Art. 643 - Riparazione dell’errore giudiziario
1. Chi è stato prosciolto in sede di revisione, se non ha dato causa per dolo o colpa grave all’errore giudiziario, ha diritto a una riparazione commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna.
2. La riparazione si attua mediante pagamento di una somma di denaro ovvero, tenuto conto delle condizioni dell’avente diritto e della natura del danno, mediante la costituzione di una rendita vitalizia. L’avente diritto, su sua domanda, può essere accolto in un istituto, a spese dello Stato.
3. Il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della pena detentiva che sia computata nella determinazione della pena da espiare per un reato diverso, a norma dell’articolo 657 comma 2.
Rassegna giurisprudenziale
Riparazione dell’errore giudiziario (art. 643)
Il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è a contraddittorio necessario – che si instaura con la notifica della domanda, a cura della cancelleria, al Ministero dell’economia e delle finanze – ma non a carattere contenzioso necessario, in quanto l’Amministrazione intimata può non costituirsi ovvero costituirsi aderendo alla richiesta del privato o rimettersi al giudice.
Ne consegue che in questi ultimi casi, non essendovi contrasto di interessi da dirimere, non v’è soccombenza dell’Amministrazione e non può essere pronunciata la sua condanna alla rifusione delle spese, nonché degli eventuali diritti e onorari di rappresentanza e difesa in favore della controparte, mentre, qualora essa si costituisca, svolgendo una qualsiasi eccezione diretta a paralizzare o ridurre la pretesa dell’istante e veda rigettate le sue deduzioni o conclusioni, il contraddittorio si connota di carattere contenzioso e il giudice deve porre le spese stesse, nonché gli eventuali diritti e onorari a carico dell’Amministrazione soccombente o, se ne sussistono le condizioni, dichiararle totalmente o parzialmente compensate (SU, 34559/2002).
Il giudizio da effettuarsi in tema di riparazione per ingiusta detenzione, debba essere volto a stabilire con valutazione “ex ante”, non se la condotta serbata dal richiedente integri gli estremi di reato, ma solo se essa sia stata presupposto idoneo ad integrare, ancorché in presenza di un errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto (SU, 34559/2002).
La libertà non è, pensata dall’ordinamento costituzionale come un dato o valore statico, ma come valore dinamico, come valore – come premessa – indispensabile ad ognuno per sviluppare, liberamente, la propria personalità, il che vuoi dire che la persona libera è la persona che fa e che ha fatto un certo uso della libertà, che è una certa persona grazie al modo di vivere la libertà.
Ne consegue che l’ordinamento giuridico, allorché deve indennizzare una persona per averla privata ingiustamente della libertà, prende atto che non ha dinanzi un essere umano astratto, indifferenziato, senza volto, ma una persona che ha vissuto e vive la libertà in un certo modo e che, se ne è privata, è colpita in quel determinato modo di viverla.
Valutare equitativamente le conseguenze personali e familiari derivanti dalla privazione della libertà altro non significa, dunque, che attribuire rilevanza alla persona come è diventata, come si è sviluppata grazie alla libertà, divenire, sviluppo che, peraltro, possono essere anche negativi, come, ad esempio, – e gli esempi potrebbero moltiplicarsi sia con riferimento alle conseguenze personali, sia con riferimento alle conseguenze familiari – nel caso in cui venga privato della libertà chi ha scelto di servirsene per darsi all’illecito, al delitto, per il quale le conseguenze di carattere personale possono essere meno rilevanti che per colui, o colei, che della libertà ha fatto un uso diametralmente opposto.
La persona si fa, diventa, cresce grazie anche al lavoro, alla capacità dì produrre reddito e, allora, se la custodia cautelare, la privazione della libertà, incide su questo particolare modo di essere quella persona, il giudice deve tenerne conto. Lo strepitus fori, il clamore suscitato dalla privazione della libertà, sarà maggiore o minore a seconda sia della gravità del fatto-reato contestato, sia, a parità di gravità, della qualità della persona, cioè, ancora una volta, del modo di essere quella persona libera (SU, 1/1995).
