Champions league, vivai sportivi e innovazione aziendale

Open innovation
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Cosa c’entra l’innovazione aziendale con il calcio? Non molto, all’apparenza.

La settimana scorsa ha avuto inizio il primo turno di Champions League e, come tutti gli anni, i giornali si sono riempiti di articoli che parlano della crisi del calcio italiano che non vince in Europa da quasi un decennio e propongono “ricette” varie per tornare al vertice.

Ad essere sincero, io non ho un parere specifico sull’argomento. Noto soltanto che il termine più ricorrente nella maggior parte degli articoli e dei discorsi degli esperti è “rinnovamento”, e che la soluzione invocata a più voci e da più parti è quasi sempre una: “Ripartiamo dai vivai”.

A chi, come me, si occupa di innovazione, non può sfuggire una decisa analogia con quello che sta succedendo al panorama delle aziende italiane.

A fronte delle difficoltà di un’economia che fatica a mantenere il passo con il resto del mondo, la parola d’ordine della classe dirigente, dai consigli di amministrazione delle grandi aziende, alle università, ai corridoi della politica, è “Innovazione”.

Da una parte si cercano nuovi prodotti e nuovi modelli di business, dall’altra nuovi “campioni”. Da una parte ci sono gli acceleratori di startup, le università e i dipartimenti di innovazione delle aziende (spesso limitati ai reparti di ricerca e sviluppo). Dall’altra ci sono i settori giovanili delle squadre.

Ora, io non sono certo un esperto di calcio. Ma ho praticato sport a livello professionistico per diversi anni, e questa analogia mi ha fatto fare un salto all’indietro nel tempo, per constatare come alcuni dei meccanismi che ho visto con i miei occhi far fallire la crescita di ragazzi dal grandissimo talento, siano molto simili a quelli che ritrovo oggi all’interno di tante aziende. Meccanismi che finiscono per sabotare progetti di innovazione di ogni dimensione, indipendentemente dal budget e dal commitment aziendale.

Trent’anni fa, entrai nel vivaio di una delle più prestigiose e blasonate squadre di pallacanestro italiane che, all’epoca, si poteva fregiare del fatto di essere la società italiana con il maggior numero di campionati nazionali giovanili vinti.

Rimasi lì per sei stagioni, insieme a ragazzi dai 14 ai 20 anni, selezionati da tutte le parti d’Italia. Molti di noi hanno vinto titoli giovanili e hanno fatto parte delle nazionali di categoria. Alcuni hanno giocato diverse stagioni in serie A. Nessuno però è diventato, non dico un fuoriclasse, ma nemmeno un giocatore di primo livello, di quelli che militano nelle squadre da scudetto.

A dire il vero uno sì, ma, e anche questo è significativo, tre anni prima di terminare il settore giovanile se ne andò in una squadra di provincia dove ebbe modo di completare il suo percorso di maturazione. Vedremo dopo come questa cosa acquista un senso all’interno del discorso che vorrei fare.

Eppure, questa era la società italiana che investiva più di tutte le altre sul settore giovanile (budget che oggi alcune società di serie A si sognerebbero anche per la loro prima squadra), e aveva affidato il vivaio alla persona che poi sarebbe diventato uno dei migliori allenatori italiani di tutti i tempi (se non, forse, il migliore).

Allora perché, nonostante tante risorse e tante competenze, il settore giovanile di questa grande squadra non ha “prodotto” nessun campione per almeno una decina d’anni? Perché aziende che investono ingenti capitali e affidano la responsabilità dell’innovazione ad alcuni dei loro migliori manager non riescono a raggiungere risultati?

La prima risposta potrebbe essere quella individuale: il talento (o meglio, la mancanza di), la scarsa forza di volontà e dedizione dei ragazzi. Che diviene, sul lato dell’innovazione aziendale, la natura dei progetti, il creare qualcosa che il mercato non vuole.

Nella maggior parte dei casi è stato così, e ancora lo è sia nello sport che nelle aziende.

Ma non è questo il punto che voglio mettere in evidenza qui.

