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Art. 384 - Casi di non punibilità

1. Nei casi previsti dagli articoli 361, 362, 363, 364, 365, 366, 369, 371-bis, 371-ter, 372, 373, 374 e 378, non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore (1).

2. Nei casi previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373, la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunto come testimonio, perito, consulente tecnico o interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione (2)(3).

(1) Comma così modificato dall’art. 22, L. 397/2000.

(2) La Corte costituzionale, con sentenza 75/2009, ha dichiarato l’illegittimità del presente comma, nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, fornite da chi non avrebbe potuto essere obbligato a renderle o comunque a rispondere in quanto persona indagata per reato probatoriamente collegato – a norma del comma 2, lettera b), dell’art. 371, codice di procedura penale – a quello, commesso da altri, cui le dichiarazioni stesse si riferiscono.

(3) Articolo così sostituito dall’art. 11, comma settimo, DL 306/1992 convertito in L. 356/1992. Successivamente il secondo comma è stato modificato dall’art. 22, L. 397/2000 e dall’art. 21, L. 63/2001.

Rassegna di giurisprudenza

Elementi strutturali

L’art. 384, primo comma, in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore (SU, 10381/2021, in risposta all'ordinanza di rimessione di Sez. 6, 1825/2020).

L’esimente configurata dall’art. 384, che va qualificata come causa di esclusione della colpevolezza e non già dell’antigiuridicità della condotta, in quanto connessa alla particolare situazione soggettiva in cui viene a trovarsi l’agente, che rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate al comma primo dello stesso art. 384 opera anche in favore del convivente “more uxorio” (Sez. 6, 57032/2018).

Secondo un primo e più risalente orientamento di legittimità, la causa esimente ex art. 384 è definita con i caratteri propri dello stato di necessità. Requisito implicito della fattispecie scriminante è che la situazione di pericolo personale o familiare dell’autore di uno dei reati da esso richiamati non sia stata dallo stesso “volontariamente causata” (Sez. 6, 10654/2009). Un più recente orientamento ritiene, invece, che l’art. 384 primo comma, integri una semplice causa di esclusione della colpevolezza basata sul principio di inesigibilità di contegni giuridici auto-lesivi; la scriminante diviene, quindi, applicabile anche quando la situazione di pericolo per l’autore del reato per la libertà e l’onore, suoi o di un suo congiunto, sia stata da lui volontariamente prodotta (Sez. 6, 37398/2011). In caso di frode processuale, quindi, l’esimente di cui all’art. 384 è invocabile dal soggetto che abbia commesso l’immutazione allo scopo di eludere le investigazioni e di evitare un procedimento penale, in virtù del principio non esplicito, ma immanente al sistema, “nemo tenetur se detegere”. Tale causa di non punibilità è applicabile anche quando lo stato di pericolo – per la libertà o per l’onore – sia stato cagionato volontariamente dall’agente. Si ritiene di aderire a questo secondo orientamento posto che, come è stato osservato “se la nozione di libertà tutelabile assunta dall’art. 384, comma 1, quale elemento discriminante la responsabilità penale del favoreggiatore deve essere recepita nella sua più lata interpretazione, includente ogni forma di manifestazione della libertà individuale, come sembra potersi desumere dalla lettera della legge (art. 384) che non introduce alcuna particolare specificazione o selettività della categoria concettuale (libertà nella pienezza della sua accezione), non sembra del pari dubitabile che  quando tale libertà personale che il soggetto agente tutela, compiendo un favoreggiamento personale a beneficio di un terzo, sia rappresentata dall’esigenza di evitare una accusa penale, cioè un procedimento penale o soltanto delle indagini penali nei propri confronti  l’interesse di libertà che egli persegue si immedesima, senza soluzione di continuità temporale e ideativa, nell’esercizio dell’inviolabile diritto di difesa. Diritto e valore di rango costituzionale (art. 24, secondo comma Cost.), al pari di quello incarnato dalla non fuorviata e “giusta” amministrazione della giustizia (artt. 111, 112 Cost.)”  (Sez. 6, 15327/2019).

