Cassazione SU Penali: nozione di profitto per la confisca a norma della disciplina sulla responsabilità da reato degli enti (231)

F A T T O

1- Il Gip del Tribunale di Napoli, con provvedimento 26/6/2007, applicava alle società Alfa S.p.a., Beta S.p.a., Delta S.p.a., Gamma S.p.a., componenti dell’Associazione Temporanea di Imprese (ATI), che si era aggiudicata l’appalto del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani della Campania, ed indagate in ordine all’illecito amministrativo di cui all’art. 24 d. lgs. 8/6/2001 n. 231, collegato al delitto di cui agli art. 81 cpv., 110 e 640/1°-2° n. 1 c.p. ascritto -tra gli altri- a soggetti apicali delle medesime società e a persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di tali soggetti, la misura interdittiva del divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, limitatamente alle attività relative allo smaltimento, trattamento e recupero energetico dei rifiuti, per il periodo di un anno (art. 45 d.lgs. n. 231/’01) e disponeva in via cautelare, ai sensi degli art. 19 e 53 del richiamato d. lgs. n. 231, il sequestro preventivo, al fine di garantire la futura confisca per equivalente, della somma complessiva di circa 750.000.000,00 di euro, corrispondente al valore del profitto tratto dall’illecito penale consumato nell’interesse o a vantaggio degli enti collettivi.

In particolare, la cautela reale andava ad incidere sulle seguenti somme:

- € 53.000.000,00 pari a quanto anticipato dal Commissariato per la costruzione degli impianti delle province campane diverse da quella di Napoli;

- € 301.641.238,98 relativi alla tariffa di smaltimento regolarmente incassata;

- € 141.701.456,56 di cui ai documenti rappresentativi di crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti dei Comuni e non ancora incassati;

- € 99.092.457,23 relativi a spese sostenute dal Commissariato per lo smaltimento dei rifiuti e delle frazioni a valle della lavorazione degli impianti di CDR, spese che invece, per previsione contrattuale, dovevano essere a carico delle società affidatarie;

- € 51.645.689,90 corrispondenti al mancato deposito cauzionale;

- importo percepito a titolo di aggio per l’attività di riscossione espletata per conto del Commissariato e dei Comuni;

- € 103.404.000,00 pari al valore delle opere realizzate nella costruzione del termovalorizzatore di Acerra sino al 31/12/2005.

Chiariva il Gip che gli impegni contrattuali assunti dall’ATI, in relazione all’appalto di cui si era resa aggiudicataria, riguardavano: 1) l’edificazione di sette impianti di produzione di combustibile derivato da rifiuti (CDR) e di due termovalorizzatori per il recupero energetico dello stesso; 2) la gestione per dieci anni del servizio appaltato, consistente nella ricezione dei rifiuti solidi urbani (RSU) e nella lavorazione degli stessi presso gli impianti di CDR, onde ricavarne tre distinte frazioni, caratterizzate da un preciso standard qualitativo : a) il combustibile derivato da rifiuti, cioè la frazione secca dei rifiuti da avviare al recupero energetico attraverso la combustione nei termovalorizzatori; b) la frazione organica stabilizzata (FOS o compost) da utilizzare in operazioni di bonifica e recupero ambientale; c) lo scarto (sovvallo) da smaltire in discarica; 3) la garanzia, nelle more della costruzione degli impianti citati, del recupero energetico dei RSU mediante conferimento del CDR in termovalorizzatori già esistenti.

Secondo la prospettazione accusatoria, la condotta posta in essere dalle persone fisiche coinvolte nella vicenda era stata caratterizzata da evidenti profili di fraudolenza sia nella fase dell’aggiudicazione dell’appalto, nella quale si era fatto ricorso ad una serie di artifici documentali per accreditare il possesso dei requisiti necessari -in realtà inesistenti- ad aggiudicarsi l’appalto, sia nella fase esecutiva dei contratti, nel corso della quale erano state rappresentate “situazioni non corrispondenti alla realtà”, finalizzate ad occultare il sistematico inadempimento degli obblighi contrattuali assunti e a garantirsi -quindi- il mantenimento in vita del rapporto di appalto.

