultimi anni sempre più ampiamente viene affidato alle cure degli intermediari finanziari. Ma non si può negare che gli strumenti di tutela esistono anche sul piano del diritto civile, essendo poi la loro specifica conformazione giuridica compito del medesimo legislatore le cui scelte l’interprete non è autorizzato a sovvertire, sicché il ricorso allo strumento di tutela della nullità radicale del contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull’intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva, in assenza di disposizioni specifiche, di principi generali o di regole sistematiche che lo prevedano, non è giustificato".
La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.
(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 19 dicembre 2007, n.26724: Contratti di intermediazione finanziaria - Violazione dei doveri di informazione - Nullità - Esclusione).
Le Sezioni Unite sono partite nel proprio percorso interpretativo dal rilievo che "le norme dettate dal citato art. 6 della legge n. 1 del 1991 (al pari di quelle che le hanno poi sostituite) hanno carattere imperativo: nel senso che esse, essendo dettate non solo nell’interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma anche nell’interesse generale all’integrità dei mercati finanziari (come è ora reso esplicito dalla formulazione dell’art. 21, letto a, del D. Lgs n. 58 del 1998, ma poteva ben ricavarsi in via d’interpretazione sistematica già nel vigore della legislazione precedente), si impongono inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti. Questo rilievo, tuttavia, non è da solo sufficiente a dimostrare che la violazione di una o più tra dette norme comporta la nullità dei contratti stipulati dall’intermediario col cliente. E’ ovvio che la loro violazione non può essere, sul piano giuridico, priva di conseguenze - e se ne dirà - ma non è detto che la conseguenza sia necessariamente la nullità del contratto.
Innanzitutto, è evidente che il legislatore - il quale certo avrebbe potuto farlo e che, nella medesima legge, non ha esitato ad altro proposito a farlo - non ha espressamente stabilito che il mancato rispetto delle citate disposizioni interferisce con la fase genetica del contratto e produce l’effetto radicale della nullità invocata dai ricorrenti. Non si tratta quindi certamente di uno di quei casi di nullità stabiliti dalla legge ai quali allude il terzo comma dell’art. 1418 c.c.
Neppure i casi di nullità contemplati dal secondo comma dell’articolo da ultimo citato, però, sono invocabili nella situazione in esame. E’ vero che tra questi casi figura anche quello della mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325, e che il primo di tali requisiti è l’accordo delle parti. Ma, ove pure si voglia ammettere che nella fase prenegoziale la violazione dei doveri di comportamento dell’intermediario sopra ricordati siano idonei ad influire sul consenso della controparte contrattuale, inquinandolo, appare arduo sostenere che sol per questo il consenso manca del tutto; ed i vizi del consenso - se pur di essi si possa parlare - non determinano la nullità del contratto, bensì solo la sua annullabilità, qualora ricorrano le condizioni previste dagli artt. 1427 e segg. c.c.
Resta però da considerare l’ipotesi che, in casi come quello di cui qui si discute, la nullità possa dipendere dall’applicazione della disposizione dettata dal primo comma del citato art. 1418: che si possa, cioè, predicare la nullità (c.d. virtuale) del contratto contrario a norme imperative, tali essendo appunto le norme dettate dall’articolo 6 della Legge 1 del 1991".
Vale la pena di riportare i passaggi salienti della pronuncia, che si chiude con una pietra tombale sulla possibilità di invocare la nullità del contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull’intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva.
"Nel settore della intermediazione finanziaria non è dato assolutamente rinvenire indici univoci dell’intenzione del legislatore di trattare sempre e comunque le regole di comportamento, ivi comprese quelle concernenti i doveri d’informazione " dell’altro contraente, alla stregua di regole di validità degli atti.
La difesa di parte ricorrente ha inteso trarre argomento dalla previsione di nullità dei contratti di prestazione a distanza dei servizi finanziari, contemplata dall’art. 16, quarto comma, del D. Lgs. 19 agosto 2005, n. 190, per il caso in cui il fornitore ostacoli l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente ovvero non rimborsi le somme da questi eventualmente pagate, oppure violi gli obblighi informativi precontrattuali in modo da alterare significativamente la rappresentazione delle caratteristiche del servizio. Ma, oltre ad essere di molto successiva ai fatti di causa, detta previsione resta sistematicamente isolata nel nostro ordinamento e presenta evidenti caratteri di specialità, che non consentono di fondare su di essa nessuna affermazione di principio.
Se si ha poi riguardo, in modo particolare, al tenore letterale delle norme dettate per disciplinare l’attività ed i contratti delle società d’intermediazione mobiliare, si constata immediatamente come il legislatore abbia espressamente ipotizzato alcune ipotesi di nullità, afferenti alla forma ed al contenuto patti zio dell’atto (art. 8, ult. comma, della legge n. 1 del 1991, ed ora all’art. 23, commi l, 2 e 3, ed art. 24, ult. comma, del d. 19s. n. 58 del 1998), nessuna delle quali appare tuttavia riconducibile alla violazione delle regole di comportamento gravanti sull’intermediario in tema di informazione del cliente e di divieto di operazioni in conflitto d’interessi o inadeguate al profilo patrimoniale del cliente medesimo. Situazioni, queste ultime, che il legislatore ha invece evidentemente tenuto in considerazione per i loro eventuali risvolti in tema di responsabilità, laddove ha espressamente posto a carico dell’intermediario l’onere della prova di aver agito con la necessaria diligenza (art. 13, ult. comma, della legge n. 1 del 1991, ora sostituito dall’art. 23, ult. comma, del d. 19s. n. 58 del 1998).
