x

x

Art. 322-ter - Confisca (1)

1. Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320, anche se commessi dai soggetti indicati nell’articolo 322-bis, primo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto (2).

2. Nel caso di condanna, o di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per il delitto previsto dall’articolo 321, anche se commesso ai sensi dell’articolo 322-bis, secondo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati nell’articolo 322-bis, secondo comma.

3. Nei casi di cui ai commi primo e secondo, il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato (2).

(1) Articolo aggiunto dall’art. 3, L. 300/2000.

(2) Comma così modificato dall’art. 1, comma 75, lett. o), L. 190/2012.

Rassegna di giurisprudenza

Natura dell’istituto e suoi elementi strutturali

La ratio essendi della confisca di valore o per equivalente risiede nell’impossibilità di procedere alla confisca "diretta" della cosa che presenti un nesso di derivazione qualificata con il reato.

«La trasformazione, l’alienazione o la dispersione di ciò che rappresenti il prezzo o il profitto del reato determina la conseguente necessità, per l’ordinamento, di approntare uno strumento che, in presenza di determinate categorie di fatti illeciti, faccia sì che il ‘beneficio’ che l’autore del fatto ha tratto, ove fisicamente non rintracciabile, venga ad essere concretamente sterilizzato sul piano patrimoniale, attraverso una misura ripristinatoria che incida direttamente sulle disponibilità dell’imputato, deprivandolo del tantundem sul piano monetario» (SU, 31617/2015).

La confisca per equivalente, pertanto, «viene ad assolvere una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza» (Sez. 3, 16100/2019).

La confisca di valore o per equivalente persegue la finalità di colpire il patrimonio del responsabile del reato quando non sia possibile sottoporre a confisca "diretta" il bene derivato dal reato stesso perché non più nella sua disponibilità. A fronte della commissione di determinate tipologie di illeciti penali e di operazioni svolte a "trasformazione, l’alienazione o (al)la dispersione di ciò che rappresenti il prezzo o il profitto del reato", l’ordinamento reagisce con uno strumento che sottrae il vantaggio patrimoniale conseguito, non più materialmente rintracciabile, mediante la privazione del valore corrispondente (SU, 31617/2015).

A ragione degli effetti prodotti e della "ratio" dell’istituto, orientato a prevenire la commissione degli illeciti ed a disincentivarne la vantaggiosità patrimoniale, le Sezioni unite hanno quindi aderito alla tesi della natura punitiva della confisca per equivalente, disciplinata dall’art. 322-ter, che assume così i tratti distintivi di una vera e propria sanzione, non parametrata, né sulla colpevolezza dell’autore del reato, né sulla gravità della condotta. Per rafforzare l’efficacia della misura, il legislatore ne ha stabilito l’obbligatoria imposizione secondo la testuale previsione dell’art. 322-ter, primo e secondo comma, per il quale la confisca "è sempre ordinata", anche quando l’imputato definisca il procedimento mediante sentenza di applicazione della pena su richiesta e la sua statuizione non rientri nell’accordo delle parti.

La confisca per equivalente persegue lo scopo di ripristinare la situazione economica del reo, qual era prima della violazione della legge penale, privandolo delle utilità ricavate dal crimine commesso e sottraendogli beni di valore ad esse corrispondenti senza esplicare alcuna funzione preventiva. In altri termini, come ben evidenziato nella citata pronuncia delle Sezioni unite, il prezzo o il profitto del reato costituisce soltanto il paradigma cui rapportare l’incidenza ablativa della confisca, perché il bene che vi è sottoposto non è collegato da un nesso di derivazione dal reato ed è il patrimonio del condannato a subirne l’effetto in dipendenza della condanna, così come accade per la pena principale irrogata con la sentenza che accerta la responsabilità penale ed incide sulla libertà del reo.

Se dunque sul piano testuale e sistematico deve ribadirsi a fini definitori che la misura della confisca per equivalente costituisce uno strumento ablatorio ripristinatorio dal carattere affittivo, strettamente dipendente e conseguente alla commissione del reato, che viene imposta nell’interesse collettivo e con funzione social-preventiva, nel caso specifico la stessa differisce nettamente dalla condanna al risarcimento del danno, pronunciata nel giudizio amministrativo in favore dell’ente pubblico depauperato per effetto di condotte criminose già accertate in sede penale, che persegue l’effetto di reintegrare il patrimonio del soggetto leso da tali condotte mediante l’erogazione da parte del responsabile dell’importo pecuniario necessario.

