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Art. 589 - Omicidio colposo

1. Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

2. Se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni (1).

[Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da:

1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni;

2) soggetto sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope](2).

3. Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici (3)(4).

(1) Comma sostituito dall'art. 2, L. 102/2006 e modificato dal numero 1) della lettera c) del comma 1 dell'art. 1, DL 92/2008, convertito in legge, con modificazioni, con L. 125/2008. Successivamente, il presente comma è stato così modificato dall’art. 1, comma 3, lett. c), L. 41/2016, a decorrere dal 25 marzo 2016, ai sensi di quanto disposto dall’art. 1, comma 8, della medesima legge n. 41/2016. (2) Comma aggiunto dal numero 2) della lettera c) del comma 1 dell'art. 1, DL 92/2008, convertito in legge, con modificazioni, con L. 125/2008.

(2) Comma abrogato dall’art. 1, comma 3, lett. d), L. 41/2016.

(3) Comma così modificato dal numero 3) della lettera c) del comma 1 dell'art. 1, DL 92/2008, convertito in legge, con modificazioni, con L. 125/2008. Per quanto concerne il raddoppio dei termini di prescrizione per il reato di cui al presente comma si veda il sesto comma dell'art. 157.

(4) Articolo così sostituito dall'art. 1, L. 296/1966.

Rassegna di giurisprudenza

Profili di diritto intertemporale

In tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta (SU, 40986/2018).

Elementi strutturali

In tema di reati colposi ed, in particolare con riferimento al reato di cui all’art. 589, l’addebito soggettivo dell’evento richiede non soltanto che l’evento dannoso sia prevedibile ma, altresì, che lo stesso sia evitabile dall’agente con l’adozione delle regole cautelari idonee a tal fine, non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante non avrebbe potuto, comunque, essere evitato e che, in tema di colpa specifica è necessario che tale imputazione soggettiva dell’evento avvenga attraverso un apprezzamento in concreto della prevedibilità ed evitabilità dell’esito antigiuridico da parte dell’agente modello (Sez. 4, 9446/2019).

…Incidenza del sapere scientifico

Ogni qual volta all'accertamento del fatto non si può pervenire in base al sapere diffuso, proprio delle conoscenze ordinarie, è necessario fare ricorso al sapere scientifico, che costituisce un indispensabile strumento al servizio del giudice di merito per pervenire ad una spiegazione degli accadimenti facendo leva sulle enunciazioni esplicative elaborate dalla scienza. Le varie tesi a confronto vengono discusse secondo i principi della dialettica processuale ed il giudice le pondera nella motivazione della sentenza, esercitando il proprio doveroso controllo sull'affidabilità delle basi scientifiche del giudizio. Si tratta di valutare l'autorità scientifica dell'esperto che trasferisce nel processo la sua conoscenza della scienza; ma anche di comprendere, soprattutto nei casi più problematici, se gli enunciati che vengono proposti trovano comune accettazione nella comunità scientifica. Le indicate modalità di acquisizione ed elaborazione del sapere scientifico all'interno del processo dimostrano che questo è uno strumento al servizio dell'accertamento del fatto, con la conseguente logica evidenza che "la Corte di legittimità non è per nulla detentrice di proprie certezze in ordine all'affidabilità della scienza e non può essere chiamata a decidere, neppure a Sezioni unite, se una legge scientifica di cui si postula l'utilizzabilità nell'inferenza probatoria sia o meno fondata, trattandosi di una valutazione in fatto rimessa al giudice di merito che dispone, soprattutto attraverso la perizia, degli strumenti per accedere al mondo della scienza. Al contrario, il controllo che la Corte Suprema è chiamato ad esercitare attiene alla razionalità delle valutazioni che a tale riguardo il giudice di merito esprime. Del resto, il giudice di legittimità non è il giudice del sapere scientifico, e non detiene proprie conoscenze privilegiate. Esso è chiamato a valutare la correttezza metodologica dell'approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all'affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto (Sez. 4, 46392/2018).

Per valutare l'attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti. L'ampiezza, la rigorosità, l'oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato l'elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in discussione l'ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono formate. L'attitudine esplicativa dell'elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l'identità, l'autorità indiscussa, l'indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove". Si è aggiunto che "il primo e più indiscusso strumento per determinare il grado di affidabilità delle informazioni scientifiche che vengono utilizzate nel processo è costituto dall'apprezzamento in ordine alla qualificazione professionale ed all'indipendenza di giudizio dell'esperto". La corretta conduzione di tale verifica rifluisce sulla "logica correttezza delle inferenze che vengono elaborate facendo leva, appunto, sulle generalizzazioni esplicative elaborate dalla scienza". In ciò è anche l'indicazione del contenuto del sindacato del giudice di legittimità, che attraverso la valutazione della correttezza logica e giuridica del ragionamento probatorio ripercorre il vaglio operato dal giudice di merito non per sostituirlo con altro ma per verificare che questi abbia utilizzato i menzionati criteri di razionalità, rendendo adeguata motivazione (Sez. 4, 1870/2018).

…Posizione di garanzia

La titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso. Deve rilevarsi, altresì, che l'individuazione di una posizione di garanzia non esaurisce l'indagine sul piano obbiettivo, dovendo ancora essere individuata la regola cautelare che integra e delimita l'ampiezza della posizione gestoria. Essa non si può rinvenire in norme che attribuiscono compiti senza individuare le modalità di assolvimento degli stessi, dovendosi, invece, aver riguardo esclusivamente a norme che indicano con precisione le modalità e i mezzi necessari per evitare il verificarsi dell'evento (Sez. 4, 11157/2019).

