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Art. 391-quater - Richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione

1. Ai fini delle indagini difensive, il difensore può chiedere i documenti in possesso della pubblica amministrazione e di estrarne copia a sue spese.

2. L’istanza deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento o lo detiene stabilmente.

3. In caso di rifiuto da parte della pubblica amministrazione si applicano le disposizioni degli articoli 367 e 368.

Rassegna giurisprudenziale

Richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione (art. 391-quater)

La massima che segue è preceduta dalla formulazione letterale, evidenziata in corsivo, dello specifico motivo di ricorso che l’ha originata.

Si è ritenuto di riportarlo per il suo indubbio interesse prospettico ed anche per evidenziare come l’interpretazione corrente di legittimità accentui lo squilibrio di poteri tra chi accusa e chi si difende: “Con il secondo motivo, richiamati i principi fondamentali sottostanti l’istituto delle indagini difensive, anche quali emergenti dalla Relazione della Commissione Giustizia sul disegno di legge di riforma del codice di procedura penale del 20 ottobre 1998, osservano l’insussistenza di limiti posti dal legislatore alle indagini difensive, diversi ed ulteriori al rispetto delle forme prescritte dagli artt. 391 e ss.

Lamentano che la giurisprudenza di legittimità, negando ogni rimedio avverso decisioni che impediscano il reale esercizio del potere difensivo, finisce per rimettere alla sola discrezionalità del giudice il diritto della parte di “difendersi provando” e che, in assenza della previsione di strumenti di impugnazione, ciò implica una vera e propria elusione incostituzionale dei diritti difensivi.

D’altro canto, l’esegesi della Suprema Corte, pretende, contrariamente al dato normativo testuale, un controllo di rilevanza, laddove, invece, le norme escludono ogni valutazione, introducendo un automatismo derivante dalla richiesta difensiva, inammissibile solo qualora proveniente da soggetto non legittimato o quando formulata al di fuori dei presupposti normativi o infine manifestamente inconferente.

Rilevano che le indagini difensive così come le indagini del pubblico ministero hanno finalità esplorativa e la loro rilevanza non può essere oggetto di valutazione a priori, costituendo il vaglio dell’autorità giudiziaria un’ingerenza indebita sulla scelta della linea difensiva.

Una lettura costituzionalmente orientata della disciplina sulle indagini difensive impone di assicurare ex artt. 3 e 111 Cost. l’effettiva parità delle parti nel processo, assicurando alla difesa la stessa possibilità esplorativa intrinseca alle indagini del pubblico ministero, anche perché la mancata previsione di un mezzo di reazione al diniego di quest’ultimo o del giudice per le indagini preliminari rende impossibile emendare il difetto di investigazione, rivolgendosi al giudice per l’udienza preliminare o a quello del dibattimento, molto tempo dopo la realizzazione del vulnus, dando così luogo ad una disparità incolmabile fra le parti.

Una simile violazione del principio di parità verrebbe, nondimeno, esclusa dall’enunciazione del principio di diritto  opposto a quello espresso dall’orientamento della Corte  secondo il quale l’istanza difensiva, ai sensi dell’art. 391-quater può essere rigettata solo per ragioni afferenti ai criteri formali della richiesta ed all’insequestrabilità del documento secondo la disciplina generale. Con la conseguenza della necessaria trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale nell’ipotesi in cui la Suprema Corte non ritenesse di discostarsi dall’esegesi vigente”.

Questa la risposta data dalla Corte di Cassazione: “Il provvedimento oggetto di impugnazione rigetta l’istanza di sequestro probatorio prendendo atto dell’attivazione del PM che, al fine dell’acquisizione delle e-mail indicate nell’istanza medesima, con provvedimento assunto ai sensi dell’art. 256 ha ordinato l’esibizione del materiale chiesto, delegando per l’acquisizione il comando gruppo carabinieri forestale di … Sulla base di questa constatazione il GIP ha concluso per la superfluità del sequestro richiesto.

Per dare soluzione ai quesiti posti occorre, innanzitutto esaminare in modo analitico le doglianze proposte, tese a dimostrare che la lettura dei diritti della difesa nella fase delle indagini preliminari, emergente dal provvedimento impugnato, ma più in generale dalla giurisprudenza, è tanto limitativa dei diritti della difesa, da condurre alla pronuncia di atti abnormi, ove considerati alla luce dei canoni costituzionali posti a presidio del “giusto processo”.

