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Art. 110

Motivi di ricorso

1. Il ricorso per cassazione è ammesso contro le sentenze del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.

BIBLIOGRAFIA: M. Lipari, R. Giovagnoli, A. Sorto, Il diniego di giurisdizione, in www.giustizia-amministrativa.it.  

 

SOMMARIO: Premessa. 1. Le questioni sollevate dalla norma. 2. Il problema della violazione del diritto sovranazionale quale un ampliamento del sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.   

 

Premessa

L’articolo 110 CPA ripropone le stesse norme contenute negli abrogati articoli 36 della legge n. 1034/1971 e 48 del r.d. n. 1054/1924. La norma in parola, recentemente, ha posto un problema di raccordo con la disciplina euro-unitaria evidenziando le difficoltà di stabilire se la violazione di una norma europea da parte del giudice interno possa integrare gli estremi di un ricorso innanzi alla suprema Corte di cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione. Di qui l’esigenza di commissionare una ricerca anche all’Ufficio Studi del Consiglio di Stato.

 

1. Le questioni sollevate dalla norma

 L’articolo 110 del codice del processo amministrativo stabilisce che “il ricorso per cassazione è ammesso contro le sentenze del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”. La disposizione legislativa riproduce l’ultimo comma dell’articolo 111 della Costituzione, secondo il quale “Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”. La formula linguistica incentrata sul concetto di inerenza alla giurisdizione non ha un significato univoco e chiaro. Al riguardo, si contrappongono due orientamenti estremi: il primo allarga la nozione di giurisdizione, comprendendovi, alla lettera, ogni manifestazione del potere tipico spettante al giudice; il secondo considera questioni di giurisdizione solo quelle concernenti il riparto di attribuzioni tra i diversi ordini di giurisdizione. La giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione ha sviluppato un indirizzo più articolato e complesso, che muove dalla consolidata distinzione tra i limiti interni e i limiti esterni della giurisdizione. Solo questi ultimi rientrano nel concetto espresso dall’articolo 111 della Cost.. Allora il primo problema che si pone è quello di delimitare e sostanziare il concetto di “rifiuto di giurisdizione” (M. Lipari, R. Giovagnoli, A. Sorto). Questa formula descrive sinteticamente i casi in cui il giudice, pur riconoscendo di esser astrattamente titolare del potere giurisdizionale in ordine alla vertenza sottopostagli, rifiuti ingiustificatamente di esercitarlo nel particolare caso concreto, adottando una pronuncia di carattere processuale, che omette di esaminare il merito della controversia. La Corte di Cassazione è incline a comprendere anche questa ipotesi nell’accezione ampia di “questione di giurisdizione”. Tuttavia, l’affermazione consolidata del principio non si è tradotta in significative applicazioni concrete. Ad esempio, uno dei rarissimi casi in cui una sentenza del Consiglio di Stato (n. 6284/2014) è stata annullata per ingiustificato rifiuto di giurisdizione riguarda un’ipotesi in cui il giudice amministrativo, ritenuto fondato il ricorso incidentale teso a “paralizzare” l’azione proposta dal ricorrente principale, ha dichiarato inammissibile la domanda. Le Sezioni Unite, rilevando che tale decisione si poneva in contrasto con il diritto dell’Unione europea in materia di affidamento dei contratti pubblici, hanno ritenuto che la pronuncia di inammissibilità, nonostante il suo motivato richiamo alle regole processuali di diritto interno, riguardanti la legittimazione e l’interesse al ricorso, si risolvesse in un ingiustificato rifiuto di tutela giurisdizionale, così come scolpita dal diritto dell’Unione europea e, segnatamente, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Tale indirizzo, tuttavia, è stato successivamente contraddetto, in analoga fattispecie, da un’altra pronuncia delle stesse Sezioni Unite. Da qui le criticità in ordine al sindacato della Cassazione nei casi di “rifiuto di giurisdizione”.  In una prospettiva di carattere generale, deve essere ricordato che anche nel giudizio di impugnazione delle pronunce del TAR dinanzi al Consiglio di Stato può prospettarsi una questione di giurisdizione. In particolare, assume un rilievo centrale la previsione dell’articolo 105 del codice del processo amministrativo, che disciplina le ipotesi, ritenute tassative, di “Rimessione al primo giudice”. Secondo la disposizione: “1. Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio.”Dal punto di vista strettamente processuale, poi, “2. Nei giudizi di appello contro i provvedimenti dei tribunali amministrativi regionali che hanno declinato la giurisdizione o la competenza si segue il procedimento in camera di consiglio, di cui all’articolo 87, comma 3.” Dunque, nel processo amministrativo conserva una concreta rilevanza stabilire se una determinata questione possa essere qualificata, o meno, come afferente all’errato diniego di giurisdizione. In tali eventualità, infatti, emergono, con evidenza due aspetti: a) l’uno attiene al rito processuale; b) l’altro concerne il contenuto della pronuncia che accoglie il motivo di giurisdizione dedotto in grado di appello contro una pronuncia del TAR. L’aspetto processuale è, nella concreta dinamica del giudizio, di scarso rilievo, poiché, in forza della previsione di cui all’articolo 87, comma 4, “La trattazione in pubblica udienza non costituisce motivo di nullità della decisione”. Inoltre, poiché il rito in udienza pubblica prevede termini più lunghi di quello camerale e maggiori garanzie delle parti, la sua errata applicazione in luogo di quella dell’udienza pubblica non potrebbe determinare alcuna lesione del diritto di difesa e, dunque, non potrebbe in alcun modo costituire il presupposto per l’eventuale impugnazione della decisione del Consiglio di Stato, né per revocazione, né per cassazione: il difetto di interesse risulterebbe assorbente anche rispetto agli ulteriori limiti intrinseci di tali mezzi di gravame. Molto più consistente è invece il rilievo della disciplina di cui all’articolo 105 CPA, che rispecchia l’impostazione dell’articolo 353 c.p.c.: “Il giudice d’appello, se riformala sentenza di primo grado dichiarando che il giudice ordinario ha sulla causa la giurisdizione negata dal primo giudice, pronuncia sentenza con la quale rimanda le parti davanti al primo giudice. Le parti debbono riassumere il processo nel termine perentorio di tre mesi dalla notificazione della sentenza”. Se il Consiglio di Stato ritiene errata la pronuncia del T.a.r. che ha declinato la giurisdizione, quindi, non può pronunciarsi nel merito, ma deve rimettere la controversia al primo giudice, secondo il meccanismo delineato dall’articolo 105 CPA. La violazione della previsione codicistica determinerebbe un concreto vulnus al diritto di difesa delle parti del giudizio, perché le priverebbe della possibilità di sottoporre il merito della controversia a due successivi gradi del processo. Ci si potrebbe interrogare, allora, in linea del tutto teorica, se questo eventuale “errore” sia, a sua volta sindacabile attraverso la proposizione del ricorso per cassazione diretto a prospettare un’ulteriore forma di (parziale) diniego di giurisdizione, che si sostanzierebbe nell’impedire lo svolgimento fisiologico del doppio grado di giudizio, sancito a livello costituzionale, dall’articolo 125 della Cost. (Cons. Stato Sez. IV, 29-02-2016, n. 860 (M. Lipari, R. Giovagnoli, A. Sorto). Ai sensi dell’articolo 105 CPA, l’eventuale riforma della pronuncia di primo grado che abbia declinato la giurisdizione rende obbligatorio il rinvio al T.A.R. per l’esame delle censure di merito, a salvaguardia del tendenziale principio del doppio grado di giudizio. L’azione avverso il silenzio inadempimento della p.a. è ammissibile nelle sole ipotesi in cui si chieda la tutela di un interesse legittimo e, comunque, solo nelle questioni che rientrano nella giurisdizione del Giudice amministrativo. Ma l’esperienza concreta evidenzia che siffatta questione di giurisdizione non è mai stata posta all’attenzione delle Sezioni Unite e difficilmente potrebbe essere compresa in una nozione, per quanto dilatata, di diniego di giurisdizione, dal momento che alla parte non viene negata tutela dal giudice, ma solo erroneamente applicata la regola processuale che individua il giudice competente alla cognizione del merito. Ciò chiarito, una ricerca condotta sulla giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di “diniego di giurisdizione” porta alla conclusione che tale nozione generale risulta totalmente estranea alle decisioni adottate dal giudice di appello. In altri termini, il rinvio al TAR di cui all’articolo 105 CPA è stato finora applicato solo nei casi in cui il giudice di primo grado declina la propria giurisdizione in favore di un altro plesso giurisdizionale. Non si ravvisano casi in cui il giudice di appello abbia rinviato al giudice di prima istanza che abbia omesso di pronunciarsi su una domanda. Il dato oggettivo appena indicato potrebbe essere spiegato, in prima