La confisca, sia diretta, che per equivalente, incide sul patrimonio dell’imputato condannato e trasferisce utilità all’Erario, mentre il risarcimento del danno rimedia la lesione patrimoniale subita dall’ente erogatore del contributo pubblico, nel cui solo interesse viene riconosciuto, attribuendogli il diritto di ricevere prestazione pecuniaria equivalente, e maggiorata di accessori, a quella ottenuta dal debitore in violazione delle norme di legge e della regolamentazione del procedimento di erogazione.

Non sussiste dunque la lamentata duplicazione di sanzioni, perché dalla celebrazione dei due procedimenti autonomi, quello penale e quello contabile, sono scaturiti effetti differenti, dei quali soltanto uno, la confisca, ha natura sostanzialmente punitiva del responsabile. Tale conclusione si pone in conformità all’orientamento interpretativo della giurisprudenza della Corte EDU, che ha esteso i principi espressi dall’art. 4 protocollo 7 della CEDU anche ai rapporti tra procedimento penale e procedimento amministrativo quando in concreto la sanzione applicata in questo secondo caso abbia natura sostanzialmente penale (Corte EDU, Grande Stevens ed altri c. Italia del 4/03/2014; Corte EDU, Grande Camera, A e B contro Norvegia, 15/11/2016).

A tal fine ha individuato tre criteri alternativi per individuare la natura penale o meno dell’accusa e della relativa sanzione, rappresentati dalla qualificazione giuridica della misura assegnata dall’ordinamento nazionale, dalla sua natura e dal suo grado di severità (Corte EDU, 8/06/1976, Engel contro Olanda; 09/01/1995, Welch contro Regno Unito; 28/11/1999, Escoubet contro Francia; 30/08/2007, Sud Fondi ed altri contro Italia).

Ebbene, raffrontata la fattispecie in esame con i parametri delineati dalla Corte sovranazionale, ne discende che il risarcimento del danno nel sistema giuridico italiano è estraneo alla categoria della sanzione penale, perché sul piano definitorio esso costituisce rimedio riparatorio previsto in favore del danneggiato, appartenente al diritto civile sostanziale ed estraneo all’ordinamento penale, che se ne occupa soltanto se lo stesso venga accessoriamente richiesto nel processo penale mediante la costituzione di parte civile, ha natura compensativa di una diminuzione patrimoniale patita in conseguenza della commissione di un illecito e colpisce la sfera patrimoniale di chi vi è soggetto, non già la libertà personale, come accade per le pene in senso proprio.

S’impongono ulteriori precisazioni. La rassegna degli orientamenti di legittimità vede affermata la reciproca autonomia del procedimento penale e di quello contabile, riconosciuta come tale in fattispecie concrete in cui uno stesso soggetto era sottoposto a processo penale ed a procedimento dinanzi alla Corte dei Conti per il risarcimento dei danni cagionati all’ente pubblico dalla condotta criminosa mediante un comportamento integrante gli estremi di un delitto contro la pubblica amministrazione, oppure di un reato fiscale.

Si è sostenuto, infatti, che nel primo caso l’azione di danno erariale può essere proposta, tanto nel processo penale mediante costituzione di parte civile, quanto in quello civile, non ravvisandosi nell’ordinamento un caso di riserva di giurisdizione in favore dell’Autorità giudiziaria amministrativa, mentre l’eventuale pluralità di pronunce di condanna per il medesimo illecito, separatamente emesse, deve essere risolta sul piano della preclusione, nel senso che, quando il danneggiato abbia conseguito in una sede giudiziaria il pieno riconoscimento del proprio diritto, non potrà ottenere altra pronuncia di condanna al risarcimento per il medesimo fatto antigiuridico mediante la proposizione o la prosecuzione sino alla decisione dell’altro giudizio.

Tanto significa che il sistema non impedisce la coesistenza di diversi procedimenti derivanti dall’esercizio di azioni di natura risarcitoria proposte per il medesimo fatto generatore di pregiudizio, ma non consente la duplicazione della misura accordata a tutela del danneggiato: l’accoglimento integrale della domanda in una procedura osta alla proposizione o alla prosecuzione dell’altra azione, per la quale è venuto meno l’interesse.

