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Art. 84 - Definizioni (3)

1. La documentazione antimafia è costituita dalla comunicazione antimafia e dall’informazione antimafia.

2. La comunicazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67.

3. L’informazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 91, comma 6, nell’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4. (1)

4. Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione dell’informazione antimafia interdittiva di cui al comma 3 sono desunte:

a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluni dei delitti di cui agli articoli 353, 353–bis, 603–bis, 629, 640–bis, 644, 648–bis, 648–ter del codice penale, dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3–bis, del codice di procedura penale e di cui all’articolo 12–quinquies del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356; (4)

b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione;

c) salvo che ricorra l’esimente di cui all’articolo 4 della legge 24 novembre 1981, n. 689, dall’omessa denuncia

all’autorità giudiziaria dei reati di cui agli articoli 317 e 629 del codice penale, aggravati ai sensi dell’articolo 7 del decreto–legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203,

da parte dei soggetti indicati nella lettera b) dell’articolo 38 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, anche in assenza nei loro confronti di un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione o di una causa ostativa ivi previste;

d) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell’interno ai sensi del decreto legge 6 settembre 1982, n. 629, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 ottobre 1982, n. 726, ovvero di quelli di cui all’articolo 93 del presente decreto;

e) dagli accertamenti da effettuarsi in altra provincia a cura dei prefetti competenti su richiesta del prefetto procedente ai sensi della lettera d);

f) dalle sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva stabilmente con i soggetti destinatari dei provvedimenti di cui alle lettere a) e b), con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti coinvolti nonché le qualità professionali dei subentranti, denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia.

4–bis. La circostanza di cui al comma 4, lettera c), deve emergere dagli indizi a base della richiesta di rinvio a

giudizio formulata nei confronti dell’imputato e deve essere comunicata, unitamente alle generalità del soggetto che ha omesso la predetta denuncia, dal procuratore della Repubblica procedente alla prefettura della provincia in cui i soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, hanno sede ovvero in cui hanno residenza o sede le persone fisiche, le imprese, le associazioni, le società o i consorzi interessati ai contratti e subcontratti di cui all’articolo 91, comma 1, lettere a) e c) o che siano destinatari degli atti di concessione o erogazione di cui alla lettera b) dello stesso comma 1. (2)

(1) Comma così modificato dall’ art. 8, comma 1, lett. a), D. LGS. 218/2012.

(2) Comma aggiunto dall’ art. 2, comma 1, lett. a), D. LGS. 218/2012.

(3) Il presente articolo è entrato in vigore il 13 febbraio 2013, ai sensi di quanto disposto dall’art. 119, comma 1, come sostituito dall’art. 9, comma 1, lett. a), D. LGS. 218/2012.

(4) Lettera così modificata dall’ art. 26, comma 1, L. 161/2017.

Rassegna di giurisprudenza

Comunicazione antimafia

Nel sistema della documentazione antimafia previsto e disciplinato dal D.lgs. 159/2011, la comunicazione antimafia consiste, ai sensi dell’art. 84, comma 2, nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67. Queste, che operano di diritto (art. 67, commi 2 e 8), sono costituite (art. 67, commi 1 e 8) dai provvedimenti definitivi di applicazione delle misure di prevenzione di cui all’art. 6 del medesimo decreto e dalle condanne con sentenza definitiva o confermata in appello per i delitti consumati o tentati elencati all’art. 51, comma 3 bis, c.p.p., nonché (a seguito delle modifiche introdotte con il DL 133/2018, convertito, con modificazioni, dalla L. 132/2018) per i reati di cui all’articolo 640, comma 2, n. 1, CP, commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico, e all’articolo 640–bis CP.

Poiché la comunicazione antimafia si fonda, dunque, sul semplice accertamento che, a carico di determinati soggetti, siano state o meno applicate misure di prevenzione personali definitive o pronunciate condanne con sentenza definitiva o confermata in appello per i delitti sopra menzionati, essa costituisce atto di natura vincolata che non lascia spazio alcuno per valutazioni discrezionali.

Questo è vero per tutte le comunicazioni antimafia, sia che si tratti di comunicazioni liberatorie emesse de plano, allorché dalla consultazione della banca dati nazionale unica della documentazione antimafia non emerga la sussistenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67 a carico dei soggetti censiti (art. 88, comma 1), sia che si tratti di comunicazioni, interdittive o liberatorie, emesse all’esito degli ulteriori accertamenti richiesti dall’art. 88, comma 2, quando dalla consultazione della banca dati emerga, viceversa, la sussistenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto, nel qual caso la legge stabilisce che il prefetto effettui le necessarie verifiche e accerti la corrispondenza dei motivi ostativi emersi dalla consultazione della banca dati alla situazione aggiornata del soggetto sottoposto agli accertamenti.

In particolare, poiché i motivi ostativi sono le cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67, le verifiche sulla corrispondenza dei motivi ostativi emersi dalla consultazione della banca dati alla situazione aggiornata del soggetto sottoposto ad accertamenti in tanto possono dare esito negativo, con conseguente rilascio della certificazione antimafia liberatoria (art. 88, comma 3), in quanto, nell’attualità, non sussista più alcuna di quelle cause di decadenza, di sospensione o di divieto (Cons. Stato, Sez. 3, 1109/2017).

Ciò implica un accertamento in merito al fatto che gli effetti pregiudizievoli della misura di prevenzione personale o della sentenza di condanna possano essere cessati, il che può accadere per effetto di successiva riabilitazione (art. 178 CP; art. 70 D. Lgs. 159/2011; TAR Lombardia, Milano, Sez. 1, 1811/2018) ovvero, in una diversa prospettiva, perché la causa ostativa non è più, giuridicamente, riferibile al soggetto interessato (TAR Sicilia, Catania, Sez. 2, 2337/2016, per l’esempio del legale rappresentante di una società di capitali, il quale, già colpito da una delle misure di prevenzione, risulti ormai estraneo all’impresa).

Non risponde al vero, invece, che le fattispecie ostative ex art. 67, comma 8, al rilascio della comunicazione antimafia liberatoria abbiano, in generale, una efficacia limitata al quinquennio previsto dal comma 4 dello stesso articolo, espressamente richiamato dal comma 8.

Difatti la disposizione di cui all’art. 67, comma 4, circoscrive in cinque anni l’ambito temporale di efficacia dei divieti collegati alla ricorrenza delle cause ostative sopra menzionate non già per la persona sottoposta alla misura di prevenzione o condannata, bensì con riferimento esclusivo (come reso palese dall’uso delle parole “in tal caso”) a chi con costui conviva, nonché alle imprese, associazioni, società e consorzi di cui la persona sottoposta a misura di prevenzione sia amministratore o determini in qualsiasi modo scelte e indirizzi.

Lo stesso deve dirsi per il richiamo al comma 4 operato dal comma 8 del medesimo art. 67. Di conseguenza, poiché l’appellato ha, a suo carico, una sentenza irrevocabile di condanna per il reato di cui all’art. 416–bis CP e non ha chiesto ed ottenuto la riabilitazione, l’emissione di una comunicazione antimafia interdittiva nei suoi riguardi costituisce esito doveroso e vincolato di quella risultanza, restando precluso al Prefetto ogni apprezzamento discrezionale in merito all’attualità della sua pericolosità criminale (Cons. Stato, Sez. 3, 2773/2019).