approssimazione, considerando alcuni elementi: a) in linea di massima, il TAR evita pronunce costruite come mera negazione dell’astratta tutelabilità di una posizione giuridica; le decisioni sono basate sulla affermata insussistenza, nel merito, della pretesa sostanziale, dell’interesse al ricorso, della legittimazione, delle condizioni o dei presupposti processuali; in tali circostanza, allora, l’appello della parte soccombente è fisiologicamente orientato a strutturarsi in chiave pienamente devolutiva e traslativa, senza configurarsi come impugnazione annullatoria di una decisione asseritamente lesiva del diritto di difesa; b) il giudice di appello asseconda la costante tendenza dell’ordinamento a ridurre i casi di rinvio al primo giudice, valorizzando il principio di economicità e speditezza dei processi; c) le stesse parti risultano inclini a preferire una decisione di merito in sede di appello e tendono a non prospettare il tema del rinvio al primo giudice, avendo normalmente interesse alla soluzione rapida della controversia. In questo quadro di riferimento generale non deve sorprendere che anche la questione specifica del mancato esame del ricorso principale da parte del TAR, in seguito all’accoglimento del ricorso incidentale, non sia mai stata configurata come possibile caso di diniego di giurisdizione, ai sensi dell’articolo 105 CPA. Parimenti, l’accertata violazione del diritto europeo da parte del TAR non è mai stata considerata come possibile indice di illegittimo “diniego di giurisdizione”, ma viene trattata alla stregua di un comune errore della decisione, suscettibile di riforma in appello (M. Lipari, R. Giovagnoli, A. Sorto). Si deve aggiungere, poi, che il problema della astratta applicabilità dell’articolo 105 del CPA non emerge nei casi di mancato rinvio della questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, considerato che solo il giudice di ultima istanza è obbligato al rinvio, in presenza dei necessari presupposti. A questo riguardo si pone un’ulteriore riflessione, correlata all’analisi del concreto modo di operare del Consiglio di Stato, nei casi in cui la Cassazione accerti che la decisione del giudice amministrativo abbia erroneamente “negato” la giurisdizione, per omesso esame del ricorso principale. Questa situazione può verificarsi in due casi: a) il TAR ha esaminato nel merito sia il ricorso incidentale sia quello principale, ma il Consiglio di Stato, riformando la decisione di primo grado, riforma il capo di sentenza riguardante il ricorso principale, stabilendo che esso non avrebbe dovuto essere esaminato; b) il Tar non ha esaminato nel merito il ricorso principale e il Consiglio di Stato conferma questa statuizione. Nel primo caso, in seguito al rinvio disposto dalla Cassazione, il Consiglio di Stato dovrà esaminare nel merito il ricorso principale. È questa l’ipotesi considerata dalla decisione delle Sezioni Unite del 6 febbraio 2015, n. 2242. In seguito all’accoglimento del ricorso per cassazione, nel giudizio di rinvio il Consiglio di Stato ha poi deciso nel merito la controversia. Nel secondo caso, invece, si pone un problema di coordinamento con l’articolo 105 CPA. Infatti, il Consiglio di Stato dovrebbe adottare, a sua volta, una statuizione coerente con il rispetto del doppio grado e rinviare al TAR per il prosieguo della controversia. Occorrerebbe d’altro lato verificare il coordinamento di tali disposizioni con le previsioni degli articoli 382 e 383 c.p.c.. Infine, neppure risulta che in questi termini sia mai stata declinata concretamente la portata dell’articolo 353, primo comma, c.p.c., essendosi soffermate invece le pronunce d’appello èdite sempre su questioni di declinatoria della giurisdizione civile in favore di quella amministrativa, contabile etc..Una traccia lessicale significativa in tal senso è rinvenibile, da ultimo, nella sentenza delle Sezioni Unite 31 maggio 2017, n. 13722, la quale, nel ribadire che il giudice d’appello, a prescindere dal fatto che le parti abbiano formulato conclusioni di merito, deve comunque rimettere al primo giudice la causa per la quale questi abbia erroneamente declinato la giurisdizione (a tanto dovendo supplire la stessa Cassazione per il caso di inottemperanza), discorre ampiamente di “giurisdizione negata dalla prima sentenza” intesa negli stretti termini funzionali alla declinatoria in favore di altra giurisdizione, attestando in tal modo l’assenza di una polisemicità di questa espressione nella pratica giurisprudenziale in relazione al diniego di giurisdizione inteso, in senso ampio, come rifiuto di decidere in sé. 