…Colpa concorrente del terzo

In tema di reato colposo, il giudice penale é tenuto ad accertare la colpa concorrente del terzo, rimasto estraneo al giudizio, al solo fine di verificare la rilevanza della sua condotta sull'efficienza causale del comportamento dell'imputato e di assicurare la correlazione tra gravità del reato e determinazione della pena, ai sensi dell'art. 133, primo comma, n. 3) dovendosi escludere, in via generale, l'esistenza di un obbligo di quantificazione percentualistica dei diversi fattori causali dell'evento, a meno che egli non sia chiamato a pronunciare statuizioni civilistiche e ricorra il fatto colposo della parte civile (Sez. 4, 23080/2017).

…Caso fortuito

Il caso fortuito disciplinato dall'art. 45, escludendo il profilo oggettivo della colpa, impedisce di addebitare all'agente quel rischio che si può definire ineliminabile in quanto non dominabile dalla condotta umana. Il caso fortuito consiste, infatti, in quell'avvenimento imprevisto e imprevedibile che si inserisce d'improvviso nell'azione del soggetto e nemmeno a titolo di colpa può farsi risalire all'attività psichica dell'agente. Il caso fortuito si verifica quando sussiste il nesso di causalità materiale tra la condotta e l'evento, ma fa difetto la colpa, in quanto l'agente non ha causato l'evento per sua negligenza o imprudenza; questo, quindi, non è, in alcun modo, riconducibile all'attività psichica del soggetto. Ne consegue che qualora una pur minima colpa possa essere attribuita all'agente, in relazione all'evento dannoso realizzatosi, automaticamente viene meno l'applicabilità della disposizione di cui all'art. 45 (Sez. 4, 6982/2013).

Casistica

…Attività medica (si veda anche la giurisprudenza riportata sub art. 590-sexies)

L'esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall'esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l'evento si è verificato per colpa (anche "lieve") da negligenza o imprudenza; b) se l'evento si è verificato per colpa (anche "lieve") da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l'evento si è verificato per colpa (anche "lieve") da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l'evento si è verificato per colpa "grave" da imperizia nell'esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell'atto medico (SU, 8770/2018).

In ipotesi di responsabilità dell'esercente professione medica, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica, che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto (in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione che aveva affermato la sussistenza del nesso causale tra la condotta omissiva dell'anestesista, consistita nel mancato monitoraggio dei tracciati ECG della paziente nel corso di un intervento chirurgico e nel non tempestivo rilevamento delle complicanze cardiache insorte per asistolia, e i gravi danni cerebrali procurati alla stessa in conseguenza del ritardo con cui era stato eseguito il massaggio cardiaco) (Sez. 4, 26491/2016).

Il medico in posizione apicale che abbia correttamente svolto i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo non risponde dell'evento lesivo conseguente alla condotta colposa del medico di livello funzionale inferiore a cui abbia trasferito la cura del singolo paziente, altrimenti configurandosi una responsabilità di posizione, in contrasto col principio costituzionale di personalità della responsabilità penale (fattispecie in cui è stata esclusa la responsabilità penale di un primario di reparto per l'omicidio colposo di un paziente che non aveva visitato personalmente, verificatosi nell'arco di dieci giorni, senza che in tale ambito temporale gli fosse segnalato nulla dai medici della struttura) (Sez. 4 18334/2017).

In tema di omicidio colposo, sussiste il nesso di causalità tra l'intempestiva diagnosi di una malattia tumorale e il decesso del paziente, anche a fronte di una prospettazione della morte ritenuta inevitabile, laddove dal giudizio controfattuale risulti l'alta probabilità logica che la diagnosi tempestiva avrebbe consentito il ricorso a terapie atte a incidere positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che la morte si sarebbe verificata in epoca posteriore o con minore intensità lesiva. In tema di colpa professionale, il medico che succede ad un collega nel turno in un reparto ospedaliero assume nei confronti dei pazienti ricoverati la medesima posizione di garanzia di cui quest'ultimo era titolare, circostanza che lo obbliga ad informarsi circa le condizioni di salute dei pazienti medesimi e delle particolari cure di cui necessitano (fattispecie relativa alla riconosciuta responsabilità per omicidio colposo del medico subentrante nel turno che, omettendo di consultare la cartella clinica informatizzata, in un caso di "riferita ingestione di osso di pollo", ometteva di disporre l'esame endoscopico del paziente, poi deceduto per shock emorragico provocato dal corpo estraneo infisso nella parete dell'esofago) (Sez. 4, 44622/2017).

Il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia che comprende un obbligo di controllo e di protezione del paziente, diretto a prevenire il pericolo di commissione di atti lesivi ai danni di terzi e di comportamenti pregiudizievoli per se stesso (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure l'affermazione di responsabilità per il reato di omicidio colposo di un medico del reparto di psichiatria di un ospedale pubblico per il suicidio di una paziente affetta da schizofrenia paranoide cronica, avvenuto qualche ora dopo che la paziente, presentatasi in ospedale dopo avere ingerito un intero flacone di Serenase, era stata dimessa dal medico, senza attivare alcuna terapia e alcun meccanismo di controllo) (Sez. 4, 43476/2017).

In tema di omicidio, sussiste il nesso di causalità tra l'omessa adozione da parte del medico specialistico di idonee misure atte a rallentare il decorso della patologia acuta, colposamente non diagnosticata, ed il decesso del paziente, quando risulta accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva (fattispecie nella quale il sanitario di turno presso il pronto soccorso non aveva disposto gli accertamenti clinici idonei ad individuare una malattia cardiaca in corso e, di conseguenza, non era intervenuto con una efficace terapia farmacologica di contrasto che avrebbe rallentato significativamente il decorso della malattia, così da rendere utilmente possibile il trasporto presso struttura ospedaliera specializzata e l'intervento chirurgico risolutivo) (Sez. 4, 18573/2013).

