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Art. 316 - Peculato mediante profitto dell’errore altrui (1)

1. Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

2. La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finnziari dell'Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000. (2)

(1) Articolo così sostituito dall’art. 2, L. 86/1990.

(2) Questo comma è stato aggiunto dall'art. 1, lettera a) del D. Lgs. 75/2020.

Rassegna di giurisprudenza

La fattispecie incriminatrice di cui all’art. 316  da ritenere marginale e residuale rispetto a quella del peculato sanzionato dall’art. 314  può essere configurata esclusivamente nel caso in cui l’agente profitti dell’errore in cui il soggetto passivo già spontaneamente versi, come si desume dalla dizione della norma incriminatrice che, nel prevedere la condotta del "giovandosi dell’errore altrui", postula che si tratti di un errore preesistente ed indipendente dalla condotta del soggetto attivo. In particolare, si è affermato in maniera condivisibile che l’errore che rende configurabile la meno grave ipotesi di peculato prevista dall’art 316 deve cadere sull’"an" o sul "quantum debeatur".

L’art. 316, infatti, sanziona penalmente la disonestà del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che viene meno al suo dovere di non accettare denaro o cose che gli siano consegnate per errore, o a quello di restituirle subito dopo di essersi avveduto dell’errore: in tali casi, infatti, l’agente si giova dell’errore di colui che consegna denaro, che non è in realtà tenuto a corrispondere alcunché, o è tenuto a corrispondere una somma diversa e minore rispetto a quella consegnata (Sez. 6, 4907/2019).

L’elemento materiale del peculato mediante profitto dell’altrui errore consiste nella condotta del pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio) che, nell’esercizio delle funzioni (o del servizio), riceva o trattenga ("ritiene"), per sé o per un terzo, denaro o altra utilità non dovuti, avvalendosi di uno stato di erronea percezione dei fatti del suo interlocutore.

La ricezione indebita si realizza quando il pubblico ufficiale, scientemente profittando di un errore sull’an o sul quantum debeatur, in cui sia spontaneamente caduto chi consegna il denaro o altra utilità, riceve ciò che non è dovuto; la "ritenzione" indebita si verifica quando l’agente, cui sia consegnata per errore non da lui indotto una cosa non dovuta, acquisti contezza dell’errore altrui e non rifiuti la consegna o non provveda alla sua pronta restituzione (Sez. 6, 24875/2015).

Ai fini dell’ipotesi di cui all’art. 316 l’errore dell’interlocutore del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio deve essere spontaneo e non determinato dall’inganno di costui. In vero il reato di truffa e quello punito dall’art. 316 trovano un elemento costitutivo comune nell’evenienza che il possesso della cosa oggetto di appropriazione sia conseguenza dell’errore altrui; differenziandosi quanto alla determinazione dell’errore, prodotto  in un caso (art. 640)  dal contegno dell’imputato che induca in errore, prodotto  nell’altro caso (art. 316)  da uno stato di fatto non rispondente al vero in cui già versi l’interlocutore e che l’imputato ometta di far rilevare e dal quale trae profitto (Sez. 6, 24875/2015).