L’unico limite che incontra il giudice della riparazione, nella formazione del proprio convincimento, è rappresentato dal fatto di non poter ritenere accertate circostanze escluse in sede di cognizione od escludere circostanze riconosciute esistenti dal giudice che ha emesso la pronuncia di merito (Sez. 4, 12228/2017).
Ai fini della quantificazione della somma da attribuire a titolo di equa riparazione per l’ingiusta detenzione, non devono essere corrisposte le competenze economiche non erogate a causa della sospensione dal servizio, che siano state già riconosciute contrattualmente all’interessato, poiché altrimenti si determinerebbe una duplicazione della medesima voce di danno con conseguente indebito arricchimento per l’interessato (Sez. 3, 7387/2017).
Il procedimento per la riparazione, pur essendo ispirato ai principi del processo civile, si riferisce pur sempre ad un rapporto obbligatorio di diritto pubblico e non ha natura di risarcimento del danno ma di semplice indennità o indennizzo in base a principi di solidarietà sociale, per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale o ingiustamente condannato.
L’origine solidaristica della previsione dei due casi di riparazione non esclude, però, che ci si trovi in presenza di diritti soggettivi qualificabili di diritto pubblico, cui si contrappone, specularmente, un’obbligazione dello Stato da qualificare parimenti di diritto pubblico. Il criterio seguito dalla legge e diretto ad escludere una tutela obbligata di tipo risarcitorio risponde ad una precisa finalità: se il legislatore avesse costruito la riparazione dell’errore giudiziario, o dell’ingiusta detenzione, come risarcimento dei danni avrebbe dovuto richiedere, per coerenza sistematica, che il danneggiato fornisse non solo la dimostrazione dell’esistenza dell’elemento soggettivo, fondante la responsabilità per colpa o per dolo, nelle persone che hanno agito, ma anche la prova dell’entità dei danni subiti.
Ciò si sarebbe, peraltro, posto in un quadro di conflitto con l’esigenza (fondata non solo sull’art. 24, comma 4, Cost. ma anche sull’art. 5, comma 5, CEDU e sull’art. 9, comma 5 del Patto internazionale dei diritti civili e politici) di garantire un adeguato ristoro a chi sia stato comunque ingiustamente condannato o privato della libertà personale senza costringerlo a defatiganti controversie sull’esistenza dell’elemento soggettivo di chi aveva agito e sulla determinazione dei danni.
La particolarità del pregiudizio in esame è la sua derivazione da una condotta conforme all’ordinamento che, però, ha prodotto un danno, che deve comunque essere riparato: l’atto è stato emesso nell’esercizio di un’attività legittima e doverosa da parte degli organi dello Stato anche se, in tempi successivi, ne è stata dimostrata non la illegittimità ma l’erroneità e l’ingiustizia (si tratta di atto lecito dannoso).
Il sistema delineato comporta, quindi, la necessità di utilizzare, prevalentemente se non esclusivamente, criteri equitativi per la determinazione dell’indennizzo, pur non essendo inibito al giudice della riparazione fare riferimento anche a criteri di natura risarcitoria che possono validamente contribuire a restringere i margini di discrezionalità inevitabilmente esistenti nella liquidazione di tipo esclusivamente equitativo.
La procedura per la riparazione dell’errore giudiziario ha dunque una componente indennitaria ed una risarcitoria, e «il giudice può utilizzare per la liquidazione del danno sia il criterio risarcitorio con riferimento ai danni patrimoniali e non patrimoniali, sia il criterio equitativo limitatamente alle voci non esattamente quantificabili» (Sez. 4, 10878/2012).