Ai sensi dell’art. 84, la documentazione antimafia è costituita dalla “comunicazione antimafia” e dalla “informazione antimafia”. La prima consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67; la seconda, oltre a queste circostanze, può rappresentare anche la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi di un’impresa soggetta ai controlli in materia. Il sistema rappresenta una forma di tutela avanzata avverso il fenomeno della penetrazione della mafia nell’economia legale.

L’emissione dei provvedimenti comporta tra l’altro, per quanto rileva nella presente sede, l’esclusione di un imprenditore dalla titolarità di rapporti contrattuali con le P.A. determinando a suo carico una particolare forma di incapacità giuridica (Cons. Stato, Adunanza plenaria, 3/2018). L’interdittiva antimafia costituisce una misura volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della P.A. e si pone a tutela sia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine, del corretto utilizzo delle risorse pubbliche.

L’informazione, a differenza della comunicazione, si fonda su una valutazione ampiamente discrezionale circa la sussistenza o meno di tentativi di infiltrazione mafiosa, che muove dall’analisi e dalla valorizzazione di specifici elementi fattuali i quali rappresentano obiettivi indici sintomatici di connessioni o collegamenti con associazioni criminali.

L’articolo 84, comma 4, prevede che tali elementi vengano desunti dal contenuto di atti giudiziari; da accertamenti di polizia o da vicende imprenditoriali particolarmente sintomatiche di un intento elusivo; l’art. 91, comma 6, del medesimo decreto prevede poi che il Prefetto possa desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa anche da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, unitamente ad altri elementi dai quali emerga che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata. Tale fattispecie viene in rilievo nella presente sede (TAR Toscana, Sez. 2, 910/2018).

Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’ articolo 89–bis nella parte in cui stabilisce che l’informazione antimafia è adottata anche nei casi in cui è richiesta una mera comunicazione antimafia e produce gli effetti di questa (Corte costituzionale, sentenza 4/2018).

Nell’attuale sistema della documentazione antimafia la suddivisione tra l’ambito applicativo delle comunicazioni antimafia e delle informazioni antimafia, codificata dal d. lgs. n. 159/2011, mantiene la sua attualità –del resto ribadita nel codice stesso– se e nella misura in cui essa non si risolva nella impermeabilità dei dati posti a fondamento delle une con quelli posti a fondamento delle altre, soprattutto dopo l’istituzione, in attuazione dell’art. 2 della legge delega, della Banca dati nazionale unica, che consente di avere una cognizione ad ampio spettro e aggiornata della posizione antimafia di una impresa (Cons. Stato, Sez. 3, 739/2017).

 

Informazione antimafia

Questioni di legittimità costituzionale

Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Palermo sugli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4. L’informazione interdittiva antimafia adottata dal prefetto nei confronti dell’attività privata delle imprese oggetto di tentativi di infiltrazione mafiosa non viola il principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata perché, pur comportandone un grave sacrificio, è giustificata dall’estrema pericolosità del fenomeno mafioso e dal rischio di una lesione della concorrenza e della stessa dignità e libertà umana. Non sono ravvisabili, in particolare, profili di incostituzionalità nella scelta di affidare l’adozione della misura interdittiva all’autorità amministrativa anziché a quella giudiziaria. Tale scelta è infatti giustificata dalla necessità di svolgere un’azione preventiva, mediante il costante monitoraggio delle modalità di infiltrazione della mafia nell’economia, e della sua capacità di adattarsi alle specifiche situazioni locali e all’evoluzione della realtà economica. In ogni caso le misure interdittive sono sottoposte ad un vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo da parte del giudice amministrativo, che è chiamato a procedere ad un esame sostanziale degli elementi raccolti dal prefetto, verificandone la consistenza e la coerenza, in modo da assicurare ai privati la necessaria tutela (Corte costituzionale, sentenza 57/2020).

…Conformità dell’istituto ai principi costituzionali ed a quelli desumibili dalla CEDU

Il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa. Lo stesso legislatore – art. 84, comma 3, – riconosce quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di «eventuali tentativi» di infiltrazione mafiosa «tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate».

Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di queste ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento e, cioè, l’elevata possibilità e non mera possibilità, la semplice eventualità che esso si verifichi. Il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in questa materia non sanziona perciò fatti, penalmente rilevanti, né reprime condotte illecite, ma mira a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi.

Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della P.A. o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4: si pensi, per tutti, ai cosiddetti. delitti spia), mentre altri, “a condotta libera”, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che “può” – si badi: può – desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata».

Il codice antimafia prevede anche, nell’art. 84, comma 4, lett. d), che gli elementi sintomatici dell’infiltrazione mafiosa, anche al di là di quelli previsti dall’art. 91, comma 6, possano essere desunti anche «dagli accertamenti disposti dal prefetto», come è accaduto nel caso di specie.

Non è richiesto che siffatti accertamenti siano consistiti necessariamente nell’accesso ai cantieri, in quanto l’art. 84, comma 4, lett. d), prevede che gli accertamenti disposti dal Prefetto possano essere i più vari, «anche» avvalendosi dei poteri di accesso delegati dal Ministro dell’Interno, ai sensi del DL 6/1982 convertito con modifiche nella L. 726/1982, o di quelli di cui all’art. 93, e dunque possano consistere anche nella sola acquisizione delle relazioni dalle Forze di polizia, poi esaminate dal Gruppo interforze e dallo stesso Prefetto (v. anche art. 93, comma 4 e comma 7, ove si parla genericamente, infatti, «della documentazione e delle informazioni acquisite»).

Non si ignora che voci fortemente critiche si sono levate rispetto alla presunta indeterminatezza dei presupposti normativi che legittimano l’emissione dell’informazione antimafia, soprattutto dopo la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, ric. n. 43395/09, nel caso De Tommaso c. Italia, riguardante le misure di prevenzione personali, e taluni autori, nel preconizzare l’”onda lunga” di questa pronuncia anche nella contigua materia della documentazione antimafia, hanno fatto rilevare come anche l’informazione antimafia “generica”, nelle ipotesi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), (accertamenti disposti dal Prefetto da compiersi anche avvalendosi dei poteri di accesso), sconterebbe un deficit di tipicità non dissimile da quello che, secondo i giudici di Strasburgo, affligge l’art. 1, lett. a) e b).

Si è osservato che l’assoluta indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto di emettere una informazione antimafia “generica”, in tali ipotesi di non meglio determinati accertamenti disposti dal Prefetto, apparirebbe poco sostenibile in un ordinamento democratico che rifugga dagli antichi spettri del diritto di polizia o dalle “pene” del sospetto e voglia ancorare qualsiasi provvedimento restrittivo di diritti fondamentali a basi legali precise e predeterminate. L’art. 84, comma 4, lett. d) ed e) – ma con un ragionamento applicabile anche alla seconda parte dell’art. 91, comma 6, dello stesso codice, laddove si riferisce a non meglio precisati «concreti elementi» – non contemplerebbe, secondo tale tesi, alcun parametro oggettivo, anche il più indeterminato, che possa in qualche modo definire il margine di apprezzamento discrezionale del Prefetto, rendendo del tutto imprevedibile la possibile adozione della misura.