Quanto al rapporto di derivazione del fatto commesso dalla esigenza di tutela di detti beni, mette conto evidenziare che l’esimente prevista dall’art. 384, comma primo, non può essere invocata sulla base del mero timore, anche solo presunto o ipotetico, di un danno alla libertà o all’onore, implicando essa un rapporto di derivazione del fatto commesso dalla esigenza di tutela di detti beni che va rilevato sulla base di un criterio di immediata ed inderogabile consequenzialità e non di semplice supposizione (Sez. 6, 19110/2015).

Ai fini dell’integrazione dell’esimente di cui all’art.384, comma 1, (necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore) è necessario che il pericolo non sia genericamente temuto, ma sia collegato a circostanze obiettive, attuali e concrete che ne delimitino con precisione contenuto ed effetti (Sez. 6, 8638/1999). Comunemente l’esimente prevista dalla citata disposizione viene presentata come diretta emanazione del principio del nemo tenetur se detegere. Affermazione che può essere accolta solo se tale principio viene evocato in senso ampio e generico  riferendolo cioè a comportamenti comunque pregiudizievoli per l’agente  e non in quello proprio del divieto di coazione dell’imputato o del potenziale imputato a rendere dichiarazioni autoaccusatorie, atteso che alla disposizione menzionata sono riconducibili anche condotte che non costituiscono esercizio del diritto di difesa, come ad esempio condotte materiali integranti gli estremi della frode processuale o del favoreggiamento personale. In realtà i limiti di operatività dell’esimente, per come emergono inequivocabilmente dal testo della previsione normativa, consentono di identificare la ratio che la ispira. Infatti, essendo richiesto che la situazione di necessità riguardi l’agente (o un suo prossimo congiunto) e che questi realizzi personalmente la condotta necessitata, deve ritenersi imposta un’interpretazione in chiave soggettiva del termine “costretto”, evocativo di un condizionamento della volontà del soggetto. Alla base della non punibilità dell’agente, del resto, non può ritenersi, sussista quel bilanciamento di interessi in conflitto che caratterizza la ratio delle scriminanti, attesa la profonda eterogeneità e conseguente incomparabilità tra il bene individuale della libertà o dell’onore e quello collettivo dell’amministrazione della giustizia. Ed in tal senso è significativo che l’art. 384 non richieda il requisito della proporzione, né è possibile mutuarlo dall’art. 54 (come pure si è prospettato in passato) ricostruendo la fattispecie esimente in questione come una sorta di ipotesi speciale dello stato di necessità, ricorrendo in definitiva all’analogia in malam partem. Anzi, la previsione in esame dimostra che, in via normale, il legislatore considera l’interesse pubblico di giustizia prevalente rispetto ad interessi privati, offrendo una pietra di paragone per il giudizio sopra i medesimi. Deve dunque ritenersi che l’art. 384 comma 1 non designi affatto una preferenza per l’interesse individuale a scapito di quello pubblico, ma, più riduttivamente, uno spazio di impunità dipendente dalla irragionevolezza della pretesta di un comportamento conforme alle aspettative. In altri termini esso tipicizza una situazione di alterazione del normale processo motivazionale del soggetto, spinto ad agire per lo scopo di salvamento indicato dalla norma. L’esimente configurata dalla disposizione in oggetto deve pertanto essere correttamente qualificata come una causa di esclusione della colpevolezza e non già dell’antigiuridicità della condotta, apparendo evidente la scelta del legislatore di attribuire rilevanza, nei confini segnati dalla previsione normativa, alla particolare situazione soggettiva in cui si è venuto a trovare l’agente, che rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate nel citato comma primo dell’art. 384, pur non escludendo il disvalore oggettivo del fatto tipico realizzato. Conseguentemente deve escludersi che l’esimente in questione si estenda ai concorrenti nel reato materialmente commesso dal soggetto non punibile, in quanto la stessa, attesa la sua natura soggettiva, ha carattere strettamente personale. Né ha pregio l’ulteriore pretesa di vedere comunque riconosciuta l’esimente in maniera autonoma ai concorrenti nel reato  a prescindere cioè dalla sua comunicabilità o meno agli stessi  in quanto i medesimi avrebbero agito sulla base della medesima necessità di sottrarsi al pericolo di un nocumento per la propria libertà. Come già accennato, infatti, l’art. 384 comma 1 è applicabile soltanto a chi compie materialmente l’azione tipica, come dimostra il tenore testuale della disposizione, la quale, in maniera armonica con lo stesso fondamento dell’esimente, identifica il destinatario dell’esenzione esclusivamente in colui che abbia commesso il fatto perché “costretto” dalla necessità di scongiurare un nocumento grave e inevitabile nella libertà e nell’onore e non già indiscriminatamente in chi abbia la generica esigenza di salvare sé medesimo da una probabile incolpazione. E nel caso della falsa testimonianza non vi è dubbio che la situazione di costrizione insorga soltanto nei confronti di colui che è chiamato a deporre con l’obbligo di rispondere e dire la verità, venendo posto di fronte all’alternativa di assolvere tale obbligo autoincriminandosi ovvero di mentire per salvarsi (Sez. 5, 18110/2018).