Gli inadempimenti si erano sostanziati nella mancata produzione di compost e di CDR conformi ai convenuti indici qualitativi, nel mancato recupero energetico dei RSU, nel subappalto -espressamente vietato- delle attività di conferimento dei materiali prodotti a valle della lavorazione presso gli impianti di CDR e di gestione delle discariche, nella mancata costruzione di alcuni degli impianti previsti e nella realizzazione di quelli edificati in maniera difforme dalle previsioni progettuali.

La fraudolenta violazione di tali obblighi contrattuali aveva determinato l’illecito conseguimento da parte del gruppo d’imprese delle utilità previste dall’accordo e, quindi, di un “profitto” sostanzialmente coincidente, sotto il profilo quantitativo, con le somme oggetto del sequestro preventivo.

2- Il Tribunale di Napoli, con pronuncia 24/7/2007, decidendo sulla richiesta di riesame avanzata dalle quattro società, confermava la misura cautelare reale.

Il Tribunale riteneva, preliminarmente, manifestamente infondata la questione di costituzionalità sollevata dalla difesa in relazione all’art. 53 d. lgs. n. 231 per eccesso di delega [art. 11 lett. o) legge n. 300/’00]. Privilegiando -poi- la tesi del significato unitario che il termine “profitto” assumerebbe nei diversi contesti normativi, riteneva di identificare il “profitto” con il “ricavo” derivante dal reato e non con il “guadagno”, inteso come “ricavo meno costi”. Aggiungeva che il profitto rilevante, nell’economia della fattispecie di truffa, è quello “ingiusto”, cioè non legittimato da un valido titolo, con l’effetto che le utilità ricavate dalle società appaltatrici nell’ambito dei rapporti contrattuali in esame, essendo il frutto diretto di condotte fraudolente, dovevano considerarsi, proprio perché ingiustamente percepite, come “profitti” destinati alla confisca anche per equivalente. Analizzava quindi le singole voci delle somme e dei crediti sequestrati, per giustificare, in relazione a ciascuna di esse, la legittimità della misura reale adottata. Poneva specificamente in evidenza, con riferimento alla voce più consistente del provvedimento di sequestro (tariffa per lo smaltimento dei rifiuti), che gli impegni contrattuali prevedevano l’attuazione di un progetto di smaltimento orientato verso un ben preciso risultato sul piano ambientale, obiettivo assolutamente eluso dalle società aggiudicatarie, che, pur avendo provveduto alla fisica eliminazione dei rifiuti, avevano omesso, occultando fraudolentemente la circostanza, quella complessa ed imprescindibile attività collaterale in grado di garantire, in linea con le aspettative della stazione appaltante, un impatto ambientale contenuto, attraverso soprattutto il minimo versamento in discarica. Sottolineava che ciò, riverberatosi negativamente su tutta la variegata attività posta in essere dagli enti affidatari, non permetteva di circoscrivere il sequestro all’utile netto, perché si sarebbe così consentito agli enti di lucrare i costi di realizzazione della stessa condotta criminosa. Precisava, infine, che il calcolo delle somme sottoposte a vincolo era stato effettuato, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa delle imprese, con esclusivo riguardo a quelle percepite dopo l’entrata in vigore del d. lgs. n. 231/’01 e che il disposto sequestro per equivalente non era in contrasto con la corrispondente richiesta formulata dal P.M..

3- Avverso la pronuncia di riesame hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori, la Fisia Italimpianti s.p.a., la Beta S.p.a., la Delta S.p.a., la Alfa S.p.a., che concordemente hanno sollecitato l’annullamento della medesima pronuncia.

Non si contesta specificamente la sussistenza dei presupposti della responsabilità degli enti, al di là di un generico riferimento (cfr. ricorsi della Delta spa, della Beta spa, della Alfa spa) alla qualificazione giuridica del fatto, che non sarebbe stata correttamente individuata, considerato che, data anche l’ipotizzata “collusione tra organi controllanti e organi controllati”, doveva escludersi il requisito dell’induzione in errore caratterizzante la truffa e configurarsi -in astratto- il reato di frode in pubbliche forniture, inidoneo a fondare la responsabilità degli enti collettivi.

Doglianza centrale e comune a tutti i ricorsi è l’errata interpretazione della nozione di profitto recepita nell’art. 19 del d. lgs. n. 231/’01 e rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 53 dello stesso decreto.