Si ritiene che questa tesi non possa essere seguita e che, ferma restando ovviamente, se del caso, ogni competenza del giudice europeo per l’applicazione del diritto convenzionale e, rispettivamente, della Corte costituzionale per l’applicazione delle disposizioni costituzionali, non sia prospettabile alcuna violazione dell’art. 1, Protocollo 1 addizionale, CEDU, con riferimento al diritto di proprietà, e, per il tramite di tale parametro interposto, nessuna violazione dell’art. 117 Cost. per la mancanza di una adeguata base legale atta ad evitare provvedimenti arbitrari.

Anche gli accertamenti disposti dal Prefetto, nella stessa provincia in cui ha sede l’impresa o in un’altra, sono finalizzati, infatti, a ricercare elementi dai quali possa desumersi, ai sensi dell’art. 84, comma 3, (v. anche art. 91, comma 4), «eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate» e tali tentativi, per la loro stessa natura, possono essere desunti da situazioni fattuali difficilmente enunciabili a priori in modo tassativo.

Nella stessa sentenza De Tommaso c. Italia, sopra ricordata, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rammentato, in via generale, che «mentre la certezza è altamente auspicabile, può portare come strascico una eccessiva rigidità e la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze», conseguendone che «molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi e la cui interpretazione e applicazione sono questioni di pratica» (§ 107), e ha precisato altresì che «una legge che conferisce una discrezionalità deve indicare la portata di tale discrezionalità» (§ 108).

Ora non si può negare che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, come si è visto, abbia fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell’art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f)), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.

L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in questa materia, che postula la tesi in parola (sostenuta, invero, da autorevoli studiosi del diritto penale e amministrativo), prova troppo, del resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.

Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio dei principî di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito (SU, 111/2018).

Il GA è, a sua volta, chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame.

Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio.

La funzione di “frontiera avanzata” svolta dall’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti–Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini.

E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi. Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel «tenere il passo con il mutare delle circostanze» secondo una nozione di legittimità sostanziale.

Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in generale compatibile con la normativa convenzionale poiché «il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto–reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale» (Cass. pen., Sez. 2, 30974/2018).

La giurisprudenza amministrativa ha così enucleato – in modo sistematico a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016 e con uno sforzo “tassativizzante” – le situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative o dalla casistica giurisprudenziale, che possono costituire altrettanti “indici” o “spie” dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse, per la loro stessa necessaria formulazione aperta, costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus clausus in modo da poter consentire all’ordinamento di poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa via via che essa assume forme sempre nuove e sempre mutevoli.

Basti qui ricordare a mo’ di esempio, nell’ambito di questa ormai consolidata e pur sempre perfettibile tipizzazione giurisprudenziale, le seguenti ipotesi, molte delle quali tipizzate, peraltro, in forma precisa e vincolata dal legislatore stesso: a) i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa, nelle multiformi espressioni con le quali la continua evoluzione dei metodi mafiosi si manifesta; c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011; d) i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”, in cui il ricambio generazionale mai sfugge al “controllo immanente” della figura del patriarca, capofamiglia, ecc., a seconda dei casi; e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa; g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, incluse le situazioni, recentemente evidenziate, in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne, o simili, antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.

Deve comunque essere qui riaffermato, e con forza, che il sistema della prevenzione amministrativa antimafia non costituisce e non può costituire, in uno Stato di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale, sicché il giudice amministrativo, chiamato a sindacare il corretto esercizio del potere prefettizio nel prevenire l’infiltrazione mafiosa, deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie.

La libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati democratici, si realizza anche, e in parte rilevante, smantellando le reti e le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali, imponendo la legge del potere criminale sul potere democratico, garantito e, insieme, incarnato dalla legge dello Stato, per perseguire fini illeciti e conseguire illeciti profitti.

Al delicato bilanciamento raggiunto dall’interpretazione non osta nemmeno l’orientamento assunto dalla Corte costituzionale nelle recenti sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019, orientamento di cui, per la sua importanza sistematica anche nella materia della documentazione antimafia, occorre dare qui conto.

Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale nella sentenza 24/2019, infatti, allorché si versi – come nel caso di specie – al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base «dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione». Essenziale – nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale (v., ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione quinta, sentenza 26 novembre 2011, Gochev c. Bulgaria; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 4 giugno 2002, Oliveira c. Paesi Bassi; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 20 maggio 2010, Lelas c. Croazia) – è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa.

Né elementi di segno diverso sul piano della tassatività sostanziale, per di più, si traggono dalla ancor più recente sentenza 195/2019, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale l’art. 28, comma 1, DL 113/2018, che aveva inserito il comma 7–bis nell’art. 143 del TUEL, laddove la Corte costituzionale ha rilevato che, mentre per l’attivazione del potere di scioglimento del Consiglio comunale o provinciale occorre che gli elementi in ordine a collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso, raggiungano un livello di coerenza e significatività tali da poterli qualificare come «concreti, univoci e rilevanti» (art. 143, comma 1, TUEL), invece, quanto alle «condotte illecite gravi e reiterate», di cui al comma 7–bis censurato avanti alla Corte, è sufficiente che risultino mere «situazioni sintomatiche», sicché il presupposto positivo del potere sostitutivo prefettizio «è disegnato dalla disposizione censurata in termini vaghi, ampiamente discrezionali e certamente assai meno definiti di quelli del potere governativo di scioglimento dei Consigli comunali e provinciali, pur essendo il primo agganciato a quest’ultimo come occasionale appendice procedimentale».

Non è questo il caso, invece, dell’informazione antimafia, anche quella emessa ai sensi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), poiché gli elementi di collegamento con la criminalità organizzata di tipo mafioso devono essere sempre concreti, univoci e rilevanti, come la giurisprudenza amministrativa ha costantemente chiarito.

Anzi proprio la sentenza 195/2019 della Corte costituzionale sembra confermare sul piano sistematico, a contrario, che l’infiltrazione mafiosa ben possa fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti, dotati di coerenza e significatività, quali enucleati dalla giurisprudenza di questo Consiglio, sì che venga soddisfatto il principio, fondamentale in ogni Stato di diritto come il nostro, secondo cui ogni potere amministrativo deve essere «determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa», per usare le parole della Corte costituzionale. 

Si ritiene dunque che siano così soddisfatte le condizioni di tassatività sostanziale, richieste dal diritto convenzionale e dal diritto costituzionale interno, e indefettibili anche per la delicatissima materia delle informazioni antimafia a tutela di diritti fondamentali, come la Corte EDU e la Corte costituzionale nella propria costante giurisprudenza ribadiscono.

La tassatività sostanziale, come appena ricordato nella citazione della giurisprudenza costituzionale, ben si concilia con la definita (dalla stessa Corte costituzionale) «elasticità della copertura legislativa», giacché, come sopra detto, nella prevenzione antimafia lo Stato deve assumere almeno la stessa flessibilità nelle azioni e la stessa rapida adattabilità nei metodi, che le mafie dimostrano nel contesto attuale.

Parimenti si ritiene che il criterio del “più probabile che non” soddisfi, a sua volta, le indeclinabili condizioni di tassatività processuale, pure menzionate dalla Corte costituzionale nella sentenza 24/2019, afferenti alle modalità di accertamento probatorio in giudizio e, cioè, al quomodo della prova e «riconducibili a differenti parametri costituzionali e convenzionali […] tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU […] di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione» (Corte costituzionale, 24/2019).