Casistica

L’esimente di cui all’art. 384, comma 1, deve ritenersi applicabile anche quando lo stato di pericolo sia stato cagionato volontariamente dall’agente e segnatamente nell’ipotesi in cui abbia commesso uno degli illeciti penali elencati nel primo comma dell’art. 384 per eludere le investigazioni relative ad un reato precedentemente da lui commesso (Sez. 5, 9806/2021).

Sulla scorta di un’interpretazione valoriale, non in contrasto con la Costituzione, si deve ritenere che l’istituto di cui all’art. 384 comma primo sia applicabile anche ai rapporti di convivenza “more uxorio”, pur dopo la cd. legge Cirinnà (Sez. 6, 11476/2019).

La causa di non punibilità di cui all'art. 384, primo comma, è applicabile anche quando lo stato di pericolo - per la libertà o per l'onore - sia stato cagionato volontariamente dall'agente (Sez. 6, 34543/2019).

In tema di favoreggiamento personale, la causa di esclusione della punibilità prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento alla libertà personale o all’onore opera anche nelle ipotesi in cui il soggetto abbia agito per evitare un’accusa penale a carico del congiunto (Sez. 3, 45444/2014).

La causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma primo, opera in favore del coniuge e del convivente “more uxorio” (Sez. 2, 34147/2015).

La questione concernente l’applicazione di una causa di non punibilità deve ritenersi rilevabile d’ufficio, ex art. 129 CPP, se risultante dagli atti del processo (SU, 13681/2016). La questione rilevabile d’ufficio, inoltre, deve essere esaminata dal giudice che procede nell’esercizio dei poteri che gli sono propri, e, quindi, se emersa nel giudizio di appello, con pieno accesso ai profili di merito (Sez. 6, 52200/2018).

Deve escludersi la punibilità della falsa testimonianza, a norma dell’art. 384, secondo comma, ove ricorra l’interesse che rende una persona incapace a deporre a norma dell’art. 246 CPC, ossia l’interesse giuridico personale, concreto e attuale a proporre una domanda e a contraddire, sia sotto l’aspetto di una legittimazione primaria, sia sotto quello di una legittimazione secondaria, mediante intervento adesivo dipendente (Sez. 6, 49542/2014).

In caso di frode processuale, l’esimente di cui all’art. 384 è invocabile dal soggetto che abbia commesso l’immutazione allo scopo di eludere le investigazioni e di evitare un procedimento penale, in virtù del principio non esplicito, ma immanente al sistema, “nemo tenetur se detegere”. Tale causa di non punibilità è applicabile anche quando lo stato di pericolo  per la libertà o per l’onore  sia stato cagionato volontariamente dall’agente (Sez. 6, 15327/2019).