Si rileva, innanzi tutto, l’arbitrarietà della identificazione del “profitto” con il ricavo complessivo conseguito dalle attività poste in essere in esecuzione dei contratti stipulati nell’ambito del rapporto di appalto, laddove il profitto destinato alla confisca deve farsi coincidere con l’eventuale “utile netto” ritratto dalle stesse attività, vale a dire con il vantaggio economico a queste direttamente collegabile. Il profitto va tenuto distinto dal prezzo e dal prodotto del reato, quest’ultimo menzionato nell’art. 240 c.p. in tema di confisca ordinaria e non nell’art. 19 del d. lgs n. 231/’01, circostanza che evidenzia l’intenzione del legislatore del 2001 di accogliere una nozione più ristretta del termine “profitto”. La stessa Relazione governativa allo schema del d. lgs n. 231 definisce il profitto come la “conseguenza economica immediata ricavata dal fatto del reato”, il che sottintende “una valutazione complessiva degli effetti scaturiti dalla condotta delittuosa, nella quale, a fronte di operazioni complesse aventi un significato economico unitario, non può…esservi spazio per un’artificiosa scissione delle sole poste attive”.

Sotto il profilo sistematico, si sostiene che il termine “profitto”, a seconda del differenziato contesto in cui viene utilizzato nell’ambito del d. lgs. n. 231, assume significati diversi: ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 13, infatti, il “profitto di rilevante entità” menzionato in tale norma evoca un concetto di portata più ampia rispetto a quello del profitto oggetto di confisca di cui all’art. 19 dello stesso decreto e -al riguardo- si richiama la sentenza 23/6/2006 n. 32627 della Sesta Sezione penale di questa Corte, che, evidenziando tale differenza concettuale, circoscriverebbe l’oggetto del provvedimento ablativo al solo utile netto ricavato.

Sempre sul piano sistematico, si propende, invece, per una visione unitaria dell’istituto della confisca di cui agli art. 6/5°, 15/4°, 17 lett. c) e 19 del d. lgs. n. 231, finalizzato al ripristino dell’equilibrio economico turbato dalla commissione del reato. L’effettivo contenuto della misura ablativa, che trova applicazione in situazioni oggettivamente diverse, deve essere determinato considerando l’ipotesi disciplinata dall’art. 6/5°, secondo cui la confisca del profitto del reato deve essere disposta anche quando l’ente non sia punibile per avere validamente adottato e attuato adeguati modelli organizzativi: è evidente che una misura così severa, applicata anche in assenza di responsabilità, non può che riguardare “l’acquisizione del mero surplus di arricchimento eventualmente derivato dal reato”. Ad analoga conclusione porta la previsione della confisca del profitto conseguente, ex art. 15/4°, alla gestione commissariale dell’ente: sarebbe, infatti, palesemente irragionevole estendere la misura ablativa all’ammontare del lordo delle entrate di tale gestione, giacché in tale modo si precluderebbe la prosecuzione dell’attività imprenditoriale, laddove proprio l’esigenza di garantire tale prosecuzione costituisce la ragione della nomina del commissario.

In sostanza, gli enti ricorrenti sottolineano che l’individuazione del profitto rilevante ai fini della confisca di cui d. lgs. n. 231/’01 deve prescindere dalla tradizionale concezione del profitto accolta dalla giurisprudenza penale e ciò perché, nell’ottica della responsabilità degli enti, il reato è un fatto illecito addebitabile a soggetto distinto (la persona fisica autrice della condotta tipica) e si inserisce nella dinamica dell’attività d’impresa propria dell’ente. Sarebbe dunque del tutto irragionevole espropriare il risultato lordo della gestione economica, considerando i costi di svolgimento dell’attività imprenditoriale tout court come costi di realizzazione del reato. Con riferimento al caso di specie, l’erroneità dell’impostazione seguita dal Tribunale è -secondo le società ricorrenti- evidenziata esemplificativamente dal rilievo che la confisca della tariffa “lorda” percepita per lo smaltimento dei rifiuti comporterebbe l’assurda conseguenza di trasformare in profitto anche l’I.V.A. incorporata nella detta tariffa e versata dalle società al fisco. L’incompatibilità del mancato scomputo dei costi dell’attività d’impresa con le finalità proprie della confisca trova ulteriore conferma nel fatto che deve essere comunque rispettato il principio di proporzionalità tra tale misura, definita dalla legge speciale come sanzione, e l’effettivo contenuto dell’illecito addebitato.