Lo standard probatorio sotteso alla regola del “più probabile che non”, nel richiedere la verifica della cosiddetta probabilità cruciale, impone infatti di ritenere, sul piano della tassatività processuale, più probabile l’ipotesi dell’infiltrazione mafiosa rispetto a “tutte le altre messe insieme”, nell’apprezzamento degli elementi indiziari posti a base del provvedimento prefettizio, che attingono perciò una soglia di coerenza e significatività dotata di una credibilità razionale superiore a qualsivoglia altra alternativa spiegazione logica, laddove l’esistenza di spiegazioni divergenti, fornite di un qualche elemento concreto, implicherebbe un ragionevole dubbio, non richiedendosi infatti, in questa materia, l’accertamento di una responsabilità che superi qualsivoglia ragionevole dubbio, tipico delle istanze penali, né potendo quindi traslarsi ad essa, impropriamente, le categorie tipiche del diritto e del processo penale, che ne frustrerebbero irrimediabilmente la funzione preventiva.

Non sembra quindi necessario rimettere la questione all’Adunanza plenaria. Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, va del resto qui ricordato, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale».

E si sono già illustrate le ragioni per le quali a questa materia, sul piano della c.d. tassatività processuale, non è legittimo applicare le regole probatorie del giudizio penale, dove ben altri e differenti sono i beni di rilievo costituzionali a venire in gioco, e in particolare i criteri di accertamento, propri del giudizio dibattimentale, e la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, tipica inferenza logica che, se applicata al diritto della prevenzione, imporrebbe alla P.A. una probatio diabolica, come si è osservato in dottrina, in quanto, se intesa in senso assoluto, richiederebbe di falsificare ogni ipotesi contraria e, se intesa in senso relativo (secondo il modello dell’abduzione pura, che implica l’assunzione di una ipotesi che va corroborata alla luce degli specifici riscontri probatori), richiederebbe alla pubblica amministrazione uno sforzo istruttorio sproporzionato rispetto alla finalità del suo potere e ai mezzi di cui è dotata per esercitarlo.

Le preoccupazioni, espresse dalla dottrina e da una parte minoritaria della giurisprudenza amministrativa, circa la tenuta costituzionale della prevenzione antimafia sono agevolmente superabili, per gli argomenti già esposti in merito all’istituto dell’informazione antimafia, ma anche ricorrendo al criterio dell’interpretazione sistematica, cui il giudice ben può ricorrere per valutare i profili applicativi e interpretativi di un istituto, esaminandone la coerenza con il sistema normativo in cui esso è inserito (Cons. Stato, Sez. 3, 6105/2019).

 

…Caratteristiche dell’istituto

L’informativa antimafia è una tipica misura cautelare di polizia, preventiva e interdittiva, che si aggiunge alle misure di prevenzione antimafia di natura giurisdizionale, essendo espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alla criminalità organizzata (Cons. Stato, Sez. 3, 4938/2018).

L’interdittiva antimafia è provvedimento amministrativo al quale deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost. Come è stato puntualmente affermato, l’interdittiva antimafia costituisce “una misura volta – ad un tempo – alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della P. A. (Cons. Stato, Sez. 3, 1743/2016).

Tale provvedimento, infatti, mira a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese, volti a condizionare le scelte e gli indirizzi della P.A. e si pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall’art. 97 Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine, del corretto utilizzo delle risorse pubbliche (Cons. Stato, Sez. 3, 6465/2014).

A tali fini, il provvedimento esclude che un imprenditore, persona fisica o giuridica, pur dotato di adeguati mezzi economici e di una altrettanto adeguata organizzazione, meriti la fiducia delle istituzioni (sia cioè da queste da considerarsi come “affidabile”) e possa essere, di conseguenza, titolare di rapporti contrattuali con le predette amministrazioni, ovvero destinatario di titoli abilitativi da queste rilasciati, come individuati dalla legge, ovvero ancora (come ricorre nel caso di specie) essere destinatario di “contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”.

Orbene, il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità giuridica, e dunque la insuscettibilità del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinino (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione (Cons. Stato, Sez. 4, 3247/2016). Si tratta di una incapacità giuridica prevista dalla legge a garanzia di valori costituzionalmente garantiti e conseguente all’adozione di un provvedimento adottato all’esito di un procedimento normativamente tipizzato e nei confronti del quale vi è previsione delle indispensabili garanzie di tutela giurisdizionale del soggetto di esso destinatario.

Essa è: – parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione, ed anche nei confronti di questa limitatamente a quelli di natura contrattuale, ovvero intercorrenti con esercizio di poteri provvedimentali, e comunque ai precisi casi espressamente indicati dalla legge (art. 67 d. lgs. n. 159/2011); – tendenzialmente temporanea, potendo venire meno per il tramite di un successivo provvedimento dell’autorità amministrativa competente (il Prefetto). In tali sensi e, in particolare, in relazione al riconosciuto carattere “parziale” dell’incapacità, l’art, 67 ne circoscrive il “perimetro”, definendo le tipologie di rapporti giuridici in ordine ai quali il soggetto, colpito della misura, non può acquistare o perde la titolarità di posizioni giuridiche soggettive e, dunque, l’esercizio delle facoltà e dei poteri ad esse connessi.

Così ricostruito l’effetto prodotto dall’interdittiva antimafia sul soggetto di essa destinatario (in linea con l’ipotesi interpretativa da ultimo rappresentata dall’ordinanza di rimessione), anche la previsione di cui al comma 1, lettera g), dell’articolo 67, una volta correttamente interpretata, costituisce anch’essa delimitazione dell’ambito della incapacità ex lege – come innanzi definita – nei confronti della P.A. e con riferimento ai rapporti con questa intercorrenti nell’ambito dell’attività imprenditoriale.

Orbene, questa Adunanza Plenaria ritiene che tale disposizione debba essere intesa nel senso di precludere all’imprenditore (persona fisica o giuridica) la titolarità della posizione soggettiva che lo renderebbe idoneo a ricevere somme dovutegli dalla Pubblica Amministrazione a titolo risarcitorio in relazione (come nel caso di specie) ad una vicenda sorta dall’affidamento (o dal mancato affidamento) di un appalto. Questa Adunanza Plenaria ritiene – anche sulla scorta della propria precedente decisione 9/2012 – che l’espressione usata dal legislatore nell’articolo da ultimo citato e concernente il divieto di ottenere (o meglio, l’incapacità a poter ottenere), da parte del soggetto colpito dall’interdittiva antimafia, “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”, ricomprenda anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa.

Come già affermato dalla richiamata sentenza 9/2012, “l’ampia clausola di salvaguardia contenuta nella citata prescrizione è idonea a ricomprendervi quelle . . . in cui la matrice indennitaria sia più immediatamente percepibile rispetto a quella compensativa sottesa ad ogni altra tipologia di erogazione”. D’altra parte, “non si vede perché nella suddetta ratio dovrebbero rientrare unicamente le erogazioni dirette ad arricchirlo (l’imprenditore colpito da interdittiva) e non anche quelle dirette a parzialmente compensarlo di una perdita subita sussistendo per entrambe il pericolo che l’esborso di matrice pubblicistica giovi ad un’impresa soggetta ad infiltrazioni criminali”.