Analoghi principi, orientati ad escludere la violazione del principio "ne bis in idem" in base ai citati meccanismi, sono stati affermati in caso di condanna per reati fiscali o da omissioni di contributi previdenziali ed assistenziali, pronunciata nei confronti di soggetto sottoposto anche a procedimento per l’irrogazione di sanzione ai sensi dell’art. 116, comma 8, lett. a), della L. 388/2000, in quanto tale ultima sanzione, avendo effetti riparatori a vantaggio degli enti pubblici erogatori di prestazioni previdenziali ed assistenziali, ha natura sostanzialmente, e non solo formalmente, civilistica, rafforza la cogenza dell’obbligo contributivo, è applicabile a prescindere da qualsiasi indagine su imputabilità e colpa nell’inadempimento ed è quindi distinta da quella penale, di cui non costituisce una duplicazione.

Per quanto attiene più specificamente ai rapporti tra la confisca emessa in sede penale ed eventuali provvedimenti risarcitori, emessi in altro procedimento civile o amministrativo in favore di un ente pubblico che sia stato danneggiato dal reato e dall’illecito commesso dalla persona giuridica giudicata responsabile, la autonomia del corso dei giudizi eventualmente contestuali non si risolve anche in reciproca indifferenza dei rispettivi esiti decisori; al contrario, nel determinare l’ammontare pecuniario sino a concorrenza del quale confiscare in sede penale i beni del condannato e della persona giuridica è necessario tenere conto della già avvenuta totale o parziale restituzione o corresponsione all’ente danneggiato di eventuali somme di denaro, da scomputare dal totale del profitto del reato, che va considerato, non al momento di percezione, ma all’atto della decisione.

Siffatta soluzione riceve avvallo normativo per effetto della disposizione dell’art. 19, comma 1, DLGS 231/2001, contenente la clausola per la quale, in caso di responsabilità degli enti, la confisca deve essere disposta soltanto per quella parte del profitto del reato presupposto che non possa essere restituito al danneggiato (Sez. 1, 39874/2018).

Se è indubbio che la confisca per equivalente ha il carattere dell’obbligatorietà sia quanto all’an che rispetto al quantum, il problema sta nel definire la sua precisa natura giuridica. Invero, se sicuramente non si può parlare di misura di sicurezza patrimoniale, stante il suo carattere afflittivo, questa stessa Corte, in diverse pronunce, ha qualificato in modo difforme tale istituto. Se infatti alcune decisioni (Sez. 3, 43397/2015), non la ritengono assimilabile ad una pena accessoria, altra pronuncia (Sez. 3, 38857/2016), ritiene che essa sia propriamente una pena principale, mentre altra decisione ancora (Sez. 1, 43494/2013), la ritiene propriamente una pena accessoria.

Orbene, sicuramente, nel caso in cui vi sia stata una dichiarazione di incostituzionalità di una Legge, anche nel caso di confisca per equivalente, come nel caso di pene accessorie, la natura eminentemente sanzionatoria della confisca per equivalente impone al giudice dell’esecuzione, qualora sia stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, di revocare ai sensi dell’art. 673 CPP la sentenza irrevocabile di condanna anche nella parte relativa alla confisca, salvo che questa non abbia ancora avuto esecuzione, con restituzione dei beni all’avente diritto (in termini, Sez. 3, 38857/2016).

Pertanto, di fronte alla declaratoria di incostituzionalità della norma incriminatrice, si è rilevato che gli argomenti a favore dell’intangibilità della confisca non possono essere fatti valere anche con riferimento alla confisca per equivalente, essendo questa una misura sanzionatoria che occorre riqualificare come pena sulla scorta della concezione autonomistica della Convenzione EDU e dei "criteri" Engel. La confisca per equivalente, dunque, deve essere trattata come una pena e deve "cadere" insieme alla revoca del giudicato. Ciò con un unico limite: la confisca per equivalente non potrà essere revocata allorché sia già stata eseguita (Sez. 3, 17079/2019).

La confisca per equivalente differisce dalle pene accessorie perché persegue lo scopo di ripristinare la situazione economica del reo, qual era prima della violazione della legge penale, privandolo delle utilità ricavate dal crimine commesso e sottraendogli beni di valore ad esse corrispondenti senza esplicare alcuna funzione preventiva, diversamente da quanto accade per le pene accessorie e le misure di sicurezza, compresa la stessa confisca diretta del prezzo o profitto del reato (Sez. 6, 24156/2018).

La confisca "per equivalente" o "di valore" è azionabile, in via subordinata, ove la confisca diretta non sia attuale a causa del mancato reperimento del suo specifico oggetto. Essa ha natura sanzionatoria. La confisca per equivalente, infatti, viene ad assolvere una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza.