La scelta interpretativa di ritenere confiscabile il ricavo lordo, nel presupposto della totale illiceità dell’attività posta in essere, è smentita dall’oggetto dei contratti e dalle previste modalità di esecuzione, oltre che dalla specifica circostanza che, a partire dal dicembre 2005 (data della risoluzione dei contratti per effetto del d. l. n. 245/’05 convertito nella legge n. 21/’06), “l’attività delle società impegnate nell’esecuzione del contratto d’appalto è addirittura proseguita , con le identiche modalità, sotto la direzione ed il coordinamento esclusivi del Commissario delegato”.

Sempre con riferimento alla delimitazione del profitto confiscabile, si contestano (cfr. in particolare memoria 17/1/2008 della Alfa spa) le singole voci della misura cautelare reale: a) sequestro disposto per 750.000.000,00 euro, laddove l’ammontare dei ricavi effettivamente conseguiti dall’ATI non supererebbe i 440.000.000,00 euro; b) le spese sostenute dal Commissario delegato per garantire gli adempimenti asseritamente omessi dall’ATI integrerebbero un danno risarcibile e non un profitto confiscabile, al di là del fatto che tali spese sarebbero state quantificate in misura eccedente quella reale (non 99.000.000,00 euro bensì 43.000.000,00 euro); c) il mancato deposito della cauzione, sostituita legittimamente da una polizza fideiussoria, sarebbe incompatibile con la nozione di profitto; d) l’impianto di termovalorizzazione non costituirebbe profitto, ma tutt’al più un credito nei confronti del Commissariato; e) sui 53.000.000,00 euro anticipati dal Commissario graverebbe un obbligo di restituzione con maggiorazione di interessi e la confisca duplicherebbe tale obbligo; f) quanto all’aggio di riscossione, non era stata neppure quantificata l’utilità che le società avrebbero lucrato.

Era stata omessa qualunque motivazione in ordine alla ricorrenza dei presupposti per farsi luogo al sequestro ai fini della confisca per equivalente: non erano state indicate le ragioni dell’impossibilità di apprendere direttamente il profitto del reato.

Il provvedimento di sequestro non aveva indicato le porzioni di profitto attribuibili a ciascuna società, con l’inaccettabile conseguenza di vincol

F A T T O

1- Il Gip del Tribunale di Napoli, con provvedimento 26/6/2007, applicava alle società Alfa S.p.a., Beta S.p.a., Delta S.p.a., Gamma S.p.a., componenti dell’Associazione Temporanea di Imprese (ATI), che si era aggiudicata l’appalto del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani della Campania, ed indagate in ordine all’illecito amministrativo di cui all’art. 24 d. lgs. 8/6/2001 n. 231, collegato al delitto di cui agli art. 81 cpv., 110 e 640/1°-2° n. 1 c.p. ascritto -tra gli altri- a soggetti apicali delle medesime società e a persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di tali soggetti, la misura interdittiva del divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, limitatamente alle attività relative allo smaltimento, trattamento e recupero energetico dei rifiuti, per il periodo di un anno (art. 45 d.lgs. n. 231/’01) e disponeva in via cautelare, ai sensi degli art. 19 e 53 del richiamato d. lgs. n. 231, il sequestro preventivo, al fine di garantire la futura confisca per equivalente, della somma complessiva di circa 750.000.000,00 di euro, corrispondente al valore del profitto tratto dall’illecito penale consumato nell’interesse o a vantaggio degli enti collettivi.

In particolare, la cautela reale andava ad incidere sulle seguenti somme:

- € 53.000.000,00 pari a quanto anticipato dal Commissariato per la costruzione degli impianti delle province campane diverse da quella di Napoli;

- € 301.641.238,98 relativi alla tariffa di smaltimento regolarmente incassata;

- € 141.701.456,56 di cui ai documenti rappresentativi di crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti dei Comuni e non ancora incassati;

- € 99.092.457,23 relativi a spese sostenute dal Commissariato per lo smaltimento dei rifiuti e delle frazioni a valle della lavorazione degli impianti di CDR, spese che invece, per previsione contrattuale, dovevano essere a carico delle società affidatarie;

- € 51.645.689,90 corrispondenti al mancato deposito cauzionale;

- importo percepito a titolo di aggio per l’attività di riscossione espletata per conto del Commissariato e dei Comuni;

- € 103.404.000,00 pari al valore delle opere realizzate nella costruzione del termovalorizzatore di Acerra sino al 31/12/2005.