Se è pur vero – come nota la ricorrente – che la precedente decisione di questa Adunanza Plenaria si riferisce specificamente ad erogazioni di matrice “indennitaria” e non “risarcitoria” (pag. 6 memoria cit.), è altrettanto vero che si è ivi affermato (e si intende ribadire nella presente sede) come la finalità del legislatore è, in generale, quella di evitare ogni “esborso di matrice pubblicistica” in favore di imprese soggette ad infiltrazioni criminali. In sostanza – ed è questa la ratio della norma – il legislatore intende impedire ogni attribuzione patrimoniale da parte della Pubblica Amministrazione in favore di tali soggetti, di modo che l’art. 67, comma 1, non può che essere interpretato se non nel senso di riferirsi a qualunque tipo di esborso proveniente dalla P.A. E tale finalità – in linea con quanto innanzi affermato in ordine agli effetti della interdittiva antimafia – è perseguita dal legislatore per il tramite di una tendenzialmente (temporanea) perdita, per l’imprenditore, della possibilità di essere titolare, nei confronti della Pubblica Amministrazione, delle posizioni giuridiche riferite alle ipotesi puntualmente indicate nell’art. 67.

A fronte di quanto esposto, non può assumere rilievo in senso contrario l’argomento che sembrerebbe potersi trarre dalla disposizione citata, laddove, oltre al divieto di disporre “contributi, finanziamenti e mutui agevolati” (casi specificamente indicati), si ricomprendono nel divieto (in senso, per così dire, più “generale”) anche “altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”.

L’argomento sostenuto dalla ricorrente, e che fa leva sull’espressione “dello stesso tipo” che indicherebbe una riconducibilità delle erogazioni al genus delle “provvidenze” e quindi escluderebbe le somme da corrispondersi a titolo di risarcimento, appare, come spesso nelle interpretazioni meramente letterali, poco persuasivo, essendo facilmente controvertibile.

Ed infatti, alla ricostruzione interpretativa ora riportata, ben può opporsi che gli istituti espressamente contemplati dal legislatore (contributi, finanziamenti, mutui agevolati) rientrano tutti nella più ampia categoria delle obbligazioni pecuniarie pubbliche, di modo che lo “stesso tipo” entro il quale rientrano le “altre erogazioni” interdette, ben può essere inteso come il genus delle obbligazioni pecuniarie poste a carico della Pubblica Amministrazione, quale che ne sia la fonte e la causa.

L’avere inquadrato l’effetto prodotto dall’interdittiva antimafia in termini di “incapacità” rende possibile comprendere come non assuma rilievo, nel caso di specie, il problema della “intangibilità del giudicato”. Ed infatti, se il soggetto destinatario dell’interdittiva antimafia ha una particolare forma di incapacità ex lege, come innanzi ricostruita, il problema non è più rappresentato dalla intangibilità (o meno) del giudicato che sarebbe “vulnerato” dalla ritenuta impossibilità per la P.A. di corrispondere le somme al cui pagamento è stata condannata con la sentenza passata in giudicato.

E ciò perché l’impossibilità di erogazione non consegue ad una “incisione” del giudicato, per così dire “sterilizzandone” gli effetti, bensì consegue alla incapacità del soggetto (che astrattamente sarebbe) titolare del diritto da esso nascente a percepire quanto spettantegli.

In altri termini, l’effetto dell’interdittiva non è quello di “liberare” la Pubblica Amministrazione dalle obbligazioni (risarcitorie) per essa derivanti dall’accertamento e condanna contenuti nella sentenza passata in giudicato; così come essa non incide sulla sussistenza del diritto di credito definitivamente accertato, né sull’actio judicati, una volta che tale diritto possa essere fatto valere da parte di chi ne ha la titolarità. Infatti, l’obbligazione risarcitoria della P.A., definitivamente accertata in sede giudiziaria, resta intatta ed indiscutibile; né può ipotizzarsi alcuna incisione del provvedimento amministrativo (e dei suoi effetti) sul giudicato.

L’interdittiva antimafia, dunque, non incide sull’obbligazione della P.A., bensì sulla “idoneità” dell’imprenditore ad essere titolare (ovvero a persistere nella titolarità) del diritto di credito. Il soggetto colpito dalla misura interdittiva, che pure potrebbe astrattamente essere titolare dei diritti riconosciutigli dalla sentenza passata in giudicato, risulta tuttavia essere, per ragioni diverse ed esterne, incapace ad assumere o a mantenere (per il tempo di durata degli effetti dell’interdittiva) la titolarità non già dei soli diritti accertati con la sentenza, ma, più in generale, di tutte le posizioni giuridiche comunque riconducibili all’ambito delineato dall’art. 67.

E, da ultimo, l’inidoneità ad essere (temporaneamente) titolare del diritto non può che comportare anche l’impossibilità di farlo valere nei confronti del debitore, in particolare postulando la tutela del credito in sede giurisdizionale.

Viceversa, una volta che venga meno l’incapacità determinata dall’interdittiva, quel diritto di credito, riconosciuto dalla sentenza passata in giudicato, “rientra” pienamente nel patrimonio giuridico del soggetto, con tutte le facoltà ed i poteri allo stesso connessi, ivi compresa l’actio iudicati dal quale era temporaneamente uscito, e ciò non in quanto una “causa esterna” (il provvedimento di interdittiva antimafia) ha inciso sul giudicato, ma in quanto il soggetto che è stato da questo identificato come il titolare dei diritti ivi accertati torna ad essere idoneo alla titolarità dei medesimi.

Né la titolarità del diritto ovvero la concreta possibilità di farlo valere, una volta “recuperata” la piena capacità giuridica, potrebbero risultare compromessi, posto che, come è noto, ai sensi dell’art. 2935 CC “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. A maggior ragione, dunque, nel caso di specie non assume alcuna rilevanza quanto affermato da questo stesso Consiglio di Stato con la sentenza 1078/2016, resa nel giudizio di revocazione.

Ed infatti, per un verso – come già affermato dall’ordinanza di rimessione – la valenza di detta sentenza “non può che restare ragionevolmente limitata all’accertamento della sussistenza o meno del dedotto vizio revocatorio”; per altro verso, le ragioni sin qui esposte chiariscono l’estraneità del principio di “intangibilità del giudicato” – che questa Adunanza Plenaria intende riaffermare nella sua consistenza – alla presente controversia. In conclusione, l’Adunanza Plenaria enuncia i seguenti principi di diritto: a) “il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità ex lege, parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione) e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto – persona fisica o giuridica – è precluso avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall’art. 67”. b) l’art. 67, co. 1, lett. g), nella parte in cui prevede il divieto di ottenere, da parte del soggetto colpito dall’interdittiva antimafia, “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”, ricomprende anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa (Cons. Stato, Adunanza plenaria, 3/2018).

L’informazione antimafia, come precisato nel comma 3 dell’art. 84, consiste nell’attestazione della sussistenza, o meno, di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all’art. 67 (relativo a tutti gli effetti che si producono a seguito di irrogazione di misura preventiva con carattere definitivo nei confronti dei destinatari), nonché, fatto salvo quanto previsto dall’art. 91 comma 6, nell’attestazione della sussistenza, o meno, di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, volti a condizionare le scelte o gli indirizzi della società o delle imprese interessate.

L’informazione antimafia ha natura discrezionale, laddove incarica il prefetto di verificare la sussistenza, o meno, di tentativi di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa, desumibili o dai provvedimenti e dagli elementi, tipizzati nell’art. 84, comma 4, o dai provvedimenti di condanna, anche non definitiva, per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose (“contiguità concorrente”) o esserne, in qualche modo, condizionata (“contiguità soggiacente”).