Né giova appellarsi alla valenza generale dell’interesse alla correttezza del comportamento degli intermediari finanziari, per i riflessi che ne possono derivare sul buon funzionamento dell’intero mercato.
Alla tutela di siffatto interesse sono preordinati il sistema dei controlli facenti capo all’autorità pubblica di vigilanza ed il regime delle sanzioni che ad esso accede, ma nulla se ne può dedurre in ordine alla pretesa nullità dei singoli contratti sul piano del diritto civile, tanto più che questa dovrebbe pur sempre logicamente esser concepita in termini di nullità di protezione, ossia di nullità relativa (come infatti indicano le citate disposizioni del d. 19s n. 58 e del d. 19s. n. 190, con riguardo ai casi in cui la nullità è effettivamente contemplata), e già questo, in difetto di qualsiasi norma che espressamente lo preveda, rende problematico ogni ancoraggio alla figura generale della nullità configurata dal primo comma dell’art. 1418 c.c.
E’ significativo, d’altronde, che al descritto quadro normativo, per lo specifico profilo ora considerato, il legislatore non abbia mai avvertito la necessità di apportare modifiche di rilievo da quando fu emanata la legge n. 1 del 1991, nonostante le ripetute rivisitazioni di tale normativa sino al recentissimo del d. 19s. 17 settembre 2007, n. 164, che ha recepito la direttiva n. 2004/39/Ce e che del pari si è astenuto dall’estendere l’esplicita previsione di nullità alla violazione delle regole di comportamento contrattuale e precontratttuale di cui si sta discutendo.
Così stando le cose, la tesi secondo cui il mancato rispetto dei surriferiti doveri comportamentali dell’intermediario nella fase prenegoziale o in quella attuativa del rapporto sarebbe idoneo a riflettersi sulla validità genetica del contratto stipulato con il cliente, priva com’è di base testuale e di supporti sistematici, potrebbe nondimeno conservare una qualche plausibilità solo ove risultasse l’unica in grado di rispondere all’esigenza - sicuramente presente nella normativa in questione e coerente con la previsione dell’art. 47, comma 1, Costo - di incoraggiare il risparmio e garantirne la tutela. Ma è evidente che così non è, perché non può ragionevolmente sostenersi che la suaccennata esigenza implichi necessariamente la scelta, da parte del legislatore, del mezzo di tutela consistente proprio nel prevedere la nullità dei contratti nelle situazioni in discorso, cosi travolgendo sia il discrimine tra regole di comportamento e regole di validità sia quello tra vizi genetici e vizi funzionali del contratto.
Richiamando la distinzione già prima tracciata tra gli obblighi che precedono ed accompagnano la stipulazione del contratto d’intermediazione e quelli che si riferiscono alla successiva fase esecutiva, può subito rilevarsi come la violazione dei primi (ove non si traduca addirittura in situazioni tali da determinare l’annullabilità - mai comunque la nullità - del contratto per vizi del consenso) è naturalmente destinata a produrre una responsabilità di tipo precontrattuale, da cui ovviamente discende l’obbligo per l’intermediario di risarcire gli eventuali danni. Non osta a ciò l’avvenuta stipulazione del contratto. Infatti, per le ragioni già da tempo poste in luce dalla migliore dottrina e puntualmente riprese dalla citata sentenza di questa corte n. 19024 del 2005 - alla quale si intende su questo punto dare continuità - la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto.
La violazione dei doveri dell’intermediario riguardanti invece la fase successiva alla stipulazione del contratto d’intermediazione può assumere i connotati di un vero e proprio inadempimento (o non esatto adempimento) contrattuale: giacché quei doveri, pur essendo di fonte legale, derivano da norme inderogabili e sono quindi destinati ad integrare a tutti gli effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti. Ne consegue che l’eventuale loro violazione, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori in forza dei principi generali sull’inadempimento contrattuale, può, ove ricorrano gli estremi di gravità postulati dall’art. 1455 c.c., condurre anche alla risoluzione del contratto d’intermediazione finanziaria in corso.
Si possono ovviamente avere opinioni diverse sul grado di efficacia della tutela in tal modo assicurata dal legislatore al risparmio dei cittadini, che negli ultimi anni sempre più ampiamente viene affidato alle cure degli intermediari finanziari. Ma non si può negare che gli strumenti di tutela esistono anche sul piano del diritto civile, essendo poi la loro specifica conformazione giuridica compito del medesimo legislatore le cui scelte l’interprete non è autorizzato a sovvertire, sicché il ricorso allo strumento di tutela della nullità radicale del contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull’intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva, in assenza di disposizioni specifiche, di principi generali o di regole sistematiche che lo prevedano, non è giustificato".
La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.
(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 19 dicembre 2007, n.26724: Contratti di intermediazione finanziaria - Violazione dei doveri di informazione - Nullità - Esclusione).