Chiariva il Gip che gli impegni contrattuali assunti dall’ATI, in relazione all’appalto di cui si era resa aggiudicataria, riguardavano: 1) l’edificazione di sette impianti di produzione di combustibile derivato da rifiuti (CDR) e di due termovalorizzatori per il recupero energetico dello stesso; 2) la gestione per dieci anni del servizio appaltato, consistente nella ricezione dei rifiuti solidi urbani (RSU) e nella lavorazione degli stessi presso gli impianti di CDR, onde ricavarne tre distinte frazioni, caratterizzate da un preciso standard qualitativo : a) il combustibile derivato da rifiuti, cioè la frazione secca dei rifiuti da avviare al recupero energetico attraverso la combustione nei termovalorizzatori; b) la frazione organica stabilizzata (FOS o compost) da utilizzare in operazioni di bonifica e recupero ambientale; c) lo scarto (sovvallo) da smaltire in discarica; 3) la garanzia, nelle more della costruzione degli impianti citati, del recupero energetico dei RSU mediante conferimento del CDR in termovalorizzatori già esistenti.

Secondo la prospettazione accusatoria, la condotta posta in essere dalle persone fisiche coinvolte nella vicenda era stata caratterizzata da evidenti profili di fraudolenza sia nella fase dell’aggiudicazione dell’appalto, nella quale si era fatto ricorso ad una serie di artifici documentali per accreditare il possesso dei requisiti necessari -in realtà inesistenti- ad aggiudicarsi l’appalto, sia nella fase esecutiva dei contratti, nel corso della quale erano state rappresentate “situazioni non corrispondenti alla realtà”, finalizzate ad occultare il sistematico inadempimento degli obblighi contrattuali assunti e a garantirsi -quindi- il mantenimento in vita del rapporto di appalto.

Gli inadempimenti si erano sostanziati nella mancata produzione di compost e di CDR conformi ai convenuti indici qualitativi, nel mancato recupero energetico dei RSU, nel subappalto -espressamente vietato- delle attività di conferimento dei materiali prodotti a valle della lavorazione presso gli impianti di CDR e di gestione delle discariche, nella mancata costruzione di alcuni degli impianti previsti e nella realizzazione di quelli edificati in maniera difforme dalle previsioni progettuali.

La fraudolenta violazione di tali obblighi contrattuali aveva determinato l’illecito conseguimento da parte del gruppo d’imprese delle utilità previste dall’accordo e, quindi, di un “profitto” sostanzialmente coincidente, sotto il profilo quantitativo, con le somme oggetto del sequestro preventivo.

2- Il Tribunale di Napoli, con pronuncia 24/7/2007, decidendo sulla richiesta di riesame avanzata dalle quattro società, confermava la misura cautelare reale.

Il Tribunale riteneva, preliminarmente, manifestamente infondata la questione di costituzionalità sollevata dalla difesa in relazione all’art. 53 d. lgs. n. 231 per eccesso di delega [art. 11 lett. o) legge n. 300/’00]. Privilegiando -poi- la tesi del significato unitario che il termine “profitto” assumerebbe nei diversi contesti normativi, riteneva di identificare il “profitto” con il “ricavo” derivante dal reato e non con il “guadagno”, inteso come “ricavo meno costi”. Aggiungeva che il profitto rilevante, nell’economia della fattispecie di truffa, è quello “ingiusto”, cioè non legittimato da un valido titolo, con l’effetto che le utilità ricavate dalle società appaltatrici nell’ambito dei rapporti contrattuali in esame, essendo il frutto diretto di condotte fraudolente, dovevano considerarsi, proprio perché ingiustamente percepite, come “profitti” destinati alla confisca anche per equivalente. Analizzava quindi le singole voci delle somme e dei crediti sequestrati, per giustificare, in relazione a ciascuna di esse, la legittimità della misura reale adottata. Poneva specificamente in evidenza, con riferimento alla voce più consistente del provvedimento di sequestro (tariffa per lo smaltimento dei rifiuti), che gli impegni contrattuali prevedevano l’attuazione di un progetto di smaltimento orientato verso un ben preciso risultato sul piano ambientale, obiettivo assolutamente eluso dalle società aggiudicatarie, che, pur avendo provveduto alla fisica eliminazione dei rifiuti, avevano omesso, occultando fraudolentemente la circostanza, quella complessa ed imprescindibile attività collaterale in grado di garantire, in linea con le aspettative della stazione appaltante, un impatto ambientale contenuto, attraverso soprattutto il minimo versamento in discarica. Sottolineava che ciò, riverberatosi negativamente su tutta la variegata attività posta in essere dagli enti affidatari, non permetteva di circoscrivere il sequestro all’utile netto, perché si sarebbe così consentito agli enti di lucrare i costi di realizzazione della stessa condotta criminosa. Precisava, infine, che il calcolo delle somme sottoposte a vincolo era stato effettuato, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa delle imprese, con esclusivo riguardo a quelle percepite dopo l’entrata in vigore del d. lgs. n. 231/’01 e che il disposto sequestro per equivalente non era in contrasto con la corrispondente richiesta formulata dal P.M..