È evidente, infatti, che, essendo la confisca di valore parametrata al profitto od al prezzo dell’illecito solo da un punto di vista "quantitativo", l’oggetto della ablazione finisce per essere rappresentato direttamente da una porzione del patrimonio, il quale, in sé, non presenta alcun elemento di collegamento col reato; il che consente di declinare la funzione della misura in chiave marcatamente sanzionatoria.

Sul tema generale della "confisca per equivalente", in diverse pronunce di legittimità, muovendo dalla assenza di un rapporto di pertinenzialità tra cose e reato, si è affermato che il giudice è tenuto ad indicare solo l’importo complessivo del prezzo o del profitto del reato e non anche i beni da apprendere, trasponendo alla confisca di valore i principi elaborati sul diverso versante del sequestro preventivo finalizzato a quella confisca, in cui il compito di individuare i beni è rimesso al pubblico ministero nella fase di esecuzione della misura cautelare reale.

La questione  che forse meriterebbe una rimeditazione  trova, nel caso di cui all’art. 11 L. 146/2006, agevole soluzione nel testo della disposizione. Detta norma, nel suo ultimo enunciato, stabilisce che: «In tali casi, il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di danaro o individua i beni o le utilità assoggettati a confisca di valore corrispondente al prodotto, al profitto o al prezzo del reato». Il dato testuale è chiaro e insuperabile: con la sentenza di condanna il giudice  a differenza di quanto può fare con il decreto di sequestro preventivo quello della cautela reale  non può limitarsi a disporre la confisca per equivalente fissando solo il quantum, ma deve determinare le somme di denaro o individuare i beni e le utilità da apprendere.

Dunque, fermo restando che non occorre che la confisca sia preceduta da un sequestro, al giudice è tuttavia preclusa, nella fattispecie in rassegna, l’adozione di un provvedimento di confisca per equivalente "in incertas res". A diversa conclusione non può condurre né il rilievo che si tratta di confisca obbligatoria, né la circostanza che non deve risultare alcun nesso di pertinenzialità tra bene e reato. Sotto il primo profilo è agevole evidenziare che la confisca è sì obbligatoria, ma in presenza dei necessari presupposti: se, per legge, occorre individuare i beni con la sentenza, ma non risultano beni nella disponibilità dell’imputato, manca l’oggetto del provvedimento.

Sotto il secondo profilo va considerato che l’assenza di un nesso con il reato non esclude automaticamente la necessità di individuare i beni: l’espropriazione forzata concerne una porzione del patrimonio, privo di collegamento col reato ma specificamente individuato nella sua composizione, sì da far rientrare nell’oggetto dell’accertamento giurisdizionale, e quindi nel regime delle garanzie difensive più ampie riconosciute dal processo di cognizione, non solo la determinazione del quantum da confiscare, ma anche il valore dei beni in rapporto a detto quantum e la loro riferibilità o meno all’imputato.

D’altra parte, come detto, la confisca diretta, quando concerne somme di denaro, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato, tuttavia è pacifico che, in tal caso, le somme di denaro confiscate devono essere specificamente individuate. È bene ribadire che quanto sopra esposto vale per la confisca ex art. 11 L. 146/2006, non per il sequestro finalizzato alla confisca che, essendo misura cautelare, presenta diversità di struttura, ratio, presupposti e funzione (Sez. 5, 14392/2019).

 

Rapporto con l’istituto della riparazione pecuniaria disciplinata dall’art. 322-quater

La L. 69/2015 ha introdotto varie novelle nel codice penale volte ad assicurare il recupero cogente del vantaggio economico indebitamente ottenuto dai pubblici funzionari attraverso la commissione dei delitti contro la pubblica amministrazione. In particolare, l’art. 323-quater prevede una nuova misura obbligatoria in caso di sentenza di condanna, denominata "riparazione pecuniaria", consistente nel "pagamento di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio" attraverso reati contro la pubblica amministrazione, tassativamente indicati (tra i quali anche il peculato) "a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio appartiene, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319-ter, in favore dell’amministrazione della giustizia, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno".

Da ultimo, la suddetta norma è stata modificata (L. 3/2019), oltre che per ricomprendere anche il privato corruttore, anche per chiarire che la riparazione pecuniaria deve corrispondere ad una somma equivalente (non specificamente a quanto ricevuto dal soggetto agente, bensì) "al prezzo o al profitto del reato", in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio.

