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Cassazione SU: legittimo il compenso dell’avvocato per obiettivi perseguiti solo se proporzionato all’attività svolta

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che, con un accordo con il cliente, il legale può definire il proprio compenso contemplando una percentuale del valore dell’affare, ma deve rispettare il criterio di “proporzionalità” rispetto all’attività svolta che trova la sua fonte nel Codice di deontologia forense.

Nel caso in esame, un avvocato era stato sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio dell’ordine degli avvocati per violazione dell’articolo 38 della Legge Professionale Forense (approvata con il Regio Decreto-Legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, nella Legge del 22 gennaio 1934, n. 36) e del Codice deontologico forense, in particolare con riferimento all’articolo 45 (rubricato “Accordi sulla definizione del compenso”) per aver tentato di far valere una scrittura privata stipulata col proprio assistito denominata “patto di quota lite”.

In tale scrittura, l’avvocato si obbligava a svolgere l’attività di assistenza e di difesa con professionalità e competenza, non richiedendo anticipazioni in denaro a titolo di spese, diritti e onorari di causa e contributi, bensì pattuendo di ottenere come corrispettivo l’importo pari al 30% di quanto liquidato al proprio assistito a titolo di risarcimento dei danni, oltre alla rifusione delle spese anticipate.

In particolare, in seguito ad un sinistro stradale, l’assistito aveva subito gravi danni alla propria integrità psico-fisica (rimanendo invalido al 95%) e riceveva dalla compagnia assicuratrice la somma di 800.000 euro, alla quale doveva essere sottratta l’importo di 240.000 euro (corrispondente al 30% della somma complessiva), da versare direttamente al legale del risarcito.

La vicenda era portata a conoscenza del Consiglio dell’ordine in seguito a comunicazione svolta dal legale della compagnia di assicurazione.

Il Consiglio dell’ordine, riconoscendo la responsabilità dell’incolpato, gli irrogava la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per due mesi, ritenendo manifestamente sproporzionata la percentuale pattuita del 30% come corrispettivo dell’attività svolta.

Il Consiglio Nazionale Forense (CNF), interpellato in seguito ad impugnazione della sentenza, come giudice di secondo grado, applicava la meno grave sanzione della censura.

Il CNF rilevava come la recente Legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense) abbia previsto il divieto di patti con i quali l’avvocato percepisce come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa, ma permetta le pattuizioni con cui il compenso al difensore è definito a percentuale sul valore dell’affare o di quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione.

Il patto di lite, se si traduce in una cessione di res litigiosa, è da considerarsi illegittimo. La sanzione disciplinare si legittimerebbe sulla base dell’abnorme percentuale del compenso rispetto al risarcimento, che poteva dirsi, sulla base degli elementi conosciuti al momento della stipulazione della quota di lite, ben poco aleatorio (essendo questa ritenuta dall’esito prevedibile e di non così rilevante difficoltà).

L’incolpato ricorreva in Cassazione, impugnando la pronuncia del CNF e deducendo l’errore in cui era incorso il Consiglio per aver definito sproporzionato il compenso sulla base della percentuale del risarcimento, potendo valutare tale sproporzionalità solo ex post.

La Corte di Cassazione ha stabilito che, pur essendo ammesse pattuizioni, purché redatte per iscritto, di compensi parametrati al raggiungimento di obiettivi perseguiti, tali compensi debbano essere proporzionati all’attività svolta.

L’articolo 45 del Codice di deontologia forense pone il principio di proporzionalità come criterio-guida per la determinazione del corrispettivo per l’attività svolta.

In questo caso, il legale avrebbe agito in violazione dei principi di correttezza e dei doveri scaturenti dalla natura dell’incarico, prevedendo un compenso sproporzionato all’attività svolta.

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno, dunque, rigettato il ricorso e confermato la sentenza impugnata.

(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 25 novembre 2014, n. 25012)

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che, con un accordo con il cliente, il legale può definire il proprio compenso contemplando una percentuale del valore dell’affare, ma deve rispettare il criterio di “proporzionalità” rispetto all’attività svolta che trova la sua fonte nel Codice di deontologia forense.

Nel caso in esame, un avvocato era stato sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio dell’ordine degli avvocati per violazione dell’articolo 38 della Legge Professionale Forense (approvata con il Regio Decreto-Legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, nella Legge del 22 gennaio 1934, n. 36) e del Codice deontologico forense, in particolare con riferimento all’articolo 45 (rubricato “Accordi sulla definizione del compenso”) per aver tentato di far valere una scrittura privata stipulata col proprio assistito denominata “patto di quota lite”.

In tale scrittura, l’avvocato si obbligava a svolgere l’attività di assistenza e di difesa con professionalità e competenza, non richiedendo anticipazioni in denaro a titolo di spese, diritti e onorari di causa e contributi, bensì pattuendo di ottenere come corrispettivo l’importo pari al 30% di quanto liquidato al proprio assistito a titolo di risarcimento dei danni, oltre alla rifusione delle spese anticipate.

In particolare, in seguito ad un sinistro stradale, l’assistito aveva subito gravi danni alla propria integrità psico-fisica (rimanendo invalido al 95%) e riceveva dalla compagnia assicuratrice la somma di 800.000 euro, alla quale doveva essere sottratta l’importo di 240.000 euro (corrispondente al 30% della somma complessiva), da versare direttamente al legale del risarcito.

La vicenda era portata a conoscenza del Consiglio dell’ordine in seguito a comunicazione svolta dal legale della compagnia di assicurazione.

Il Consiglio dell’ordine, riconoscendo la responsabilità dell’incolpato, gli irrogava la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per due mesi, ritenendo manifestamente sproporzionata la percentuale pattuita del 30% come corrispettivo dell’attività svolta.

Il Consiglio Nazionale Forense (CNF), interpellato in seguito ad impugnazione della sentenza, come giudice di secondo grado, applicava la meno grave sanzione della censura.

Il CNF rilevava come la recente Legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense) abbia previsto il divieto di patti con i quali l’avvocato percepisce come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa, ma permetta le pattuizioni con cui il compenso al difensore è definito a percentuale sul valore dell’affare o di quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione.

Il patto di lite, se si traduce in una cessione di res litigiosa, è da considerarsi illegittimo. La sanzione disciplinare si legittimerebbe sulla base dell’abnorme percentuale del compenso rispetto al risarcimento, che poteva dirsi, sulla base degli elementi conosciuti al momento della stipulazione della quota di lite, ben poco aleatorio (essendo questa ritenuta dall’esito prevedibile e di non così rilevante difficoltà).

L’incolpato ricorreva in Cassazione, impugnando la pronuncia del CNF e deducendo l’errore in cui era incorso il Consiglio per aver definito sproporzionato il compenso sulla base della percentuale del risarcimento, potendo valutare tale sproporzionalità solo ex post.

La Corte di Cassazione ha stabilito che, pur essendo ammesse pattuizioni, purché redatte per iscritto, di compensi parametrati al raggiungimento di obiettivi perseguiti, tali compensi debbano essere proporzionati all’attività svolta.

L’articolo 45 del Codice di deontologia forense pone il principio di proporzionalità come criterio-guida per la determinazione del corrispettivo per l’attività svolta.

In questo caso, il legale avrebbe agito in violazione dei principi di correttezza e dei doveri scaturenti dalla natura dell’incarico, prevedendo un compenso sproporzionato all’attività svolta.

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno, dunque, rigettato il ricorso e confermato la sentenza impugnata.

(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 25 novembre 2014, n. 25012)