In tema di trattamento medico-chirurgico, risponde di omicidio preterintenzionale il medico che sottoponga il paziente ad un intervento (dal quale consegua la morte di quest'ultimo) in assenza di finalità terapeutiche, ovvero per fini estranei alla tutela della salute del paziente, ad esempio provocando coscientemente un'inutile mutilazione, od agendo per scopi estranei (scientifici, dimostrativi, didattici, esibizionistici o di natura estetica), non accettati dal paziente; al contrario, non ne risponde, nonostante l'esito infausto, il medico che sottoponga il paziente ad un trattamento non consentito ed in violazione delle regole dell'arte medica, quando nella sua condotta sia rinvenibile una finalità terapeutica, o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici, poiché in tali casi la condotta non è diretta a ledere, e l'agente, se cagiona la morte del paziente, risponderà di omicidio colposo ove l'evento sia riconducibile alla violazione di una regola cautelare (Sez. 4, 34521/2010).

In tema di colpa professionale, il medico, che all'interno di una struttura sanitaria ospedaliera, venga chiamato per un consulto specialistico, ha gli stessi doveri professionali del medico che ha in carico il paziente presso un determinato reparto, non potendo esimersi da responsabilità adducendo di essere stato chiamato solo per valutare una specifica situazione (fattispecie in tema di omicidio colposo, in cui due anestesisti chiamati ad intervenire per la presenza di una epiglottide, dopo aver visitato la paziente, richiedevano l'intervento dell'otorino e si allentavano dal reparto, omettendo di intubare la paziente per prevenire il rischio di completa ostruzione delle vie respiratorie) (Sez. 4, 3365/2010).

Risponde di omicidio colposo il cardiologo, che attesti l'idoneità alla pratica sportiva agonistica di un atleta, in seguito deceduto nel corso di un incontro ufficiale di calcio a causa di una patologia cardiologia (nella specie, "cardiomiopatia ipertrofica"), non diagnosticata dal sanitario per l'omessa effettuazione di esami strumentali di secondo livello che, ancorché non richiesti dai protocolli medici, dovevano ritenersi necessari in presenza di anomalie del tracciato elettrocardiografico desumibili dagli esami di primo livello (Sez. 4, 38154/2009).

…Infortuni sul lavoro

L' amministratore che stipuli un contratto di affidamento in appalto di lavori da eseguirsi nell'interesse del condominio può assumere, ove la delibera assembleare gli riconosca autonomia di azione e concreti poteri decisionali, la posizione di committente, come tale tenuto all'osservanza degli obblighi di verifica della idoneità tecnico-professionale della impresa appaltatrice, di informazione sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro e di cooperazione e coordinamento nella attuazione delle misure di prevenzione e protezione (sez. 4, 10136/2021).

Le norme antinfortunistiche sono destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, anche in considerazione della disattenzione con la quale gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni. Nella materia che occupa deve considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro; e l'eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l'obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili - come avvenuto nel caso di specie - della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica (Sez. 4, 3580/2000).

Non ha queste caratteristiche il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un'operazione rientrante pienamente, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli (Sez. 4, 10121/2007) (riassunzione dovuta a Sez. 4, 15335/2019).

Il datore di lavoro che, con una propria condotta, abbia determinato l'insorgere di una fonte di pericolo, è titolare di una posizione di garanzia inerente ai danni provocati non soltanto ai propri dipendenti, ma anche ai terzi che frequentano le strutture aziendali. Ed infatti, la configurabilità della circostanza aggravante della violazione di norme antinfortunistiche esula dalla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, atteso che il rispetto di tali norme è imposto anche quando l'attività lavorativa venga prestata anche solo per amicizia, riconoscenza o comunque in situazione diversa dalla prestazione del lavoratore subordinato, purché detta prestazione sia stata posta in essere in un ambiente che possa definirsi di "lavoro" (Sez. 4, 13583/2019).

Le norme antinfortunistiche sono dettate non soltanto per la tutela dei lavoratori nell'esercizio della loro attività ma anche a tutela dei terzi che si trovino nell'ambiente di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell'impresa.

Ne consegue che, ove in tali luoghi vi siano macchine non munite dei presidi antinfortunistici e si verifichino a danno del terzo i reati di lesioni o di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, di cui agli artt. 589, comma secondo, e 590, comma terzo, nonché la perseguibilità d'ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex art. 590 ultimo comma, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale, il quale ricorre se il fatto sia ricollegabile all'inosservanza delle predette norme secondo i principi di cui agli artt. 40 e 41, e cioè sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante, e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi (Sez. 4, 13583/2019).

L'obbligo di prevenzione gravante sul datore di lavoro non è limitato al solo rispetto delle norme tecniche, ma richiede anche l'adozione di ogni ulteriore accortezza necessaria ad evitare i rischi di nocumento per i lavoratori, purché ciò sia concretamente specificato in regole che descrivono con precisione il comportamento da tenere per evitare il verificarsi dell'evento.

La responsabilità per colpa, infatti, non fonda unicamente sulla titolarità di una posizione gestoria del rischio ma presuppone l'esistenza - e la necessità di dare applicazione nel caso concreto a - delle regole aventi specifica funzione cautelare, perché esse indicano quali misure devono essere adottate per impedire che l'evento temuto si verifichi. Dovere di diligenza e regola cautelare si integrano definendo nel dettaglio il concreto e specifico comportamento doveroso; ciò assicura che non si venga chiamati a rispondere penalmente per la sola titolarità della posizione e pertanto a titolo di responsabilità oggettiva (Sez. 4, 14915/2019).