3- Avverso la pronuncia di riesame hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori, la Fisia Italimpianti s.p.a., la Beta S.p.a., la Delta S.p.a., la Alfa S.p.a., che concordemente hanno sollecitato l’annullamento della medesima pronuncia.

Non si contesta specificamente la sussistenza dei presupposti della responsabilità degli enti, al di là di un generico riferimento (cfr. ricorsi della Delta spa, della Beta spa, della Alfa spa) alla qualificazione giuridica del fatto, che non sarebbe stata correttamente individuata, considerato che, data anche l’ipotizzata “collusione tra organi controllanti e organi controllati”, doveva escludersi il requisito dell’induzione in errore caratterizzante la truffa e configurarsi -in astratto- il reato di frode in pubbliche forniture, inidoneo a fondare la responsabilità degli enti collettivi.

Doglianza centrale e comune a tutti i ricorsi è l’errata interpretazione della nozione di profitto recepita nell’art. 19 del d. lgs. n. 231/’01 e rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 53 dello stesso decreto.

Si rileva, innanzi tutto, l’arbitrarietà della identificazione del “profitto” con il ricavo complessivo conseguito dalle attività poste in essere in esecuzione dei contratti stipulati nell’ambito del rapporto di appalto, laddove il profitto destinato alla confisca deve farsi coincidere con l’eventuale “utile netto” ritratto dalle stesse attività, vale a dire con il vantaggio economico a queste direttamente collegabile. Il profitto va tenuto distinto dal prezzo e dal prodotto del reato, quest’ultimo menzionato nell’art. 240 c.p. in tema di confisca ordinaria e non nell’art. 19 del d. lgs n. 231/’01, circostanza che evidenzia l’intenzione del legislatore del 2001 di accogliere una nozione più ristretta del termine “profitto”. La stessa Relazione governativa allo schema del d. lgs n. 231 definisce il profitto come la “conseguenza economica immediata ricavata dal fatto del reato”, il che sottintende “una valutazione complessiva degli effetti scaturiti dalla condotta delittuosa, nella quale, a fronte di operazioni complesse aventi un significato economico unitario, non può…esservi spazio per un’artificiosa scissione delle sole poste attive”.

Sotto il profilo sistematico, si sostiene che il termine “profitto”, a seconda del differenziato contesto in cui viene utilizzato nell’ambito del d. lgs. n. 231, assume significati diversi: ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 13, infatti, il “profitto di rilevante entità” menzionato in tale norma evoca un concetto di portata più ampia rispetto a quello del profitto oggetto di confisca di cui all’art. 19 dello stesso decreto e -al riguardo- si richiama la sentenza 23/6/2006 n. 32627 della Sesta Sezione penale di questa Corte, che, evidenziando tale differenza concettuale, circoscriverebbe l’oggetto del provvedimento ablativo al solo utile netto ricavato.