È dunque opportuno riportare nel dettaglio le argomentazioni ed i profili di illegittimità riportate nel ricorso. Si fa valere, innanzitutto, l’abnormità del provvedimento di reiezione della richiesta di emissione di sequestro probatorio, formulato da un soggetto diverso dal rappresentante della pubblica accusa (sia esso l’indagato o la parte offesa), osservando che il rigetto di atti di indagine difensiva può trovare giustificazione solo in due ipotesi, l’una relativa al difetto di forma dell’istanza, l’altra inerente l’assoluta inconferenza dell’atto rispetto al capo di imputazione provvisoria formulato, o comunque all’oggetto dell’indagine.

Si sostiene, invero, che negli altri casi – ed in particolare allorquando l’atto investigativo richiesto inerisca l’accertamento del fatto che costituisce il nucleo dell’investigazione  il giudice delle indagini preliminari cui sia richiesto di provvedere, in difetto di impulso da parte del PM autonomo o sollecitato dall’interessato, sia tenuto a dar corso alle richieste di quest’ultimo.

Il rigetto, infatti, costituirebbe una vera e propria deviazione del provvedimento giudiziale rispetto al modello legale. Ciò sarebbe ricavabile dall’interpretazione sistematica, costituzionalmente orientata, della disciplina sulle indagini difensive di cui agli artt. 391-quater, 367 e 368. Invero, una simile esegesi, che ponga su un piano reale parità le parti processuali, anche avuto riguardo all’effettività del diritto alle indagini difensive, si ricaverebbe dalla lettura della Relazione al disegno di legge sulle indagini difensive, tutta tesa ad eliminare quantomeno gli ostacoli non direttamente riconducibili alle prerogative della pubblica accusa, ma rimovibili proprio attraverso il corretto esercizio del potere di indagine su impulso della difesa, a fini di tutela del diritto alla prova.

Solo così, infatti, la previsione normativa che costituisce il diritto del reperimento della prova da parte della difesa assumerebbe un contenuto concreto ed utile alla finalità per la quale è stata introdotta, trasformandosi altrimenti in un mero simulacro, del tutto insostenibile, alla luce del dettato costituzionale di cui all’art. 111, commi 2 e 3 Cost.

Dunque, secondo i ricorrenti, la negazione della capacità esplorativa della parte, sia sotto il profilo della necessaria tempestività, che sotto quello dell’eguaglianza delle armi, non è infatti giustificabile in relazione ad alcun valore concorrente di pari natura costituzionale. La conseguenza di queste osservazioni, dunque, conduce la difesa ad affermare che il provvedimento di rigetto costituisce una deviazione del provvedimento giudiziale rispetto al modello legale come ricavabile dalla lettura normativa alla luce dei principi costituzionali sul processo (abnormità strutturale).

Ma, l’interdizione dell’attività investigativa della parte privata costituirebbe, seguendo il filo del ragionamento contenuto nel ricorso, altresì abnormità di natura funzionale, perché implica l’impossibilità di porre rimedio al “blocco” nella ricerca di elementi a difesa, sino all’udienza preliminare, così procrastinando ogni utile tentativo ad un momento nel quale la necessaria tempestività potrebbe ormai essere inutilmente consumata.

Fin qui richiamati gli argomenti a sostegno dell’impugnazione, per affrontare il nucleo dei motivi va premesso che le questioni poste involgono tematiche distinte e purtuttavia strettamente connesse. In primo luogo, la mancanza di uno strumento di impugnazione del provvedimento con cui il giudice delle indagini preliminari, al quale il PM ha trasmesso gli atti a norma dell’art. 368, respinge la richiesta di emissione di un ordine di sequestro probatorio presentata dalla parte privata, stante il principio di tassatività fissato dall’art. 568.

Sul punto deve affermarsi che l’assenza di previsione legislativa di un simile mezzo di gravame non è il riflesso del diniego interpretativo della parità fra accusa e difesa, perché una simile impostazione dimentica che al pubblico ministero la Carta Fondamentale riserva l’esercizio dell’azione penale, cui consegue più che la discrezionalità nella ricerca della prova, l’obbligo del suo reperimento ai fini del corretto svolgimento del compito costituzionalmente assegnatogli.