Alla luce della normativa prevenzionistica vigente, sul datore di lavoro grava l'obbligo di valutare tutti i rischi connessi alle attività lavorative e attraverso tale adempimento pervenire alla individuazione delle misure cautelari necessarie e quindi alla loro adozione, non mancando di assicurarsi che tali misure vengano osservate dai lavoratori. Ma nella maggioranza dei casi la complessità dei processi aziendali richiede la presenza di dirigenti e di preposti che in diverso modo coadiuvano il datore di lavoro. I primi attuano le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa (art. 2, comma 1, lett. d) DLGS 81/2008); i secondi sovrintendono alla attività lavorativa e garantiscono l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa (art. 2, comma 1, lett. e) DLGS 81/2008).

Pertanto, già nel tessuto normativo è previsto che il datore di lavoro vigili attraverso figure dell'organigramma aziendale che, perché investiti dei relativi poteri e doveri, risultano garanti della prevenzione a titolo originario. Prendendo atto di tali previsioni, è già stato affermato il principio secondo il quale, in tema di prevenzione infortuni sul lavoro, ai fini dell'individuazione del garante nelle strutture aziendali complesse occorre fare riferimento al soggetto espressamente deputato alla gestione del rischio essendo, comunque, generalmente riconducibile alla sfera di responsabilità del preposto l'infortunio occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa, a quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell'organizzazione dell'attività lavorativa e a quella del datore di lavoro, invece, l'incidente derivante da scelte gestionali di fondo (Sez. 4, 22606/2017).

Pertanto, anche in relazione all'obbligo di vigilanza, le modalità di assolvimento vanno rapportate al ruolo che viene in considerazione; il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli (tanto che, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi " contra legem", foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche: Sez. 4, 26294/2018).

Ma quanto alle concrete modalità di adempimento dell'obbligo di vigilanza esse non potranno essere quelle stesse riferibili al preposto ma avranno un contenuto essenzialmente procedurale, tanto più complesso quanto più elevata è la complessità dell'organizzazione aziendale (e viceversa). L'assunto può essere sintetizzato nel seguente principio di diritto: "l'obbligo datoriale di vigilare sull'osservanza delle misure prevenzionistiche adottate può essere assolto attraverso la preposizione di soggetti a ciò deputati e la previsione di procedure che assicurino la conoscenza del datore di lavoro delle attività lavorative effettivamente compiute e delle loro concrete modalità esecutive, in modo da garantire la persistente efficacia delle misure di prevenzione adottate a seguito della valutazione dei rischi" (Sez. 4, 14915/2019).

In tema di infortuni sul lavoro, il coordinatore della sicurezza per l'esecuzione dei lavori svolti in un cantiere è titolare di una posizione di garanzia - che si affianca a quella degli altri soggetti destinatari della normativa antinfortunistica - in quanto gli spettano compiti di "alta vigilanza", consistenti: a) nel controllo sulla corretta osservanza, da parte delle imprese, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento, nonché sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell'incolumità dei lavoratori; b) nella verifica dell'idoneità del piano operativo di sicurezza (POS) e nell'assicurazione della sua coerenza rispetto al piano di sicurezza e coordinamento; c) nell'adeguamento dei piani in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, verificando, altresì, che le imprese esecutrici adeguino i rispettivi POS (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del coordinatore per le lesioni subite da un lavoratore, in ragione dell'inidoneità del piano operativo di sicurezza predisposto dall'impresa, che non contemplava specifiche misure contro il rischio di caduta attraverso lucernari, indicato nel piano di sicurezza e coordinamento) (Sez. 4, 45862/2017).

In tema di infortuni sul lavoro, ai sensi dell'art. 299, DLGS 81/2008, la posizione di garanzia grava anche su colui che, non essendone formalmente investito, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro e ad altri garanti ivi indicati, sicchè l'individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale (Sez. 4, 18090/2017).

Si è in presenza di diverse teorie esplicative sulla carcinogenesi del mesotelioma pleurico e disparità di opinioni tra gli esperti in particolare su uno degli aspetti più dibattuti in sede processuale (come lo è stato in altri in materia di morti da amianto e patologie asbesto-correlate), relativo all'accreditamento nella comunità scientifica del cosiddetto effetto acceleratore.

Va però fin da ora rimarcato che non è possibile ritenere che l'utilizzazione di una legge scientifica imponga che essa abbia un riconoscimento unanime, soprattutto là dove l'indagine e gli studi degli esperti riguardino un tema complesso come quello in esame, che presenta ancora aspetti non universalmente accettati e fattori individualizzanti di non poco rilievo, rispondendo ogni soggetto esposto all'agente patogeno in maniera diversa e peculiare: si tratta dunque di studi in continua evoluzione per quanto attiene alla causalità generale, che poi vanno rapportati alla esperienza lavorativa del singolo ed alla sua capacità di reazione ai fattori nocivi esterni.

Ciò è dimostrato dal fatto che le divergenze di opinioni degli esperti in materia sono molteplici, anche con riferimento al momento della iniziazione della malattia, alla durata della induzione ed al protrarsi della latenza vera e propria, cioè il periodo in cui la malattia, irreversibilmente insorta, non è ancora diagnosticabile. Poiché dunque un consenso davvero generale nell'ambito della comunità scientifica è dato assai raro da registrare, non può che farsi richiamo al condivisibile principio già affermato dalle Sezioni unite, in base al quale le acquisizioni scientifiche cui è possibile attingere nel giudizio penale sono quelle "più generalmente accolte, più condivise", non potendosi pretendere l'unanimità alla luce della ormai diffusa consapevolezza della relatività e mutabilità del sapere scientifico (SU, 9163/2005).