Dal punto di vista contenutistico, «Nella liquidazione della somma per la riparazione dell’errore giudiziario, deve tenersi conto di tutte le peculiari sfaccettature di cui il danno non patrimoniale si compone nella sua globalità, avendo in particolare riguardo all’interruzione della attività lavorative e ricreative, dei rapporti affettivi e degli altri rapporti interpersonali, ed al mutamento radicale, peggiorativo e non voluto, delle abitudini di vita» (Sez. 4, 22688/2009) (la riassunzione si deve a Sez. 4, 36025/2018).
L’art. 643, modificando il corrispondente art. 571 del codice di procedura penale del 1930, che recitava «[...] ha dato o concorso a dare causa [...]», limita la previsione di ostatività al fatto che il ricorrente abbia “dato causa” senza ricomprendere l’ipotesi che si sia semplicemente “concorso a dare causa”: la modifica è rilevante, posto che nell’art. 314, relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione, è invece inserita l’ipotesi del concorso causale, sicché, a prescindere dalle motivazioni che possono aver indotto il legislatore ad essere maggiormente rigoroso nel disciplinare la riparazione per ingiusta detenzione, non vi sarebbe dubbio che dal mancato riferimento nell’art. 643, all’ipotesi di concorso si possa argomentare che quest’ultimo non costituisce più, a differenza che nella disciplina previgente, condizione ostativa alla riparazione dell’errore giudiziario, disciplinato quindi in un ambito meno ristretto rispetto alla riparazione per ingiusta detenzione.
Dunque, la colpa ostativa al diritto alla riparazione dell’errore giudiziario deve essere esaminata non soltanto in relazione al grado di ingiustificatezza della negligenza o imprudenza ma anche in relazione alla sua incidenza causale, intesa come idoneità non a concorrere, ma a causare l’errore giudiziario (Sez. 4, 36025/2018).
Il procedimento in materia di riparazione per ingiusta detenzione è regolato secondo il rito penale, atteso che la controversia origina da una sentenza di proscioglimento penale a favore di imputato colpito da misura di custodia cautelare; segnatamente, è regolato dalle disposizioni sulla riparazione dell’errore giudiziario di cui all’art. 646, alle quali fa rinvio – in quanto compatibili – l’art. 415, ultimo comma (SU, 34535/2001). Ne consegue che il ricorso per cassazione contro l’ordinanza che decide sulla domanda di riparazione per ingiusta detenzione deve rispettare le regole generali per il ricorso in materia penale e, quindi, deve essere proposto entro il termine di quindici giorni dalla notificazione dell’ordinanza stessa (ex art. 585, comma 1, lett. a, comma 2, lett. a) a mezzo presentazione nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (Sez. 7, 16062/2017).
In tema di riparazione dell’errore giudiziario, la colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto, a differenza di quanto previsto per la riparazione per l’ingiusta detenzione dall’art. 314, deve avere dato causa all’errore giudiziario e non semplicemente concorso alla verificazione dello stesso, per cui ne consegue la necessità di uno specifico onere di valutazione che accerti la sussistenza di una condotta colposa concorrente del danneggiato e il suo apporto alla verificazione dell’evento (Sez. 3, 48321/2016).
Nel giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione, che ha natura civilistica ed è autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, il giudice, ai fini della valutazione della colpa grave ostativa all’equo indennizzo, può valutare il comportamento silenzioso o mendace dell’imputato, decidendo se necessiti o meno - nel caso concreto - del concorso di altri elementi di colpa (Sez. 4, 48247/2008).
La condotta dell’indagato che, in sede di interrogatorio, si avvalga della facoltà di non rispondere, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, può assumere rilievo ai fini dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave solo qualora l’interessato non abbia riferito circostanze, ignote agli inquirenti, utili ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare (Sez. 3, 29967/2014).
In tema di riparazione per ingiusta detenzione, è indennizzabile anche il periodo trascorso, senza avervi dato (o concorso a darvi) causa per dolo o colpa grave, in affidamento in prova al servizio sociale, trattandosi di misura alternativa equiparabile alle altre modalità di espiazione della pena detentiva (Sez. 3, 43550/2016).