La dottrina, nel commentare la misura della riparazione pecuniaria, l’ha definita una "sanzione civile" priva di funzione compensatoria dei danni patiti dalla pubblica amministrazione, destinata a svolgere funzione "punitiva e deterrente" parametrata su quanto indebitamente percepito dal pubblico agente, come prezzo o profillo del reato. In tal senso, sembra essersi mosso il Governo, nell’illustrare le modifiche apportate alla L. 69/2015, al fine di adeguarsi alle raccomandazioni dell’OCSE, tra le quali quella di introdurre, a scopo di deterrente della corruzione nelle transazioni economiche internazionali, "sanzioni pecuniarie" nei confronti delle persone fisiche.

Secondo il Governo, oltre alle modifiche sopra indicate apportate al testo dell’art. 322-quater, "ragioni di coerenza e razionalità del sistema sanzionatorio del codice penale (che non prevede il cumulo di sanzioni detentive e pecuniarie per i delitti contro la pubblica amministrazione, a differenza di quanto prevede, ad esempio, per i reati che offendono il patrimonio)" sconsigliavano una generalizzata modifica delle pene principali nel senso suggerito, tenuto conto delle modifiche normative già introdotte.

A pendant della riparazione pecuniaria, il comma 1-ter dell’art. 444 CPP ha inoltre subordinato l’accesso al rito speciale dell’applicazione della pena su richiesta per i medesimi reati alla condizione della "restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato", così da evitare che l’adesione al rito semplificato consenta al soggetto attivo di eludere la ripetizione del vantaggio indebitamente lucrato, imposta dall’art. 322-quater. Sin dai primi commenti alle suddette norme si è evidenziata la questione del problematico raccordo di tali nuovi istituti con gli strumenti già previsti dall’ordinamento per impedire all’imputato di percepire qualsiasi vantaggio di natura economica direttamente derivante dai reati contro la pubblica amministrazione ed in particolare con la misura della confisca del prezzo o del profitto ex art. 322-ter.

Si è osservato al riguardo che l’applicazione cumulativa delle suddette misure introdotte con le novelle del 2015 e della confisca del prezzo e del profitto del reato verrebbe a determinare una patente violazione del ne bis in idem sanzionatorio e del principio di proporzione e di ragionevolezza, che presidiano la risposta punitiva in materia penale, scongiurabile solo attraverso un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata.

In tale linea interpretativa si è posta la decisione di questa Corte (Sez. 6, 9990/2017), che, ancorché per inciso, ha rilevato che l’effetto dell’adempimento della condizione processuale di ammissibilità del rito di cui al comma 1-ter dell’art. CPP è quello, da un lato, di impedire all’imputato qualsiasi vantaggio di natura economica direttamente derivante dal reato e, dall’altro, di consentirgli di escludere l’applicazione, con la sentenza pronunciata ex art. 444 CPP, della confisca ex art. 322-ter del profitto (o del prezzo) del reato o, in caso di sentenza di condanna ordinaria, anche della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater a favore dell’amministrazione di appartenenza.

Si ritiene di aderire a tale esegesi, considerando vieppiù che nella specie la confisca imposta dalla sentenza impugnata è quella per equivalente, connotata da carattere tipicamente afflittivo, in ragione della mancanza di pericolosità dei beni che ne sono oggetto, unitamente all’assenza di un "rapporto di pertinenzialità" (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, che le attribuiscono una natura "eminentemente sanzionatoria" (Corte EDU, sentenza 9/02/1995, Welch c. Regno unito; Corte costituzionale, sentenza 97/2009). È evidente, infatti, che in tal caso la confisca è parametrata al profitto od al prezzo dell’illecito solo da un punto di vista "quantitativo" e l’oggetto della ablazione finisce per essere rappresentato direttamente da una porzione del patrimonio, il quale, in sé, non presenta alcun elemento di collegamento col reato (Sez. 3, 16872/2019).

 

Sequestro preventivo finalizzato alla confisca

Ai fini dell’emissione del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato, non occorre un compendio indiziario che si configuri come grave ai sensi dell’art. 273 CPP, ma è comunque necessario che il giudice valuti la sussistenza del fumus delicti in concreto, verificando in modo puntuale e coerente gli elementi in base ai quali desumere l’esistenza del reato astrattamente configurato, in quanto la "serietà degli indizi" costituisce presupposto per l’applicazione delle misure cautelari. La necessità di gravi indizi di colpevolezza non può essere fondata sul rilievo che l’istituto della confisca per equivalente è costruito su di un’ottica tutta quanta sanzionatoria.