Questo è l'approccio corretto per affrontare la problematica a giudizio, dovendosi ancora rimarcare - perché su tali principi si baseranno le argomentazioni che più oltre verranno sviluppate nel caso concreto - che in tema di rapporto di causalità, l'individuazione della cosiddetta legge scientifica di copertura sul collegamento tra la condotta e l'evento, presuppone una documentata analisi della letteratura scientifica universale in materia, con l'ausilio di esperti qualificati ed indipendenti (Sez. 4, 18933/2014), e che in tema di prova scientifica del nesso causale, mentre ai fini dell'assoluzione dell'imputato è sufficiente il solo dubbio, in seno alla comunità scientifica, sul rapporto di causalità tra la condotta e l'evento, la condanna deve fondarsi su un sapere scientifico largamente accreditato tra gli studiosi, richiedendosi che la colpevolezza dell'imputato sia provata "al di là di ogni ragionevole dubbio" (Sez. 4, 55005/2017).

L'affermazione del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche ascrivibili ai datori di lavoro e l'evento-morte, dovuto a mesotelioma pleurico, di un lavoratore reiteratamente esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa all'amianto, sostanza obiettivamente nociva, è condizionata allora all'esito dei seguenti accertamenti: a) se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide ed obiettive basi, una legge scientifica in ordine all'effetto acceleratore della protrazione all'esposizione dopo l'iniziazione del processo carcinogenetico; b) in caso affermativo, se si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico; c) nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, se l'effetto acceleratore si sia determinato, nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali; d) infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all'iniziazione e che hanno avuto durata inferiore all'arco di tempo compreso tra inizio dell'attività dannosa e l'iniziazione della stessa, se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all'innesco del processo carcinogenetico (Sez. 4, 46392/2018).

In tema di infortuni sul lavoro, in presenza di patologie neoplastiche multifattoriali, la sussistenza del nesso causale non può essere esclusa sulla sola base di un ragionamento astratto di tipo deduttivo, che si limiti a prendere atto della ricorrenza di un elemento causale alternativo di innesco della malattia, dovendosi procedere ad una puntuale verifica - da effettuarsi in concreto ed in relazione alle peculiarità della singola vicenda - in ordine all'efficienza determinante dell'esposizione dei lavoratori a specifici fattori di rischio nel contesto lavorativo nella produzione dell'evento fatale (Sez. 4, 12175/2017).

Con specifico riferimento al giudizio in tema di malattie asbesto-correlate, giova puntualizzare che il solo serio dubbio, in seno alla comunità scientifica, attinente ad un meccanismo causale rispetto all'evento è motivo più che sufficiente per assolvere l'imputato. Viceversa, poiché la condanna richiede che la colpevolezza dell'imputato sia provata al di là di ogni ragionevole dubbio, il ragionamento sulla prova deve trovare il proprio aggancio e la propria motivazione in un sapere scientifico largamente accreditato tra gli studiosi. La generalizzazione scientifica, in altri termini, porterà alla condanna oltre ogni ragionevole dubbio, solo quando sia ampiamente condivisa dalla comunità degli esperti (Sez. 4, 55005/2017).

In tema di tutela dei lavoratori dei rischi connessi ad esposizione ad amianto, il datore di lavoro risponde del delitto di omicidio colposo nel caso di morte del lavoratore conseguita a malattia connessa a tale esposizione quando, pur avendo rispettato le norme preventive vigenti all'epoca dell'esecuzione dell'attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così all'obbligo di garantire la salubrità dell'ambiente di lavoro (Sez. 4, 5117/2008).

In tema di omicidio colposo in danno di lavoratori esposti ad amianto, non è sufficiente per ritenere sussistente il nesso di causalità affermare che l'esposizione a polveri di amianto viene indicata da leggi scientifiche universali e probabilistiche come causa dell'asbestosi, del tumore polmonare, del mesotelioma pleurico e delle placche pleuriche, essendo, invece necessario accertare che la malattia che ha afflitto il singolo lavoratore sia insorta, si sia aggravata o si sia manifestata in un più breve periodo di latenza per effetto dell'esposizione a rischio, così come verificata (nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di assoluzione di un dirigente di un'azienda per non essere stato provato il nesso di causalità tra la sua condotta, omissiva delle misure a tutela dei lavoratori esposti ad amianto, e l'evento morte di un operaio, avendo il predetto dirigente assunto la posizione di garanzia per appena sei mesi ed in un periodo in cui vi era anche stata contrazione dell'orario di lavoro, rispetto alla durata complessiva dell'esposizione alle polveri di amianto del lavoratore deceduto) (Sez. 4, 30206/2013).

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, nell'ipotesi di noleggio "a caldo" di macchinari anche il noleggiatore risponde delle conseguenze dannose derivanti dall'inosservanza delle norme antinfortunistiche relative all'utilizzo del macchinario noleggiato (in applicazione del suddetto principio la S.C. ha ritenuto configurabile la concorrente responsabilità dell'imputato, titolare dell'impresa, che, a conoscenza dei lavori da eseguire, aveva noleggiato un mezzo inadeguato) (Sez. 4, 38071/2016).

L'appaltatore di lavori, in base al principio del "neminem laedere", deve osservare tutte le cautele necessarie per evitare danni alle persone, non soltanto nel periodo di esecuzione delle opere appaltate, ma anche nella fase successiva, permanendo l'obbligo di non lasciare senza custodia le situazioni di grave pericolo che gli siano note (Sez. 4, 24692/2016).

La relazione causale tra la violazione delle prescrizioni dirette a garantire la sicurezza degli ambienti di lavoro e gli infortuni che concretizzano i fattori di rischio avuti di mira dalle prescrizioni violate sussiste indipendentemente dall'attualità della prestazione lavorativa, e quindi anche nei momenti di pausa, riposo o sospensione dell'attività (Sez. 4, 42501/2013).

