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Che sta succedendo in Ucraina?

Ucraina e Russia
Ucraina e Russia

Certe crisi internazionali sono come le pentole a pressione: a furia di lasciarle sul fuoco ce ne si accorge troppo tardi, quando ormai sono esplose. Così in Ucraina, che da un ottennio ha un tessuto sociale interno lacerato – tra orientalisti russofoni, occidentalisti mitteleuropei e “centralisti” – e si trova a fare i conti con una sanguinosa guerra civile nel suo est confinante con la Russia (il Donbass).

Da almeno un paio di mesi, quella che veniva considerata una “semplice” crisi est-europea ha fornito invece il pretesto per ridiscutere tout court l’intero assetto geopolitico-militare in Europa orientale. Nonostante il teatro sia l’Ucraina, i due interlocutori principali sono NATO (ossia USA) e Russia, con rigide prese di posizione da parte di ambedue gli schieramenti – il che, beninteso, non è mai un buon presagio nell’era nucleare, malgrado lo spauracchio di guerra su vasta scala rimanga una prospettiva assai remota.

 

Ucraina: prologo

La genesi del caos risale al 2014, quando a Kiev governa ancora un presidente in ottimi rapporti con Mosca – il centrista Viktor Janukovyč, nato in una cittadina nella regione di Doneck a 90 km dal confine russo. Quest’ultimo, piuttosto a sorpresa, decide di interrompere bruscamente il processo di (lento) avvicinamento di Kiev all’Unione europea rifiutandosi di sottoscrivere l’Accordo di associazione con Bruxelles, e scegliendo invece di rinsaldare i legami politico-commerciali con il Cremlino. La mossa non è molto apprezzata dagli abitanti della parte centrale del Paese (Kiev inclusa) e dagli ucraini che vivono nelle regioni occidentali – storicamente e culturalmente molto più legati alla Polonia e al centro-Europa piuttosto che alla “Grande Madre” Russia.

Così prende il via una protesta, Evromaidan, che presto si colora di numerose sfumature: non solo quelle sinceramente europeiste di borghesia e classe media, ma anche altre più oscuramente oligarchiche, russofobe e nazionaliste – un nazionalismo ucraino a cui la narrativa ufficiale russa non ha mai mancato di enfatizzare il collaborazionismo con i nazisti durante la seconda guerra mondiale. L’Occidente – Stati Uniti e UE in primis – si schierano a fianco dei manifestanti, mentre Mosca si appella all’ordine e teme una nuova rivoluzione colorata di quelle che avevano già destituito l’ancien regime filo-russo in altri Stati post-sovietici come Georgia (2003), la stessa Ucraina (2004) e il Kirghizistan (2005).

Le proteste degenerano e Janukovyč fa come Craxi: scappa dal suo Paese chiamandolo esilio, laddove gli altri preferiscono definirla latitanza. La sua Hammamet è Rostov sul Don, che è praticamente appena al di qua del confine russo-ucraino. L’Ucraina assiste al più importante regime change dai tempi dell’annessione sovietica, e a Kiev si instaura un esecutivo dichiaratamente occidentalista, filo-europeo e discretamente russofobo, guidato dal nuovo presidente (ex magnate dell’industria del cioccolato) Petro Porošenko.

Non tutti sono d’accordo. La leadership russa per esempio va nel panico: con l’Ucraina transitata nell’orbita occidentale, praticamente Mosca si ritrova come unica nazione europea “amica” (rectius, non nemica) la sola Bielorussia di Aljaksandr Lukašėnka – che però non manca di ammiccare sporadicamente all’Occidente, e lo continuerà a fare fino all’implosione interna del 2020 e alla richiesta di aiuto (non senza conseguenze) a Putin. Praticamente quasi tutto l’ex Patto di Varsavia è entrato nell’UE, nella NATO o in entrambe. Un’onta che rischia di avere conseguenze esiziali per il Cremlino, che sta per perdere inoltre un’importante base navale sul Mar Nero a Sebastopoli (Crimea).

Mosca sbaraglia così le carte e rivoluziona di fatto l’ordine internazionale invadendo la penisola crimeana (annessa tramite plebiscito) e incitando la popolazione russofona e russofila dell’est ucraino a contrastare il nuovo regime ucraino. Nascono così due sedicenti repubbliche che dichiarano l’indipendenza dall’Ucraina: la repubblica popolare di Doneck e la repubblica popolare di Luhans’k. Il Donbass è da allora teatro di guerra tra esercito regolare ucraino – che vuole riconquistare le regioni scismatiche – e i secessionisti vicini a Mosca – che in un prossimo futuro prevedono di chiedere l’annessione alla Russia ma intanto si “godono”, si fa per dire, la contestata indipendenza.