 

2. Il problema della violazione del diritto sovranazionale quale un ampliamento del sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione

 Altra questione controversa è se la violazione del diritto sovranazionale possa giustificare un ampliamento del sindacato per motivi di giurisdizione esercitato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti ai sensi dell’articolo 111, ultimo comma, Cost..Una eventuale risposta positiva al quesito presuppone che si riconosca al vizio rappresentato dalla violazione della norma o sovranazionale una maggiore gravità o, comunque, una “diversità”, rispetto alla violazione della norma nazionale (anche eventualmente identica nel contenuto precettivo). Nella giurisprudenza delle Sezioni Unite è, infatti, pacifico che non costituisca vizio attinente alla giurisdizione la violazione di disposizioni nazionali (non importa se di contenuto sostanziale o processuale), che incida sul contenuto della decisione di merito o che conduca alla chiusura in rito del processo (con una “erronea” dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità della domanda proposta). Si tratterebbe, invero, nel primo caso, di error in iudicando, nel secondo di error in procedendo, ma comunque sempre di violazione dei limiti interni alla giurisdizione, estranei, quindi, ai “motivi di giurisdizione” di cui agli articoli 360, n. 1 c.p.c. e 111, ottavo comma, Cost. (M. Lipari, R. Giovagnoli, A. Sorto). Si tratta di un orientamento consolidato (Cass., sez. un., 30.3.2017 n. 8245; Id., 16.1.2014 n. 771; Id., 17.5.2013 n. 12106; Id., n. 12671/2007; Id., n. 10828/2006; Id., n. 7799/2005; Id., n. 24175/2004; Id., 9.8.1996 n. 7339), che esclude dal “motivo di giurisdizione” la violazione delle disposizioni nazionali che attengono al contenuto della decisione, anche quando precludono in rito l’esame nel merito della pretesa sostanziale dedotta in giudizio. Rispetto al diritto nazionale, l’unica significativa deroga a tale univoco e consolidato orientamento ha riguardato la nota questione della c.d. pregiudiziale amministrativa di annullamento rispetto all’azione di risarcimento del danno: la questione (e la relativa giurisprudenza delle Sezioni Unite sull’attinenza ai motivi di giurisdizione della c.d. “pregiudizialità amministrativa”) è, tuttavia, ormai superata alla luce della disciplina specifica che il Codice del processo amministrativo ha dedicato alla giurisdizione sull’azione risarcitoria e ai rapporti con l’azione di annullamento). La non sindacabilità dei limiti interni, ossia del modo di esercizio della giurisdizione, è stata eccezionalmente esclusa per inosservanze della legge processuale (error in procedendo) che integrino un radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un “evidente diniego di giustizia”(Cass., sez. un. 5.4.2017 n. 8798; Id., 17.1.2017 n. 964; Id., 30.10.2013 n. 24468; Id., 14.9.2012 n. 15428). Si tratta, tuttavia,  di casi peculiari che danno luogo alla c.d. “decisione abnorme”, al cui ambito applicativo non è, in quanto tale, riconducibile il vizio rappresentato dalla violazione del diritto sovranazionale. A fronte di questo consolidato panorama giurisprudenziale, l’eventuale diversa risposta che dovesse darsi alla questione sottoposta ora al vaglio delle Sezioni Unite non potrebbe, allora, che sottendere il riconoscimento alla violazione del diritto sovranazionale di un connotato di “maggiore gravità” rispetto alla violazione di un’analoga disposizione di diritto interno. Il problema in esame si è posto nella maggior parte dei casi con riferimento a quel particolare motivo di giurisdizione rappresentato dal c.d. diniego di giustizia, che si manifesta quando la violazione della norma sovranazionale conduca a non esaminare nel merito la pretesa sostanziale azionata in giudizio. Il tema in oggetto, tuttavia, nelle sue implicazioni di principio, sembra avere una portata più ampia. Se, infatti, si accoglie la premessa della citata “diversità” (o maggiore gravità) della violazione del diritto sovranazionale, una questione analoga si potrebbe porre anche quando tale violazione conduca a decidere nel merito una controversia che avrebbe dovuto essere chiusa in rito o, comunque, incida sul contenuto “sostanziale” della decisione giurisdizionale (portando a negare o concedere, nel merito,una tutela