Se è vero, infatti, che egli deve anche svolgere, ai sensi dell’art. 358, accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini, costituendo questa una delle estrinsecazioni proprie del principio di parità di cui all’art. 111 Cost., è anche vero che un simile dovere è controbilanciato dall’obbligo di tutela dell’azione penale, il cui concreto esercizio non può subire l’inquinamento di una discovery anticipata e nociva alla prosecuzione delle investigazioni. Il problema, ovviamente, si pone nel caso in cui l’indagine difensiva necessiti dell’esercizio di un potere impositivo di cui la parte è priva, così come avviene per il sequestro rivolto alla acquisizione di cose pertinenti il reato.

Sentinella della parità delle parti, a fronte della richiesta del soggetto interessato (che peraltro può coincidere anche con la persona offesa), è l’obbligo, sancito dall’art. 368 di rimettere la richiesta, corredata dal parere del PM, al GIP, la cui terzietà consente di valutare la prevalenza della segretezza o del diritto di difesa, valori entrambi di rango costituzionale, ma diversamente apprezzabili in ciascuna ipotesi di specie.

Ed infatti, nonostante l’acuta e tuttavia suggestiva esegesi suggerita dai ricorrenti, affermare il dovere tout court del PM di dar corso ad ogni richiesta della parte, senza alcuna previa valutazione della sua influenza effettiva sul quadro probatorio in formazione, implica non solo un gravissimo intralcio alla necessaria speditezza delle investigazioni, ma l’introduzione di un vulnus alla segretezza indispensabile alla funzione costituzionale dell’accusa.

Tuttavia per evitare scelte del PM sugli accertamenti impostigli dall’art. 358 connotate da un cattivo esercizio del potere di ricerca delle prove a discarico, da acquisirsi attraverso i poteri pubblici, il legislatore ha previsto l’obbligo di controllo del GIP sul suo operato, imponendogli la trasmissione degli atti, con lo scopo di consentire la valutazione concreta dell’incidenza dell’atto richiesto sull’effettività della difesa, anche avuto riguardo alla tempestività dell’acquisizione ed alla sua non rinviabilità.

L’intervento del giudice, quindi, tende a stabilire, rispetto ad un atto dal contenuto determinato come il sequestro, quando la disparità funzionale del PM, consistente fra l’altro nella disponibilità dei poteri impositivi preclusi alla persona sottoposta alle indagini  o alla parte offesa , debba essere posta a servizio di questa al fine di assicurare una difesa che, altrimenti, sarebbe vanificata dal corso del tempo o dal successivo corso delle indagini.

Dunque la parità delle parti, negata in prima battuta dal PM, si realizza proprio attraverso la positiva decisione del GIP che, nondimeno, trova il suo limite nella rilevanza della richiesta. È chiaro, infatti, che la “rilevanza” costituisce la misura dell’intervento del giudice, perché l’inesistenza di un margine di intervento equivarrebbe al puro e semplice assoggettamento dei poteri pubblici alla richiesta della parte privata che non li possieda, anche per fini pretestuosi e di semplice intralcio, che nulla hanno a che fare con l’uguaglianza delle armi.

Se, come invece ritengono i ricorrenti, le possibilità esplorative della difesa non possono essere in alcun modo compresse, neppure quando abbisognino del potere impositivo pubblico per realizzarsi, allora l’unico vaglio possibile è quello sulla manifesta inconferenza della richiesta rispetto alla funzione stessa delle indagini difensive. Ma una simile limitazione è contraria ad un sistema che, proprio tenendo conto dei parametri costituzionali relativi alla difesa ed all’esercizio dell’azione penale, non assoggetta la pubblica accusa a qualunque richiesta della parte privata, ma ne mette a disposizione il potere solo quando la richiesta si dimostri rilevante per l’accertamento del fatto.

La rilevanza, infatti, assurge a criterio di vera e propria utilità, non marginalità, inerenza al fatto o alle circostanze influenti sulla ricostruzione. Solo a fronte della “rilevanza” il PM può costituire il “braccio della parte privata” la cui impotenza coercitiva non potrebbe ottenere l’acquisizione di un materiale probatorio idoneo a consentire un accertamento “diverso” ed almeno astrattamente utile a fini difensivi.