La figura del RSPP (responsabile del servizio di prevenzione e protezione) si caratterizza per lo svolgimento, all'interno della struttura aziendale, di un ruolo non gestionale ma di consulenza, cui si ricollega un obbligo giuridico di adempiere diligentemente l'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all'occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri (SU, 38343/2014). Si deve convenire con il ricorrente che la condotta cautelare richiesta dal legislatore al RSPP trova il proprio contenuto essenziale in un processo intellettivo (individuazione e valutazione dei rischi) cronologicamente antecedente le fasi operative/esecutive che attengono alle decisioni ed al controllo sullo svolgimento dell'attività lavorativa, che competono, invece, ad altre figure prevenzionistiche (tipicamente al datore di lavoro, ma anche al dirigente e al preposto). E' pacifico, insomma, che il RSPP non è destinatario di poteri decisionali, né operativi, né di doveri di vigilanza sulla corretta applicazione delle modalità di lavoro (Sez. 4, 24958/2017, in cui si è precisato che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione svolge un ruolo di consulente in materia antinfortunistica del datore di lavoro ed è privo di effettivo potere decisionale) (Sez. 4, 49761/2019).

…Circolazione stradale

Il principio di affidamento costituisce applicazione del principio del rischio consentito: dover continuamente tener conto delle altrui possibili violazioni della diligenza imposta avrebbe come risultato di paralizzare ogni azione, i cui effetti dipendano anche dal comportamento altrui. Al contrario, l'affidamento è in linea con la diffusa divisione e specializzazione dei compiti ed assicura il migliore adempimento delle prestazioni a ciascuno richieste. Nell'ambito della circolazione stradale tale principio è sotteso ad assicurare la regolarità della circolazione, evitando l'effetto paralizzante di dover agire prospettandosi tutte le altrui possibili trascuratezze. Il principio di affidamento, d'altra parte, sarebbe da connettere pure al carattere personale e rimproverabile della responsabilità colposa, circoscrivendo entro limiti plausibili ed umanamente esigibili l'obbligo di rapportarsi alle altrui condotte. Pertanto, esso è stato efficacemente definito come una vera e propria pietra angolare della tipicità colposa.

Pacificamente, la possibilità di fare affidamento sull'altrui diligenza viene meno quando l'agente è gravato da un obbligo di controllo o sorveglianza nei confronti di terzi; o, quando, in relazione a particolari contingenze concrete, sia possibile prevedere che altri non si atterrà alle regole cautelari che disciplinano la sua attività. Un'analisi della costante giurisprudenza di legittimità in materia consente di individuarvi una tendenza, in ambito stradale, a escludere o limitare al massimo la possibilità di fare affidamento sull'altrui correttezza. In tal senso vanno lette, ad esempio, le pronunce in cui si è affermato che, poiché le norme sulla circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza, proprio per fare fronte a situazioni di pericolo, anche quando siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili, la fiducia di un conducente nel fatto che altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal riposta, costituisce di per sé condotta negligente.

Coerentemente con tale assunto, è stata perciò, ad esempio, confermata l'affermazione di responsabilità in un caso in cui la ricorrente aveva dedotto che, giunta con l'auto in prossimità dell'incrocio a velocità moderata e, comunque, nei limiti della norma e della segnaletica, aveva confidato che l'autista del mezzo che sopraggiungeva arrestasse la sua corsa in ossequio all'obbligo di concedere la precedenza.

E, ancora, sulle medesime basi si è affermato, che anche nelle ipotesi in cui il semaforo verde consente la marcia, l'automobilista deve accertarsi della eventuale presenza, anche colpevole, di pedoni che si attardino nell'attraversamento in quanto il conducente favorito dal diritto di precedenza deve comunque non abusarne, non trattandosi di un diritto assoluto e tale da consentire una condotta di guida negligente e pericolosa per gli altri utenti della strada, anche se eventualmente in colpa; e che l'obbligo di calcolare le altrui condotte inappropriate deve giungere sino a prevedere che il veicolo che procede in senso contrario possa improvvisamente abbagliare, e che quindi occorre procedere alla strettissima destra in modo da essere in grado, se necessario, di fermarsi immediatamente.

Si tratta, allora, di comprendere se l'atteggiamento rigorista abbia una giustificazione o debba essere invece temperato con l'introduzione, entro limiti ben definiti, del principio di affidamento. Senza dubbio quello della circolazione stradale è un contesto meno definito di quello del lavoro in equipe (con riferimento alla colpa professionale dei medici), ove il principio in parola trova pacifica applicazione. Si configura, infatti, un'impersonale, intensa interazione che mostra frequenti violazioni delle regole di prudenza. D'altra parte, il CDS presenta norme che sembrano estendere al massimo l'obbligo di attenzione e prudenza, sino a comprendere il dovere di prospettarsi le altrui condotte irregolari.

Tra questi vanno ricordati: 1. l'art. 141, che impone di regolare la velocità in relazione a tutte le condizioni rilevanti, in modo che sia evitato ogni pericolo per la sicurezza; e di mantenere condizioni di controllo del veicolo idonee a fronteggiare ogni "ostacolo prevedibile"; 2. l'art. 145, che pone la regola della "massima prudenza" nell'impegnare un incrocio; 3. l'art. 191, che prescrive la massima prudenza nei confronti dei pedoni, sia che si trovino sugli appositi attraversamenti, sia che abbiano comunque già iniziato l'attraversamento della carreggiata. Tali norme tratteggiano obblighi di vasta portata, che riguardano anche la gestione del rischio connesso alle altrui condotte imprudenti. D'altra parte, le condotte imprudenti nell'ambito della circolazione stradale sono tanto frequenti che esse costituiscono un rischio tipico, prevedibile, da governare nei limiti del possibile.