L’informazione antimafia preclude qualunque attività nei rapporti d’impresa con la pubblica amministrazione (contratti, concessioni o sovvenzioni pubblici), incidendo anche in quelli tra privati, poiché l’effetto interdittivo si estende alle autorizzazioni, in forza del D. Lgs. 153/2014.

Il Consiglio di Stato ha, a più riprese, precisato le caratteristiche e le finalità di tale forma di provvedimento prefettizio, individuandone i requisiti e gli effetti. L’informazione antimafia, secondo l’organo di giustizia amministrativa, costituisce un provvedimento discrezionale e non vincolato che deve fondarsi su un autonomo apprezzamento da parte dell’autorità prefettizia degli elementi emersi dalle indagini svolte o dei provvedimenti emessi in sede penale.

Il provvedimento di cd. interdittiva antimafia determina una particolare forma di incapacità ex lege, parziale – in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la pubblica amministrazione – e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto destinatario è precluso avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall’art. 67. Il provvedimento in esame è soggetto alle impugnative giurisdizionali e amministrative, dei provvedimenti prefettizi (Sez. 6, 22889/2019).

L’informazione antimafia interdittiva non ha natura nemmeno latamente sanzionatoria e non segue la logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio, poiché simile logica, propria del giudizio penale, vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informazione antimafia, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante (Cons. Stato, Sez. 3, 3496/2018).

L’informativa antimafia è volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione: essa comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di un’adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle istituzioni (vale a dire che risulti “affidabile”) e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge (TAR Calabria, Sez. 1, 763/2019).

Le “informazioni antimafia”, disciplinate dall’art. 84 appartengono al sistema della documentazione antimafia, che, unitamente alle “comunicazioni antimafia”, costituiscono le fondamentali misure di prevenzione amministrative previste dal “codice antimafia” nel libro II e confermate, nel loro impianto, anche dalla recente modifica del Codice antimafia, di cui alla L. 161/2017.

L’informazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza, o meno, di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all’art. 67 (l’esistenza di un provvedimento di prevenzione definitivo), nonché nell’attestazione della sussistenza, o meno, di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi della società o delle imprese interessate (art. 84, comma 3).

Sotto il secondo profilo, l’informazione antimafia ha natura discrezionale, laddove incarica il Prefetto di verificare la sussistenza, o meno, di tentativi di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa, desumibili o dai provvedimenti e dagli elementi, tipizzati nell’art. 84, comma 4, o dai provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose (“contiguità concorrente”) o esserne in qualche modo condizionata (“contiguità soggiacente”).

L’informativa antimafia preclude qualunque attività nei rapporti d’impresa con la pubblica amministrazione (contratti, concessioni o sovvenzioni pubblici), incidendo anche in quelli tra privati, poiché l’effetto interdittivo si estende alle autorizzazioni, in forza del D. Lgs. 153/2014.

La attenta e costante elaborazione giurisprudenziale del Consiglio di Stato sul tema ha distillato il seguente principio: «lo Stato non riconosce dignità e statuto di operatori economici, e non più soltanto nei rapporti con la pubblica amministrazione, a soggetti condizionati, controllati, infiltrati ed eterodiretti dalle associazioni mafiose» (Cons. Stato, Sez. 3, 565/2017). Secondo il Consiglio di Stato: «il metodo mafioso è e resta tale, per un essenziale principio di eguaglianza sostanziale prima ancora che di logica giuridica, non solo nelle contrattazioni con la pubblica amministrazione, ma anche tra privati, nello svolgimento della libera iniziativa economica».

II controllo giudiziario e l’informativa antimafia trovano un punto di contatto nella previsione del comma 6 dell’art. 34–bis, a mente del quale le imprese destinatarie di “informazione antimafia interdittiva” ai sensi dell’articolo 84, comma 4, che abbiano proposto l’impugnazione del relativo provvedimento prefettizio, possono richiedere al tribunale competente per le misure di prevenzione l’applicazione del controllo giudiziario di cui alla lettera b) del comma 2 del presente articolo, vale a dire la nomina di un GD e di un amministratore giudiziario (Sez. 5, 34526/2019).

 

…Tipologie

A differenza di quella cosiddetta tipica, l’informativa atipica non ha carattere direttamente interdittivo, ma consente alla stazione appaltante una valutazione discrezionale in ordine all’avvio o al prosieguo dei rapporti contrattuali alla luce dell’idoneità morale del partecipante alla gara di assumere la posizione di contraente con la amministrazione, sicché la sua efficacia interdittiva può scaturire soltanto da un ulteriore filtro dato da una valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria  (Cons. Stato, Sez. 3, 1249/2018).

 

…Questioni procedurali

Nei procedimenti finalizzati all’emissione dell’informazione antimafia non sono necessari né la comunicazione di avvio, di cui all’art. 7, L. 241/1990, né le ordinarie garanzie partecipative (TAR Piemonte, Sez, 1, 58/2019).

 

…Dati conoscitivi valutabili

Il proprium che differenzia l’informativa antimafia da altre misure preventive è la finalità da essa perseguita di salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della P.A.: nella sostanza, attraverso di essa il Prefetto esclude che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di una idonea organizzazione – possa meritare la fiducia delle Istituzioni e, in quanto controparte “affidabile”, possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni ovvero destinatario di titoli abilitativi da queste rilasciati o di “contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”.

Dunque, l’interdittiva antimafia risponde ad una logica probatoria diversa da quella tipica degli accertamenti di natura penale e non deve necessariamente collegarsi a provvedimenti giurisdizionali o a misure preventive di altro tipo, la cui proposta di adozione o il cui provvedimento di applicazione, siano esse misure di natura personale o patrimoniale, non a caso figurano tra gli elementi dai quali è possibile desumere il rischio di infiltrazione mafiosa (art. 84, comma 4, lett. b).

Sul piano probatorio questa demarcazione tre le due aree di intervento (la repressione penale e la prevenzione amministrativa) si traduce nel fatto che il rischio di inquinamento mafioso rilevante ai fini della emissione della informativa deve essere valutato in base al criterio del più “probabile che non”, quindi alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, quale è, anzitutto, anche quello mafioso (Cons. Stato, Sez. 3, 5214/2017; 1743/2016); sicché gli elementi posti a base dell’informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione.

Profonda è dunque la differenza tra i destinatari delle misure di prevenzione e i destinatari delle informazioni interdittive: per i primi, rilevano i fatti penalmente rilevanti; per i secondi, rilevano anche fatti non necessariamente aventi rilevanza penale (Cons. Stato, Sez. 3, 4938/2019).

Ai fini dell’informazione antimafia, possono avere rilievo le relazioni di polizia contenenti elementi di sicura valenza indiziaria (Cons. Stato, Sez. 3, 1321/2017), così come le dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia nel corso di un procedimento penale (TAR Calabria, Sez. 1, 355/2016).

Spetta al prefetto valutare in autonomia la pronuncia del giudice penale, sia per il suo contenuto estrinseco (dispositivo) che per quello intrinseco (la motivazione), astenendosi da ogni automatismo tra il provvedimento cautelare in sede penale e l’emissione dell’informativa interdittiva (Cons. Stato, Sez. 3, 982/2017).

È legittima l’informazione interdittiva che valorizzi l’esistenza di un procedimento penale nei confronti del revisore legale della società per il reato di riciclaggio di cui all’art. 648–bis CP (Cons. Stato, Sez. 3, 3515/2017).