Nel 2015, con i c.d. accordi di Minsk e grazie all’intermediazione di Russia, Francia e Germania, si arriva a un cessate il fuoco tra le due fazioni e a un compromesso che prevede sostanzialmente la fine delle ostilità e la permanenza di Doneck e Luhans’k all’interno dello Stato ucraino, ma con una vasta autonomia e un rilevante potere decisionale. È però giusto una questione di tempo prima che emergano divergenze nell’interpretazione degli accordi e, di conseguenza, a molteplici violazioni del cessate il fuoco e migliaia di altre vittime.

 

Ucraina: svolgimento

Alla fine dello scorso anno (come già nella primavera del 2021) la Russia schiera al suo confine con l’Ucraina un massiccio contingente bellico di truppe – li si quantifica attualmente in circa 150.000 – e sistemi di arma capaci di superare l’eventuale resistenza delle truppe di Kiev. I governi di Kiev e Washington colgono l’occasione per definire l’ammassamento di truppe come il prologo di una futura invasione di Mosca, pronta a finire quanto iniziato nel 2014 in Crimea.

Il 17 dicembre la Russia, che mantiene inizialmente un alone di mistero sulle sue intenzioni, invia alle cancellerie occidentali una lista di richieste per “smorzare” l’escalation: innanzitutto il divieto formale di ingresso nella NATO per gli Stati dell’ex URSS – soprattutto Ucraina e Georgia, due dei Paesi interessati dalle già menzionate rivoluzioni colorate. Inoltre, chiede l’indietreggiamento delle forze dell’Alleanza Atlantica ai suoi confini pre-1997, il che significa mandar via uomini e missili NATO da Baltici (Estonia, Lettonia, Lituania), Polonia, Romania, Bulgaria, Repubblica Ceca e dal resto dell’ex Patto di Varsavia.

Proprio quest’ultimo punto – spesso mal sottolineato nella narrazione mediatica – è quello di maggiore importanza: che l’Ucraina entri nella NATO è infatti una prospettiva assai fantascientifica, dato che è lo stesso Occidente a fare spallucce di fronte alla volontà ucraina. Al contrario, far indietreggiare la NATO significa portare indietro le lancette dell’orologio della storia. Mutuando la terminologia giuridica, la prima richiesta russa equivale grossomodo a un divieto di avvicinamento da un luogo dove probabilmente non sareste nemmeno passati. La seconda, invece, è una riduzione in pristino di un bene già di vostra proprietà.

La Russia ribadisce di non avere alcuna intenzione di invadere, derubricando la questione ad affare interno ai propri confini sovrani, dato che tutte le 150.000 truppe sono ufficialmente sul suolo russo ed impegnate in “semplici” esercitazioni militari. Tuttavia, alla Casa Bianca interpretano le richieste di Mosca come un ultimatum: se non accontentassimo il Cremlino, ci si chiede, quale sarebbe la punizione? A Washington hanno 150.000 motivi per propendere in quest’ultima direzione.

 

Ucraina: cosa succederà

Qualsiasi tentativo di previsione futura, nel campo della geopolitica, è destinato a rivelarsi intrinsecamente fallace: le scienze umane sono per definizione scienze inesatte, in quanto non dominate dal principio di razionalità.

Perciò, nonostante la prospettiva di un’invasione russa dell’Ucraina sia razionalmente un’ipotesi che non gioverebbe a nessuno – all’Ucraina, che verrebbe sconfitta e perderebbe un’altra fetta di territorio; e alla Russia, che verrebbe colpita da durissime sanzioni finanziarie e diverrebbe ancor più uno Stato pària – non è escluso che possa scoppiarne una.

Per il momento l’unica certezza apparente è che a combattere un’eventuale guerra sarebbero gli eserciti di Kiev e Mosca. NATO e Stati Uniti hanno ripetutamente sottolineato che il loro supporto per Kiev si limiterà al livello logistico-finanziario, poiché intervenire in Ucraina (che è fuori dalla NATO) significherebbe davvero rischiare ciò che si è attentamente evitato per quasi cinquant’anni del Novecento.