Sempre sul piano sistematico, si propende, invece, per una visione unitaria dell’istituto della confisca di cui agli art. 6/5°, 15/4°, 17 lett. c) e 19 del d. lgs. n. 231, finalizzato al ripristino dell’equilibrio economico turbato dalla commissione del reato. L’effettivo contenuto della misura ablativa, che trova applicazione in situazioni oggettivamente diverse, deve essere determinato considerando l’ipotesi disciplinata dall’art. 6/5°, secondo cui la confisca del profitto del reato deve essere disposta anche quando l’ente non sia punibile per avere validamente adottato e attuato adeguati modelli organizzativi: è evidente che una misura così severa, applicata anche in assenza di responsabilità, non può che riguardare “l’acquisizione del mero surplus di arricchimento eventualmente derivato dal reato”. Ad analoga conclusione porta la previsione della confisca del profitto conseguente, ex art. 15/4°, alla gestione commissariale dell’ente: sarebbe, infatti, palesemente irragionevole estendere la misura ablativa all’ammontare del lordo delle entrate di tale gestione, giacché in tale modo si precluderebbe la prosecuzione dell’attività imprenditoriale, laddove proprio l’esigenza di garantire tale prosecuzione costituisce la ragione della nomina del commissario.

In sostanza, gli enti ricorrenti sottolineano che l’individuazione del profitto rilevante ai fini della confisca di cui d. lgs. n. 231/’01 deve prescindere dalla tradizionale concezione del profitto accolta dalla giurisprudenza penale e ciò perché, nell’ottica della responsabilità degli enti, il reato è un fatto illecito addebitabile a soggetto distinto (la persona fisica autrice della condotta tipica) e si inserisce nella dinamica dell’attività d’impresa propria dell’ente. Sarebbe dunque del tutto irragionevole espropriare il risultato lordo della gestione economica, considerando i costi di svolgimento dell’attività imprenditoriale tout court come costi di realizzazione del reato. Con riferimento al caso di specie, l’erroneità dell’impostazione seguita dal Tribunale è -secondo le società ricorrenti- evidenziata esemplificativamente dal rilievo che la confisca della tariffa “lorda” percepita per lo smaltimento dei rifiuti comporterebbe l’assurda conseguenza di trasformare in profitto anche l’I.V.A. incorporata nella detta tariffa e versata dalle società al fisco. L’incompatibilità del mancato scomputo dei costi dell’attività d’impresa con le finalità proprie della confisca trova ulteriore conferma nel fatto che deve essere comunque rispettato il principio di proporzionalità tra tale misura, definita dalla legge speciale come sanzione, e l’effettivo contenuto dell’illecito addebitato.

La scelta interpretativa di ritenere confiscabile il ricavo lordo, nel presupposto della totale illiceità dell’attività posta in essere, è smentita dall’oggetto dei contratti e dalle previste modalità di esecuzione, oltre che dalla specifica circostanza che, a partire dal dicembre 2005 (data della risoluzione dei contratti per effetto del d. l. n. 245/’05 convertito nella legge n. 21/’06), “l’attività delle società impegnate nell’esecuzione del contratto d’appalto è addirittura proseguita , con le identiche modalità, sotto la direzione ed il coordinamento esclusivi del Commissario delegato”.

Sempre con riferimento alla delimitazione del profitto confiscabile, si contestano (cfr. in particolare memoria 17/1/2008 della Alfa spa) le singole voci della misura cautelare reale: a) sequestro disposto per 750.000.000,00 euro, laddove l’ammontare dei ricavi effettivamente conseguiti dall’ATI non supererebbe i 440.000.000,00 euro; b) le spese sostenute dal Commissario delegato per garantire gli adempimenti asseritamente omessi dall’ATI integrerebbero un danno risarcibile e non un profitto confiscabile, al di là del fatto che tali spese sarebbero state quantificate in misura eccedente quella reale (non 99.000.000,00 euro bensì 43.000.000,00 euro); c) il mancato deposito della cauzione, sostituita legittimamente da una polizza fideiussoria, sarebbe incompatibile con la nozione di profitto; d) l’impianto di termovalorizzazione non costituirebbe profitto, ma tutt’al più un credito nei confronti del Commissariato; e) sui 53.000.000,00 euro anticipati dal Commissario graverebbe un obbligo di restituzione con maggiorazione di interessi e la confisca duplicherebbe tale obbligo; f) quanto all’aggio di riscossione, non era stata neppure quantificata l’utilità che le società avrebbero lucrato.

Era stata omessa qualunque motivazione in ordine alla ricorrenza dei presupposti per farsi luogo al sequestro ai fini della confisca per equivalente: non erano state indicate le ragioni dell’impossibilità di apprendere direttamente il profitto del reato.

Il provvedimento di sequestro non aveva indicato le porzioni di profitto attribuibili a ciascuna società, con l’inaccettabile conseguenza di vincol