Ai fini della misura interdittiva antimafia l’amministrazione può ragionevolmente attribuire rilevanza ai contatti o ai rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia, di titolari, soci, amministratori, dipendenti dell’impresa con soggetti vicini o appartenenti alla malavita organizzata, quando essi non siano frutto di casualità o, per converso, di necessità; tali contatti o frequentazioni (anche per le modalità, i luoghi e gli orari in cui avvengono) possono far presumere, secondo la logica del «più probabile che non», che l’imprenditore – direttamente o anche tramite un proprio intermediario – scelga consapevolmente di porsi in dialogo e in contatto con ambienti mafiosi (Cons. Stato, Sez. 3, 4295/2017).

Può essere utilizzata ai fini di un’informazione antimafia nei confronti di un’impresa l’appartenenza a un sodalizio criminale di alcuni dipendenti (Cons. Stato, Sez. 3, 2343/2018).

Possono essere sintomatici di un tentativo di infiltrazione mafiosa anche a fatti che abbiano già formato oggetto di procedimenti penali con esito di proscioglimento o assoluzione, ove se ne possa desumere un condizionamento mafioso dell’impresa, anche incolpevole, che pregiudichi le libere logiche imprenditoriali (Cons. Stato, Sez, 3, 1743/2016). In casi del genere, il ricorrente non può limitarsi all’allegazione di pronunce di proscioglimento, essendo necessario riesca a dimostrare che l’emissione di esse possa implicare un vizio di manifesta illogicità o contraddittorietà o difetto di istruttoria (TAR Calabria, Sez. 1, 1078/2016).

Sono elementi sintomatici–presuntivi di un tentativo di infiltrazione mafiosa anche le. vicende anomale dell’impresa, come certamente sono i fenomeni di promiscuità di forze umane e di mezzi o l’instaurazione di rapporti commerciali o associativi con una società già ritenuta esposta al rischio di influenza criminale, tali da far ipotizzare l’esistenza di una continuità dell’impresa attenzionata con quella già interdetta (Cons. Stato, Sez. 3, 520/2019).

L’insorgenza di rapporti commerciali o associativi giustifica l’adozione di un’informativa a cascata. Infatti, è inevitabile che l’impresa controindicata trasmetta alla seconda il suo corredo di controindicazioni antimafia, potendosi presumere che la prima scelga come partner un soggetto già colluso o, comunque, permeabile agli interessi criminali a cui essa resta assoggettata (Cons. Stato, Sez. 3, 3774/2017).

Non si può presumere che il parente di un mafioso sia anch’egli per ciò stesso mafioso (Cons. Stato, Sez. 3, 5410/2018).

Possono avere un rilievo i rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari – che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose – laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto (TAR Calabria, sez. distaccata di Reggio Calabria, 1124/2016).

In tema di valutazione dei rapporti familiari, vanno evitate soluzioni aprioristiche, essendo detto rapporto il dato storico che forma la premessa minore di un’inferenza calibrata sulla regola (massima d’esperienza) secondo cui i vincoli familiari, espongono il soggetto all’influenza del terzo. Ma l’attendibilità dell’inferenza dipende anche da una serie di circostanze che qualificano il rapporto di parentela, quali, soprattutto, l’intensità del vincolo e il contesto in cui si inserisce (Cons. Stato, Sez. 3, 2343/2018).

Occorre un quid pluris rispetto alla sola constatazione dei legami familiari con soggetti mafiosi o contigui a organizzazioni malavitose per supportare il giudizio di pericolo di infiltrazione o condizionamento da parte di sodalizi criminali, assumendo rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) mentre non appare possibile stabilire alcun «automatismo» tra legame familiare e sussistenza del rischio infiltrativo (Cons. Stato, Sez. 3, 3496/2018).

La dimostrazione del tentativo di infiltrazione mafiosa può essere fondata su elementi risalenti nel tempo sempre che si possa ugualmente dimostrare l’attualità e la concretezza del pericolo (Cons. Stato, Sez. 3, 5784/2018).

A fronte della costituzione di una nuova società, tra un’impresa legittimamente colpita da un’interdittiva e un altro soggetto imprenditoriale, può ragionevolmente presumersi l’estensione del giudizio di pericolo di inquinamento mafioso sia alla nuova società, sia alla seconda impresa, divenuta socia di quest’ultima, insieme a quella inizialmente ritenuta esposta al rischio di permeabilità alle influenze criminali (Cons. Stato, Sez. 3, 2774/2016).

La costituzione di un raggruppamento temporaneo e di un consorzio di scopo con imprese successivamente raggiunte da interdittive antimafia non determina di per sé l’effetto contagio e non legittima l’adozione di informative negative a cascata (TAR Sicilia, Sez. 1, 1310/2019).

 

…Criteri valutativi e potere discrezionale del prefetto

La nozione di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate delinea una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzata a prevenire un evento che non deve necessariamente essere attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa non può sostanziarsi in un sospetto della P.A. o in una vaga intuizione del giudice. Infatti, la legislazione antimafia, ha individuato, fornendone una tipizzazione normativa, alcune condotte sintomatiche di tale pericolo.

Possono tuttavia concorrere elementi a condotta libera (ossia non tipizzati), il cui significato è rimesso al prudente e motivato apprezzamento dell’autorità amministrativa e, ove insorga contestazione in sede giurisdizionale, del GA (in sede di sindacato sull’eccesso di potere), che valuta gli indici sintomatici da cui desumere l’influenza, anche indiretta (art. 91, comma 6), delle organizzazioni mafiose sull’attività di impresa, e dunque sia la cosiddetta contiguità soggiacente che la cosiddetta contiguità compiacente (Cons. Stato, Sez. 3, 754/2019).

Nei procedimenti finalizzati all’emissione dell’informazione antimafia è applicabile il  criterio delpiù probabile che non”, di tipo empirico–induttivo, che ben può essere integrato da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso) e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio, poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informazione antimafia, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante (Cons. Stato, Sez. 3, 2343/2018).

Occorre una valutazione sinottica e integrata del complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione parcellizzata di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri (Cons. Stato, Sez. 3, 820/2018).

Il prefetto dovrà indicare con precisione, nell’informativa, gli elementi di fatto e motivare, anche mediante il rinvio, per relationem, alle relazioni eseguite dalle Forze di Polizia, le ragioni che lo inducono a ritenere probabile che da uno o più di tali elementi, per la loro attualità, univocità e gravità, sia ragionevole desumere il pericolo concreto di infiltrazione mafiosa nell’impresa” (Cons. Stato, Sez. 3, 1743/2016).

La valutazione del pericolo di infiltrazioni mafiose, di competenza del Prefetto, è connotata, per la specifica natura del giudizio formulato, dall’utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca, che esclude la possibilità per il GA di sostituirvi la propria. L’ampia discrezionalità di apprezzamento del Prefetto in tema di tentativo di infiltrazione mafiosa comporta che la sua valutazione sia sindacabile in sede giurisdizionale in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del GA sulla legittimità dell’informativa antimafia rimane estraneo l’accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (TAR Calabria, Sez. 1, 40/2019).