In tema di quantificazione della somma dovuta per ingiusta detenzione, il danno biologico non deve necessariamente essere liquidato mediante applicazione del criterio tabellare adottato dalla giurisprudenza civile, dovendosi ritenere che la natura non patrimoniale di questo tipo di danno consenta di ricorrere anche a criteri equitativi, purché essi non risultino illogici e conducano ad un risultato che non si discosti in modo irragionevole e immotivato dai menzionati parametri tabellari, che comunque costituiscono il metodo adottato dal diritto vivente (Sez. 4, 36442/2013).
Se è vero che le Sezioni unite civili (SU civili, 26972/2008) hanno, tra l’altro, statuito che non è ammissibile nel nostro ordinamento la concepibilità di un danno definito “esistenziale”, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, costituendo una simile perdita, ove causata da un fatto illecito lesivo di un diritto della persona costituzionalmente garantito, né più né meno che un ordinario danno non patrimoniale, di per sé risarcibile ex art. 2059 Cod. civ., e che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato, non è men vero che non può non tenersi conto nella liquidazione del danno non patrimoniale, nella sua globalità, di tutte le peculiari sfaccettature di cui si compone nel caso concreto, quali: l’interruzione delle attività lavorative e di quelle ricreative, l’interruzione dei rapporti affettivi e di quelli interpersonali, il mutamento radicale peggiorativo e non voluto delle abitudini di vita (Sez. 4, 25886/2016).
Fermo restando il tetto massimo fissato dalla legge in Euro 516.456,90, il giudice della riparazione può discostarsi dall’ammontare giornaliero di € 235,82 (€ 117,91 per gli arresti domiciliari), valorizzando lo specifico pregiudizio, di natura patrimoniale e non patrimoniale, derivante dalla restrizione della libertà, dimostratasi ingiusta.
Lo scostamento, tuttavia, deve trovare giustificazione in particolari specifiche ripercussioni in termini negativi sotto il versante patrimoniale, familiare, della vita di relazione, della pubblica ripercussione dell’evento, che non risulterebbero adeguatamente soddisfatte, quantomeno in termini di equo ristoro in una valutazione aritmetica ponderata come quella agganciata al valore massimo indennizzabile diviso per la estrema durata della detenzione riconosciuta dalla normativa penalprocessualistica (Sez. 4, 37135/2018).
Affinché l’equità non tracimi in arbitrio incontrollabile è necessario che il giudice individui in maniera puntuale e corretta i parametri specifici di riferimento, la valorizzazione dei quali imponga rilevare un surplus di effetto lesivo da atto legittimo (la misura cautelare) rispetto alle gravi, ma ricorrenti e, per così dire, fisiologiche, conseguenze derivanti dalla privazione della libertà, sia quale atto limitativo della sfera più intima e garantita del soggetto, che come alone di discredito sociale (Sez. 4, 21077/2014).
Il giudice, nel fare ricorso alla liquidazione equitativa, deve sintetizzare i criteri di calcolo utilizzati ed esprimere la valutazione fattane ai fini della decisione, non potendo il giudizio di equità risolversi nel mero arbitrio, ma dovendo invece essere sorretto da una giustificazione adeguata e logicamente congrua, così assoggettandosi alla possibilità del controllo da parte dei destinatari e dei consociati (Sez. 3, 29965/2014).
Nel procedimento di riparazione per errore giudiziario - che, pur avendo connotazioni di natura civilistica, attiene comunque ad un rapporto obbligatorio di diritto pubblico, di talché presenta connotazioni sue proprie rispetto al processo civile - secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità (Sez. 4, 38163/2013), il sindacato di legittimità, in tema di regolamento delle spese processuali, è limitato alla violazione del principio per cui le spese processuali non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa.
Ed esula dal sindacato della Corte di legittimità (rientrando invece nel sindacato del giudice di merito) la valutazione sulla compensazione allorquando l’istante non è totalmente vittorioso quanto al petitum esplicitato e richiesto (Sez. 4, 18168/2017).