Costituisce, tuttavia, ius receptum, sin dalla giurisprudenza più risalente nel tempo, il principio che nell'ambito della circolazione stradale che qui interessa, si debba tenere conto degli elementi di spazio e di tempo, e di valutare se l'agente abbia avuto qualche possibilità di evitare il sinistro: la prevedibilità ed evitabilità vanno cioè valutate in concreto. L'esigenza della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento si pone in primo luogo e senza incertezze nella colpa generica, poiché in tale ambito la prevedibilità dell'evento ha un rilievo decisivo nella stessa individuazione della norma cautelare violata; ma anche nell'ambito della colpa specifica la prevedibilità vale non solo a definire in astratto la conformazione del rischio cautelato dalla norma, ma rileva pure in relazione al profilo squisitamente soggettivo, al rimprovero personale, imponendo un'indagine rapportata alle diverse classi di agenti modello ed a tutte le specifiche contingenze del caso concreto.

Certamente tale spazio valutativo è pressoché nullo nell'ambito delle norme rigide la cui inosservanza da luogo quasi automaticamente alla colpa; ma nell'ambito di norme elastiche che indicano un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, vi è spazio per il cauto apprezzamento in ordine alla concreta prevedibilità ed evitabilità dell'esito antigiuridico da parte dell'agente modello. Non può essere escluso del tutto che contingenze particolari possano rendere la condotta inosservante non soggettivamente rimproverabile a causa, ad esempio, della imprevedibilità della condotta di guida dell'altro soggetto coinvolto nel sinistro.

Tuttavia, tale ponderazione non può essere meramente ipotetica, congetturale, ma deve di necessità fondarsi su emergenze concrete e risolutive, onde evitare che l'apprezzamento in ordine alla colpa sia tutto affidato all'imponderabile soggettivismo del giudice. L'esigenza di una indagine concreta, si è pure affermato dalla giurisprudenza da ultimo indicata, non viene meno neppure quando, come nella circolazione stradale, la condotta inosservante di altri soggetti non costituisce in sé una contingenza imprevedibile, si è chiarito che lo spazio per l'apprezzamento che giunga a ritenere imprevedibile la condotta di guida inosservante dell'altro conducente è ristretto e va percorso con particolare cautela. Ciò nonostante, l'esigenza di preservare la già evocata dimensione soggettiva della colpa (id est la concreta rimproverabilità della condotta) fa sì che le particolarità del caso concreto possono dar corpo ad una condotta realmente imprevedibile.

Alla prima ampia configurazione della responsabilità la giurisprudenza ha dunque costantemente apposto il limite della imprevedibilità, che talvolta si è richiesto essere assoluta. In altra più recente pronuncia, in senso maggiormente condivisibile, si è ritenuto che le imprudenze altrui fossero ragionevolmente prevedibili. Va dunque riaffermato il principio che l'obbligo di moderare adeguatamente la velocità in relazione alle caratteristiche del veicolo e alle condizioni ambientali deve essere inteso nel senso che il conducente deve essere non solo sempre in grado di padroneggiare assolutamente il veicolo in ogni evenienza, ma deve anche prevedere le eventuali imprudenze altrui e tale obbligo trova il suo limite naturale unicamente nella ragionevole prevedibilità degli eventi, oltre il quale non è consentito parlare di colpa.

Se questi sono i principi giuridici di riferimento, va allora osservato come, nella situazione di fatto di un rettilineo sgombro e con piena visibilità, appaia adeguatamente supportato il giudizio di "ragionevole prevedibilità" della condotta della vittima ed è, proprio in riferimento al contesto in cui è avvenuto il fatto che si rileva una plausibilità della motivazione della sentenza impugnata. Le norme che presiedono il comportamento del conducente del veicolo, oltre a quelle generiche di prudenza, cautela ed attenzione, sono principalmente quelle rinvenibili nell'art. 140 CDS, che pone, quale principio generale informatore della circolazione, l'obbligo di comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione ed in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale, e negli articoli seguenti, laddove si sviluppano, puntualizzano e circoscrivono le specifiche regole di condotta.

Tra queste ultime, di rilievo, con riguardo al comportamento da tenere nei confronti dei pedoni, sono condivisibilmente quelle dettagliate nell'art. 191 CDS, che trovano il loro pendant nel precedente art. 190, che, a sua volta, dettaglia le regole comportarne tali cautelari e prudenziali che deve rispettare il pedone. In questa prospettiva, correttamente il giudice lombardo ha ritenuto che la regola prudenziale e cautelare fondamentale che deve presiedere al comportamento del conducente, vada sintetizzata nell'obbligo di attenzione che questi deve tenere al fine di "avvistare" il pedone sì da potere porre in essere efficacemente gli opportuni (rectius i necessari) accorgimenti atti a prevenire il rischio di un investimento.

Il dovere di attenzione del conducente teso all'avvistamento del pedone trova il suo parametro di riferimento (oltre che nelle regole di comune e generale prudenza) nel richiamato principio generale di cautela che informa la circolazione stradale e si sostanzia, essenzialmente, in tre obblighi comportamentali: 1. quello di prestare attenzione alla strada dove si procede o che si sta per impegnare; 2. quello di mantenere un costante controllo del veicolo in rapporto alle condizioni della strada e del traffico; 3. quello, infine, di prevedere tutte quelle situazioni che la comune esperienza comprende, in modo da non costituire intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada ed in particolare per i pedoni.

Si tratta di obblighi comportamentali posti a carico del conducente anche per la prevenzione di eventuali comportamenti irregolari dello stesso pedone, vuoi genericamente imprudenti (tipico il caso del pedone che si attarda nell'attraversamento, quando il semaforo, divenuto verde, ormai consente la marcia degli automobilisti), vuoi violativi degli obblighi comportamentali specifici, dettati dall'art. 190 CDS (tipico, quello dell'attraversamento della carreggiata al di fuori degli appositi attraversamenti pedonali o in quello altrettanto tipico, dell'attraversamento stradale passando anteriormente agli autobus, filoveicoli e tram in sosta alle fermate) (Sez. 4, 10062/2019).