Il timore che, estendendo l’applicazione delle informative antimafia alle attività economiche soggette al regime autorizzatorio, si schiuda la via all’arbitrio dell’autorità prefettizia nella valutazione della permeabilità mafiosa e quindi anche nell’accesso alle attività economiche (solo) private, senza che tale valutazione sia assistita da preventive garanzie procedimentali o, comunque, dalle stesse garanzie delle misure di prevenzione emesse dal Tribunale, è del tutto infondato.

La valutazione prefettizia deve fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti che, alla stregua della «logica del più probabile che non», consentano di ritenere razionalmente credibile il pericolo di infiltrazione mafiosa in base ad un complessivo, oggettivo, e sempre sindacabile in sede giurisdizionale, apprezzamento dei fatti nel loro valore sintomatico (Cons. Stato, Sez. 3, 565/2017).

 

…Provvedimenti autorizzatori

La disciplina dettata dal codice delle leggi antimafia consente l’applicazione delle informazioni antimafia anche ai provvedimenti a contenuto autorizzatorio (Cons. Stato, Sez. 3, 565/2017).

Anche le attività soggette al rilascio di autorizzazioni, licenze o a SCIA soggiacciono alle informative antimafia. Le perplessità di ordine sistematico e teleologico sollevate in ordine all’applicazione di tale disposizione anche alle ipotesi in cui non vi sia un rapporto contrattuale – appalti o concessioni – con la pubblica amministrazione non hanno ragion d’essere, posto che anche in ipotesi di attività soggette a mera autorizzazione l’esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l’economia legale, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubbliche (Cons. Stato, Sez, 1, parere 3088/2015).

 

…Appalti cosiddetti sotto–soglia

La circostanza che la normativa codicistica in materia di appalti sancisca l’obbligo di acquisire l’informazione esclusivamente nel caso di appalti di importo superiore alla soglia di rilevanza comunitaria non vale a fondare la tesi contraria relativamente agli appalti sotto soglia, per i quali, pertanto, l’informazione deve ritenersi valida (TAR Calabria, Sez. 1, 377/2016).

Il mancato superamento della soglia non impedisce all’amministrazione di acquisire la documentazione antimafia, se lo ritenga opportuno, indipendentemente dall’attuazione di protocolli di legalità (Cons. Stato, Sez. 3, 5513/2016).

 

…Lesività e impugnabilità dell’informativa antimafia

Esplicando l’informativa prefettizia – alla stregua dello jus superveniens derivante dall’entrata in vigore del codice antimafia– effetti ultraregionali, competente a conoscere dell’impugnazione della stessa è il TAR del luogo ove ha sede il prefetto che ha adottato l’atto. Detto TAR rimane competente anche in caso di contestuale impugnazione sia dell’informativa che degli atti conseguenziali adottati dalla stazione appaltante (Cons. Stato, Adunanza plenaria, 17/2014).

Il termine per impugnare l’informativa antimafia – istituto di portata generale, “trasversale”, che non interseca, cioè, solo la materia dei pubblici appalti – è quello ordinario di sessanta giorni e non quello dimezzato di trenta giorni, previsto dall’art. 120, comma 5, CPA (Cons. Stato, 319/2017).

In contrario avviso: se l’informativa antimafia interdittiva sopravvenga in corso di esecuzione di un contratto stipulato con la P.A., tale provvedimento non invera una sopravvenienza impeditiva dell’ulteriore esecuzione del contratto stipulato, bensì l’accertamento dell’incapacità originaria del privato ad essere parte contrattuale della P.A. La qualificazione nei termini esposti postula la riconduzione del provvedimento così adottato agli atti che concernono l’affidamento dell’appalto – avvenuto in favore di un soggetto a ciò interdetto, e dunque in difetto dei presupposti necessari per essere destinatario dell’affidamento –, con conseguente applicazione dell’art. 120 CPA e dei termini dimidiati ivi previsti (Cons. Stato, 3247/2016).

L’informativa antimafia costituisce un provvedimento autonomamente lesivo, in quanto incidente sulla capacità contrattuale e sulla produttività dell’impresa destinataria, la quale è quindi interessata alla relativa impugnazione anche indipendentemente dall’esito della gara; detto interesse si apprezza sia sotto il profilo risarcitorio (valutabile in relazione al pregiudizio all’immagine, al credito commerciale oltre che alla capacità di guadagno che si produce nel periodo di efficacia della prima interdittiva, allorché la seconda informativa non sia stata ancora adottata); sia sotto il profilo dell’interesse morale (correlato alla più generale onorabilità del soggetto interdetto), in quanto anch’esso direttamente inciso in senso pregiudizievole dalla misura antimafia (Cons. Stato, Adunanza plenaria, ordinanza 17/2014).

L’emanazione di un ulteriore provvedimento “di riesame” – in dichiarata esecuzione di una ordinanza cautelare – non determina la sopravvenuta carenza di interesse alla definizione del giudizio, o la cessazione della materia del contendere, a maggior ragione quando

 

…Risarcibilità del danno

L’annullamento dell’informativa antimafia non genera alcuna responsabilità a carico della stazione appaltante che se ne è servita, anche nei casi in cui la richiesta dell’atto non è obbligatoria (Cons. Stato, 4279/2018).

il provvedimento “ulteriore” è del medesimo contenuto sostanziale di quello già impugnato (Cons. Stato, Sez. 6, 1180/2017).

Colui che chiede l’affermazione della responsabilità della Prefettura che ha emesso l’informativa annullata, deve dimostrare il dolo o la colpa che a loro volta sono desumibili allorché il giudizio di sussistenza del tentativo di infiltrazione sia stato emesso sulla base di indici sintomatici carenti ed equivoci.  

Difatti, la configurabilità della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni provocati dall’adozione di un provvedimento illegittimo esige, innanzitutto, la dimostrazione del dolo o della colpa, da valersi quale elemento costitutivo del diritto al risarcimento, dell’autorità che lo ha emanato, non essendo sufficiente, per la genesi dell’obbligazione risarcitoria, il solo annullamento dell’atto lesivo.

Quanto ai fattori che valgono ad escludere la colpa e, quindi, la responsabilità dell’amministrazione per i danni causati da un provvedimento illegittimo, sono stati individuati quelli attinenti all’esistenza di contrasti giurisprudenziali nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme di riferimento, alla formulazione poco chiara o ambigua delle disposizioni che regolano l’attività amministrativa considerata, alla complessità della situazione di fatto oggetto del provvedimento e alle pertinenti difficoltà istruttorie, e all’illegittimità derivante dalla successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata con l’atto lesivo.

In altri termini, per la configurabilità della colpa dell’Amministrazione, ai fini dell’accertamento della sua responsabilità aquiliana, occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all’autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità  (Cons. Stato, Sez. 3, 3707/2015).

È negligente in modo inescusabile e genera responsabilità risarcitoria la condotta dell’Amministrazione che emette un’informativa antimafia sulla base di un unico elemento indiziario, incapace come tale di dar vita all’insieme di indizi gravi, precisi e concordanti richiesti dalla legge (TAR Lombardia, 1993/2018).

 

Linee guida, circolari e prassi

Si rinvia, per un utile vademecum sulla documentazione antimafia, alla “Guida pratica in materia di documentazione antimafia”, reperibile al seguente link: http://www.prefettura.it/FILES/AllegatiPag/1149/Guida_pratica_antimafia.doc

Si consulti anche il Portale delle Prefettura– UTG, al seguente link: http://www.prefettura.it/bologna/contenuti/48643.htm