Di come individuare e sviluppare nuovi progetti di innovazione ho scritto molto e ancora scriverò nel blog di The Doers. E d’altra parte, io che li ho conosciuti, posso dire che in alcuni di questi ragazzi talento e determinazione erano presenti in quantità abbondantemente superiore alla media. Il punto qui è più su aspetti di sistema. Sul cercare di capire cosa manca per creare un ambiente che massimizzi le possibilità di riuscita di quei (pochi) ragazzi/progetti che avrebbero in sé le potenzialità per farcela.

Il problema principale, l’errore da cui poi a cascata derivava tutto il resto, era che ci consideravano già come giocatori, a cui doveva solamente essere insegnata la pallacanestro.

Ci trattavano come piccoli professionisti. Aspettandosi da noi, all’interno delle varie categorie di età, le stesse cose che si aspettavano dai giocatori della prima squadra: seguire gli schemi di gioco, non fare errori, vincere le partite e vincere i campionati. L’unica cosa che cambiava, tra i vari anni, era il grado di difficoltà che queste cose comportavano.

Proprio come quando in azienda si confondono le modalità di gestione dell’innovazione con le modalità di execution del business principale. E i progetti di innovazione sono equiparati agli altri progetti, soltanto più piccoli. Quindi lunghe catene di approvazione, budget rigidi e predefiniti, business plan che dichiarano con precisione i tempi e le modalità di ritorno dell’investimento.

Ma l’innovazione all’interno di un’azienda richiede modelli mentali, processi, sistemi e valori decisamente diversi da quelli che permettono all’azienda stessa di prosperare conducendo il proprio business principale.

Questa cosa è assolutamente controintuitiva.

E d’altra parte il ragionamento di chi guidava quel settore giovanile aveva una sua logica: dal momento che il nostro futuro compito, da giocatori, sarebbe stato quello di vincere, noi dovevamo imparare a vincere; poiché avremmo dovuto contribuire al gioco di squadra, dovevamo imparare ad essere un meccanismo di questa squadra e a fare ciò che l’allenatore ci diceva di fare.

Il punto, però, come per l’innovazione, è che a quell’età i ragazzi non sanno ancora chi sono, e quello che in realtà dovrebbero poter fare è scoprire se stessi e le proprie potenzialità.

Invece gli obiettivi, le metriche di valutazione, il rapporto con l’errore e lo stile di gestione degli allenatori erano gli stessi della prima squadra.

L’obiettivo principale della società era quello di vincere più scudetti giovanili possibile. Rompere uno schema per prendersi il tiro della vittoria era vietato, e chi commetteva errori andava in panchina. Il successo di un settore giovanile, invece, dovrebbe misurarsi in base al numero di campioni che sono stati cresciuti, non al numero di scudetti. Gli errori dovrebbero non solo essere permessi, ma incoraggiati. E il ruolo di allenatore dei ragazzi dovrebbe essere una professione specializzata, non, come spesso avviene, un passaggio del percorso di carriera che porta ad allenare la prima squadra.

E lo stesso dovrebbero fare le aziende: dovrebbero distinguere.

Distinguere tra innovazione ed execution.

Distinguere gli obiettivi, che per l’attività principale devono ovviamente essere i risultati finanziari, mentre per i progetti di innovazione sono la riduzione del rischio e dell’incertezza.

Distinguere le metriche del successo che sono i KPI e le revenue per l’execution ordinaria, mentre per l’innovazione sono la quantità di apprendimento.

Distinguere quali sono i rischi che si corrono nel fallire, che sono l’essere sconfitti dalla concorrenza per la gestione ordinaria, mentre per l’innovazione sono soltanto quelli di aver investito su qualcosa che non funziona.

Distinguere quale deve essere il rapporto con l’errore e il fallimento, che per l’execution ordinaria non è un’opzione praticabile, mentre per l’innovazione è il principale strumento di apprendimento e come tale va gestito.

Distinguere, infine, lo stile di leadership, che deve essere manageriale nel primo caso e imprenditoriale nel caso dei progetti e dei dipartimenti di innovazione.

 

Tabella

 

Solo in questo modo sarà possibile dare vita a quella che è chiamata un’“organizzazione ambidestra”, il primo passo per creare le condizioni affinché l’innovazione possa svilupparsi con successo all’interno delle aziende.