Ed è sull’effettività della rilevanza che interviene il vaglio del giudice delle indagini preliminari a fronte del diniego del pubblico ministero ai sensi dell’art. 368. Ciò, nondimeno, implica la non condivisibilità della prospettiva esegetica delineata con il ricorso, smentita proprio dal limite costituzionale costituito dall’obbligo del corretto esercizio dell’azione penale, cui inerisce il corretto uso dei poteri di indagine, su cui il diritto alla difesa non può dirsi prevalente tout court, ma solo quando l’atto richiesto dimostri la sua rilevanza dimostrativa circa il fatto oggetto di indagini.

La conseguenza di una simile premessa è che l’atto con il quale il GIP, investito dalla questione, deneghi il provvedimento di sequestro richiesto ex art. 368, non crea affatto una stasi procedimentale, determinata dall’impossibilità della parte, mancante del potere impositivo, di progredire nella difesa, anche perché priva di uno strumento di impugnazione per sovvertire la decisione negativa del giudice per le indagini preliminari.

Al contrario, la rilevanza dell’indagine richiesta, rivelatasi in una fase successiva del procedimento, si riverbererà sull’onere probatorio della parte pubblica. Laddove, infatti, una richiesta della parte sia rigettata e divenga impossibile adempiervi successivamente, la prova non acquisita potrà costituire il limite della “resistenza” rispetto al quadro probatorio raccolto, inducendo ove siffatto limite sia superato quel ragionevole dubbio, che costituisce insuperabile canone di giudizio.

L’assenza di un mezzo di impugnazione, pacificamente non previsto dal codice di rito, si giustifica, pertanto, non solo con la non definitività della decisione, che non impedisce al PM di provvedervi in un momento successivo, ove lo ritenga rilevante anche in adempimento del compito di cui all’art. 358, ultima parte, ma con il riflesso sull’onere probatorio addossato alla pubblica accusa. D’altro canto il diritto allo svolgimento di indagini difensive, anche a mezzo del potere del PM, non coincide, contrariamente a quanto ritenuto, con la possibilità di mera esplorazione.

Non solo perché l’onerato della prova è il PM, ma perché colui che si difende conosce con esattezza il suo rapporto con il fatto o la mancanza del suo rapporto con il fatto ed i suoi poteri di indagine difensiva sono limitati entro quei confini, non potendo pretendersi una loro estensione, a mezzo dell’uso del potere pubblico, che si sostituisca a questo, con finalità differente da quella di “cercare una prova” a sé favorevole.

Non può, insomma, chi sia sopposto ad indagini o qualsiasi altra parte in esse coinvolta, pretendere di usare i poteri propri del PM per finalità esplorative di indagine, magari semplicemente alternative a quelle dal medesimo intraprese. L’assenza di un mezzo di impugnazione, in definitiva, è superata, da un lato dalla non definitività del provvedimento, e dall’altro dal meccanismo processuale dell’onere probatorio e dalla capacità del quadro probatorio di “resistere” alla mancanza della prova della quale si chiedeva l’acquisizione.

Questa impostazione implica l’insussistenza di qualsivoglia abnormità funzionale o strutturale dell’atto di diniego - che né determina una stasi, né si pone al di fuori dello schema legale - perché l’eventuale difetto di investigazione conseguente il mancato sequestro di una prova, non emendabile, non sarà patito da chi lo abbia richiesto e non l’abbia ottenuto ove il quadro probatorio ceda alla prova di resistenza, a fronte della mancata acquisizione” (Sez. 4, 14551, 2018).

La richiesta di acquisizione di documentazione della pubblica amministrazione deve essere rigettata se meramente esplorativa e comunque non assolutamente necessaria ai fini del decidere (Sez. 1, 8967/2017).

Al fine dell’acquisizione della documentazione pubblica che gli è occorrente, il ricorrente si è avvalso della disciplina normativa concernente l’istituto delle investigazioni difensive, e non già di quella relativa al diritto di accesso ex L. 241/90, con le correlate conseguenze sul piano della tutela giurisdizionale. Il detto istituto, introdotto dalla legge 397/2000 nell’ambito del processo penale, in attuazione del principio del giusto processo ex art. 111 Cost., al fine di consentire agli interessati, per il tramite del difensore, di svolgere attività utili all’acquisizione di elementi di prova, si inserisce di norma nella fase delle indagini preliminari; l’attività di investigazione ben può svolgersi, peraltro, anche in relazione ad un eventuale futuro processo a norma dell’art. 391-quater. Il difensore dell’interessato ha chiesto all’amministrazione competente, ai sensi dell’art. 391-quater, il rilascio della riferita documentazione ai fini delle indagini difensive. E in tale quadro si colloca la nota di rigetto.