Il principio di affidamento, in tema di circolazione stradale, trova un temperamento, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, nell'opposto principio secondo il quale l'utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite della prevedibilità (Sez. 4, 27513/2017, relativa ad un caso in cui la Corte ha confermato la sentenza impugnata ritenendo la responsabilità dell'imputato che, alla guida della propria vettura, aveva effettuato un repentino cambio dalla corsia di sorpasso a quella di destra senza segnalare per tempo la sua intenzione, andando così a collidere con un motociclo che sopraggiungendo dietro di lui aveva tentato, imprudentemente, di sorpassarlo a destra) (Sez. 4, 10062/2019).

Il conducente che noti sul percorso la presenza di pedoni che tardano a scansarsi, deve rallentare la velocità e, occorrendo, anche fermarsi; e ciò allo scopo di prevenire inavvertenze e indecisioni pericolose dei pedoni stessi che si presentino ragionevolmente prevedibili e probabili, in quanto la circostanza che i pedoni attraversino la strada improvvisamente o si attardino nell'attraversare costituisce un rischio tipico e quindi prevedibile della circolazione stradale (Sez. 4, 10062/2019).

Il conducente del veicolo va esente da responsabilità per l'investimento di un pedone quando la condotta della vittima configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista né prevedibile, da sola sufficiente a produrre l'evento, circostanza questa configurabile ove il conducente medesimo, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, si sia trovato nell'oggettiva impossibilità di notare il pedone e di osservarne tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido, inatteso ed imprevedibile (Sez. 4, 10062/2019).

In tema di distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente e con riferimento ad eventi lesivi connessi alla circolazione stradale, occorre rifuggire dalla tendenza a ricondurre nel fuoco del dolo ogni comportamento improntato a grave azzardo, quasi che la distinzione tra dolo e colpa fosse basata su un dato "quantitativo" correlato alla maggiore o minore sconsideratezza alla guida (nel senso che alla maggiore sconsideratezza corrisponderebbe un maggiore tasso di rappresentazione e volizione), dovendo invece detta distinzione basarsi essenzialmente su un accurato esame delle specificità del caso concreto, attraverso il quale pervenire al dato differenziale di fondo, ossia l'attribuibilità o meno al soggetto attivo di un atteggiamento di volizione dell'evento lesivo o mortale, inteso (tale atteggiamento) in senso ampio, ossia comprensivo dell'accettazione consapevole della concreta eventualità del verificarsi di quell'evento in conseguenza della condotta posta in essere (nella specie, in applicazione di tali principi, la Corte ha escluso che potesse sanzionarsi a titolo di dolo eventuale anziché di colpa cosciente la condotta di un soggetto che, avendo imboccato contromano e ad alta velocità, in ora notturna, una strada buia, così esponendosi a gravi pericoli anche per la propria incolumità, aveva investito un pedone, cagionandone la morte) (Sez. 4, 14663/2018).

 

…Altre ipotesi

In tema di omicidio colposo, rispondono della morte per annegamento di un minore sia l'educatrice addetta all'accompagnamento dello stesso, la quale, in violazione del dovere di costante vigilanza, si sia allontanata dalla piscina per attendere momentaneamente alle esigenze di altro minore facente parte del gruppo affidatole, omettendo la cautela di farlo uscire dall'acqua, sia l'assistente bagnanti dell'impianto sportivo, che, con inosservanza di doverose regole di accortezza comportamentale, non si sia posizionata adeguatamente per tenere sotto controllo tutta l'area sottoposta alla sua vigilanza, non accorgendosi, pertanto, del malore della vittima (Sez. 4, 24165/2013).

Risponde dei reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose il funzionario della polizia di Stato che, nonostante la pericolosità del richiedente, evidenziata da numerosi atti del commissariato da lui diretto, abbia rilasciato la licenza di porto d'armi ad un soggetto resosi successivamente autore di una sparatoria che abbia provocato la morte di due persone e il ferimento di altre quattro (Sez. 4, 34748/2010).

I soci e gli amministratori di una ditta di autotrasporti rispondono di omicidio colposo qualora il conducente di uno degli autocarri di proprietà della ditta provochi un incidente mortale determinato dalla stanchezza, perché non sono stati rispettati i tempi massimi di guida dei conducenti loro sottoposti, creando così condizioni tali da rendere "prevedibile" il verificarsi di incidenti, determinati da colpi di sonno o da inefficienza fisica del conducente (nella specie, l'autotrasportatore si era fermato a fari spenti sulla corsia di sorpasso, a causa di un colpo di sonno, dovuto a serrati turni di lavoro, cagionando la morte del conducente di un'autovettura che sopraggiungeva) (Sez. 4, 21810/2010).

Risponde di omicidio colposo, il capo cantoniere dell'ANAS, addetto alla sorveglianza di un tratto di strada statale, che, in violazione dei compiti previsti dall'art. 8 DPR 1126/1981, ometta di provvedere in relazione alla presenza di un albero posto a meno di sei metri dal confine stradale, cagionando così la morte di un automobilista, che fuoriuscito dalla sede stradale andava ad impattare contro il suddetto ostacolo fisso (Sez. 4, 17601/2010).

 

Omicidio colposo plurimo

In tema di omicidio colposo, la fattispecie disciplinata dall'art. 589 ultimo comma (morte di più persone, ovvero morte di una o più persone e lesioni di una o più persone) non costituisce un'autonoma figura di reato complesso, né dà luogo alla previsione di circostanza aggravante rispetto al reato previsto dall'art. 589, comma primo, ma prevede un'ipotesi di concorso formale di reati, unificati solo "quoad poenam", con la conseguenza che ogni fattispecie di reato conserva la propria autonomia e distinzione (Sez. 4, 20340/2017).

 

Rapporto con la fattispecie di omicidio stradale

Si rinvia alla giurisprudenza riportata in riferimento al reato di cui all'art. 589-bis.