che il diritto sovranazionale rispettivamente imponeva o non consentiva di concedere). La questione dei rapporti tra motivi di giurisdizione e violazione del diritto sovranazionale, pare, quindi, avere una portata ampia e unitaria (M. Lipari, R. Giovagnoli, A. Sorto), che non giustifica, sul piano concettuale e dei principi, una trattazione e un esito diversificati a seconda che il contrasto con il diritto sovranazionale si traduca nel mancato esame nel merito, o, viceversa, in un erroneo esame del merito (nel duplice senso di un merito che non avrebbe dovuto essere esaminato o che avrebbe dovuto essere deciso con un esito diverso sul piano del diritto sostanziale). In tutti questi casi, la risposta alla questione in oggetto presuppone un interrogativo di fondo, che è quello richiamato all’inizio, ovvero se la violazione del diritto sovranazionale abbia una “diversità” (o maggiore gravità, che dir si voglia) rispetto all’eventuale violazione di disposizioni nazionali di analogo tenore. In conclusione, è possibile affermare che l’ordinamento dell’Unione europea non impone la “rimozione” o la disapplicazione del giudicato che si sia formato in violazione del diritto comunitario (a meno che analogo rimedio sia previsto dall’ordinamento nazionale in caso di violazione del diritto interno). Il principio sancito dalla sentenza della Corte di giustizia UE 18 luglio 2007, C-119/05 nel noto “caso Lucchini” (che ha affermato l’obbligo di disapplicare l’articolo 2909 c.c. per evitare l’erogazione di aiuti di Stato incompatibili con il diritto dell’Unione) è stato circoscritto dalla successiva giurisprudenza euro-unitaria alla materia degli aiuti di Stato (e giustificato in ragione della competenza esclusiva, esistente in tale materia, a favore della Commissione europea). La Corte di giustizia ha, tuttavia, espressamente escluso che la regola della disapplicazione possa valere in altri settori (dove non esiste analoga competenza esclusiva), riconoscendo, al contrario, come il principio della stabilità del giudicato e di certezza dei rapporti giuridici appartenga ai principi fondamentali dello stesso ordinamento dell’U.E. (cfr. sentenze 10 luglio 2014, C-213/13; 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler; 3 settembre 2009, causa C-2/08, Fallimento Olimpiclub). I rapporti tra giudicato nazionale e primato del diritto euro-unitario sono stati successivamente ribaditi dalla Corte di Giustizia nella sentenza pregiudiziale interpretativa 10 luglio 2014, C-213/03, pronunciata su una questione pregiudiziale sollevata dal Consiglio di Stato con ordinanza della Quinta Sezione, 10 aprile 2013, n. 1962. In tale sentenza il giudice europeo, richiamando e compendiando la propria precedente giurisprudenza sul tema, ha ribadito i seguenti principi: a) al fine di garantire tanto la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici quanto una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento dei mezzi di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per tali ricorsi non possano più essere rimesse in discussione (sentenze Kapferer, C234/04, punto 20; Commissione/Lussemburgo, C526/08, punto 26; Thyssen Krupp Nirosta/Commissione, C352/09 punto 123); b) pertanto, il diritto dell’Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto (v., in tal senso, sentenze Eco Swiss, C126/97, punti 46 e 47; Kapferer, punti 20 e 21; Fallimento Olimpiclub, punti 22 e 23; Asturcom Telecomunicaciones, C40/08, punti da 35 a 37; Commissione/Slovacchia, C507/08, punti 59 e 60).

 

Il punto di vista dell’autore

L’articolo 110 del CPA pur essendo una norma che richiama l’articolo 111 della Costituzione, a tenore del quale le sentenze del Consiglio di Stato possono essere impugnate per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, tuttavia, come abbiamo avuto modo di vedere la stessa ha finito per porre recentemente seri problemi di raccordo con il diritto euro-unitario. Fortunatamente la Corte di Giustizia del Lussemburo ha sgombrato il campo da ogni dubbio di sorta chiarendo che il diritto Ue esclude che il giudice nazionale sia tenuto a disapplicare le norme procedurali interne che conferiscano al decisum forza di giudicato e tanto anche nel caso in cui una eventuale disapplicazione consentirebbe di elidere un contrasto con il diritto euro-unitario.