Orbene, il comma di tale norma stabilisce che, a fronte del diniego dell’amministrazione, “si applicano le disposizioni degli articoli 367 e 368”, che contemplano, rispettivamente, la richiesta scritta al PM e, per il caso che quest’ultimo ritenga di non aderire alla istanza dell’interessato, la trasmissione della stessa, con il parere del PM, al GIP. Il sistema normativo prevede quindi, per siffatta ipotesi, un mezzo di tutela giurisdizionale demandato a diverso giudice, e non al giudice avente giurisdizione per la fattispecie del diniego di accesso disciplinato dalla L. 241/90 (Consiglio di Stato, Sez. 4, 1896/2007).

L’istituto delle investigazioni difensive nell’ambito del processo penale è stato introdotto dalla legge 397/2000, al fine di consentire anche agli interessati, per il tramite dei propri difensori, di 23 svolgere le attività utili ad individuare ed acquisire elementi di prova a proprio favore (art. 327-bis). In tal modo il legislatore ha inteso dare attuazione al principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., in particolare per quanto attiene alla “parità delle armi” tra PM e difensore nella formazione della prova.

L’attività di investigazione difensiva si inserisce infatti nella fase delle indagini preliminari, che è finalizzata ad acquisire elementi rilevanti di prova per il processo, e si conclude con la formazione di un fascicolo del difensore che questi può presentare al giudice Penale e che dovrà essere valutato in uno con il fascicolo del PM.

L’attività investigativa può svolgersi anche per un processo non ancora in corso ma futuro ed eventuale, ai sensi dell’art. 391-nonies. Il ricorrente non ha infatti attivato un procedimento amministrativo ma, sia pure nelle sue fasi preliminari, un processo penale, il quale trova compiuta disciplina e regolamentazione nel codice del rito penale. L’art. 391-quater, dedicato alla richiesta di documentazione alla PA, al comma 3 stabilisce che, in caso di rifiuto di ostensione, può essere chiesto il sequestro dei documenti al PM.

Tale disposizione non rimanda affatto alle norme processuali di cui all’art. 25, L. 241/1990. Ciò significa che il legislatore ha inteso tenere distinte le procedure di acquisizione di documenti dalla PA effettuate, da un lato, nell’ambito di investigazioni difensive volte ad individuare elementi di prova per un processo, penale, eventuale o già in corso; dall’altro, nell’ambito dell’esercizio del diritto di accesso ai sensi della L. 241/90, che è generalmente riconosciuto a chi sia titolare di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata alla documentazione richiesta (art. 22, comma 1, lett. a), L. 241/90), la quale ultima è finalizzata non ad individuare elementi di prova per un processo, ma ad attuare la trasparenza e a verificare l’imparzialità dell’operato della pubblica amministrazione.

Si tratta di due sistemi giuridici diversi, con finalità diverse e che trovano ciascuno compiuta e precisa regolamentazione, tra le quali il legislatore non ha previsto collegamenti od interferenze. La giurisdizione del giudice amministrativo, non solo quella di legittimità, ma anche quella esclusiva, deve essere limitata a fattispecie nella quale la PA agisce come pubblica autorità, con l’utilizzo di prerogative pubblicistiche (Corte Cost. n. 204), e non può sussistere in situazioni ove essa assume gli stessi diritti ed obblighi di un comune cittadino, come nel caso in esame (TAR Lombardia, Sez. 1, 2022/2006).

Ai sensi dell’art. 391-quater, il difensore, per l’espletamento delle sue indagini, “può chiedere i documenti in possesso della pubblica amministrazione e [può chiedere] di estrarne copia a sue spese”. È però evidente che, in tal caso, nel concetto di “pubblica amministrazione” non può essere ricompresa anche un’altra parte processuale (anche se parte pubblica), vale a dire l’ufficio del PM, se i documenti richiesti sono inerenti alla attività di indagine (Sez. 5, 5550/2016).