Il soggetto chiamato a deporre in qualità di parte offesa o di persona informata sui fatti di un reato non può violare l’obbligo su di lui gravante di riferire quanto a sua conoscenza, salvo che non espliciti, in maniera inequivocabile, seppur non espressamente, di essere oggetto, direttamente o indirettamente attraverso un prossimo congiunto, di attuale minaccia o violenza ovvero dell’avvio di un procedimento penale a suo carico. In altri termini, colui che realizzi un contegno di favoreggiamento personale è immune da responsabilità penale per effetto della generale causa di “non punibilità” prevista per la maggior parte dei reati contro l’attività giudiziaria dall’art. 384, comma l, allorché a tale contegno illecito in concreto attuato (la norma prevede la “commissione del fatto” di favoreggiamento) l’agente sia stato indotto (“costretto”) dalla “necessità” di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da “un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”. La fattispecie che in tal modo scrimina la condotta criminosa del favoreggiatore presuppone, quindi, che all’oggettivo aiuto elusivo delle indagini prestato all’autore di un commesso reato si coniughi un omologo aiuto del favoreggiatore a sé medesimo rispetto ad indagini penali, reali o potenziali, che possano investire la sua stessa persona o quella di un suo familiare, purché ricorrano le ridette esigenze di autotutela, personali o di un prossimo congiunto, rispetto ad un prevedibile e inevitabile pregiudizio nella libertà o nell’onore. Si è a questo proposito osservato che «se la nozione di libertà tutelabile assunta dall’art. 384, comma l, quale elemento discriminante la responsabilità penale del favoreggiatore deve essere recepita nella sua più lata interpretazione, includente ogni forma di manifestazione della libertà individuale, come sembra potersi desumere dalla lettera della legge (art. 384) che non introduce alcuna particolare specificazione o selettività della categoria concettuale (libertà nella pienezza della sua accezione), non sembra del pari dubitabile che -quando tale libertà personale che il soggetto agente tutela, compiendo un favoreggiamento personale a beneficio di un terzo, sia rappresentata dall’esigenza di evitare una accusa penale, cioè un procedimento penale o soltanto delle indagini penali nei propri confronti- l’interesse di libertà che egli persegue si immedesima, senza soluzione di continuità temporale e ideativa, nell’esercizio dell’inviolabile diritto di difesa. Diritto e valore di rango costituzionale (art. 24, secondo comma Cost.), al pari di quello incarnato dalla non fuorviata e “giusta” amministrazione della giustizia (artt. 111, 112 Cost.). Se, dunque, il diritto di difesa costituisce il paradigma di apprezzamento del bene della libertà individuale che il favoreggiatore salvaguarda con la propria condotta antigiuridica, è di tutta evidenza che sia irrilevante che lo stato di necessità, dotato di efficacia scriminante ex art. 384, sia ricollegabile a un fatto accidentale, un fatto altrui o anche un fatto proprio e volontario del soggetto agente che realizzi una condotta di favoreggiamento personale (Sez. 6, 51773/2018).

L’art. 384, secondo comma, contempla la non punibilità dei prossimi congiunti di un imputato che avrebbero dovuto essere avvertiti della facoltà di non testimoniare e non lo siano stati e presuppone ovviamente (a differenza dell’art. 384, primo comma) che il procedimento in cui venga eventualmente resa la testimonianza si svolga nei confronti - tra gli altri - di un prossimo congiunto del potenziale testimone. Questi diviene non punibile per il solo fatto di non essere stato avvertito della facoltà di astenersi dal testimoniare, rimanendo invece punibile ove, non astenendosi, dichiari il falso (Sez. 6, 35254/2018).

In tema di falsa testimonianza, la causa di esclusione della punibilità prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore opera anche nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia reso mendaci dichiarazioni per evitare un’accusa penale nei suoi confronti, ovvero per il timore di essere licenziato e perdere il proprio posto di lavoro, a condizione che tale timore attenga ad un rapporto di derivazione del danno dal contenuto della deposizione, rilevabile sulla base di un criterio di immediata ed inderogabile consequenzialità e non di semplice supposizione (Sez. 6, 16443/2018).

Non può essere applicata l’esimente di cui all’art. 384, secondo comma, all’imputato del delitto di falsa testimonianza per dichiarazioni rese nell’ambito di un giudizio civile, in quanto in relazione a questo l’art. 249 CPC si riferisce solo alla facoltà di astensione per il segreto professionale, per il segreto d’ufficio e per il segreto di stato, e non richiama anche l’art. 199 CPP, che attiene alla facoltà di astenersi dal deporre dei prossimi congiunti dell’imputato (Sez. 6, 49542/2014).