È sufficiente considerare, in proposito, che la necessità dei gravi indizi di colpevolezza per l’applicazione di una misura cautelare personale dipende non dalla proiezione di questa in chiave sanzionatoria o anticipatoria rispetto alla sanzione, bensì dall’incidenza del provvedimento coercitivo sul bene primario della libertà personale, come chiaramente evidenziato anche dalla norma-principio fissata dall’art. 272 CPP. Di conseguenza, ai fini dell’applicazione di una misura incidente sul patrimonio, non può ritenersi necessaria, per analogia, e in difetto di specifica disposizione di legge, l’esistenza degli stessi presupposti richiesti per l’applicazione di una misura cautelare incidente sulla libertà personale.

Pertanto, il controllo in ordine alla "serietà degli indizi" deve avere ad oggetto la verifica dell’acquisizione di elementi concreti da cui inferire la probabile sussistenza del reato costituente il presupposto del provvedimento cautelare, ma non richiede di accertare se gli elementi acquisiti siano tali da fondare un giudizio prognostico in termini di ragionevole e alta probabilità di colpevolezza così come necessario in materia di misure cautelari personali. Occorre però precisare che, in caso di sequestro funzionale alla confisca per equivalente, è necessario valutare la "serietà degli indizi" anche con specifico riferimento alla posizione del destinatario della misura.

Il sequestro in questione, infatti, in tanto è possibile, in quanto ha ad oggetto le «cose di cui è consentita la confisca». La confisca per equivalente, poi, è prevista esclusivamente in relazione ai beni di cui il «reo» ha la disponibilità, secondo quanto disposto dall’art. 12-bis DLGS 74/2000, ma anche dall’art. 322-ter, primo comma, o dall’art. 240-bis, secondo comma. Di conseguenza, ai fini dell’adozione della precisata misura, è doveroso verificare se i beni da sottoporre a vincolo siano nella disponibilità di un soggetto qualificabile, in prospettiva, come «reo» (Sez. 3, 17082/2019).

Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di valore non dismette la sua funzione cautelare, essendo chiaro come lo scopo della cautela risieda proprio nella diretta ed immediata confiscabilità del bene, mirandosi a colpire l’accrescimento patrimoniale (sia esso consistito in un accumulo di ricchezza che in un risparmio di spesa) nei casi in cui non sia possibile adottare il sequestro in forma specifica ossia non sia possibile apprendere direttamente i beni che rappresentino il profitto del reato.

Ne consegue che il bisogno cautelare, ritenuto ope legis immanente, può essere perseguito solo privando il possessore della disponibilità del bene, in modo da poterlo immediatamente apprendere attraverso l’emanazione del provvedimento ablativo, ed una tale esigenza sarebbe del tutto frustrata qualora si ammettesse non già la sostituibilità tra beni appartenenti all’imputato e di identico valore ma la sostituibilità con valori futuri meramente ipotetici (Sez. 3, 12245/2014).

In tema di sequestro preventivo, il prezzo del reato, oggetto della confisca obbligatoria ex art. 322-ter, non è suscettibile di essere sostituito dal tantundem eiusdem generis offerto da un terzo o da un coimputato, posto che il carattere sanzionatorio della suddetta confisca impedisce che l’autore del reato possa in alcun modo avvantaggiarsi o, comunque beneficiare del "pretium sceleris" approfittando del fatto che altri abbia offerto una somma equivalente (Sez. 6, 16725/2009).

 

Prezzo o profitto costituito da denaro

Ove il prezzo o profitto del reato c.d. "accrescitivo" derivante da reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto concorrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto dell’ablazione e del reato (SU, 10561/2014; SU, 31617/2015) e ciò, implicitamente, proprio perché la natura fungibile del bene, che si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, è tale da far perdere qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica delle somme e dunque rende superfluo accertare se la massa monetaria percepita come profitto dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita.

Ciò che rileva è dunque che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reato. Tuttavia, proprio in ragione del principio espresso dalle Sezioni unite, una successiva pronuncia di legittimità, in senso corrispondente anche se contrario, ha affermato che, ove si abbia, invece, prova certa che tali somme non possano in alcun modo derivare da reato, di talché le stesse neppure possono rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza dell’omesso versamento delle imposte, le stesse non sono sottoponibili a sequestro, difettando in esse la caratteristica di profitto, pur sempre necessaria per poter procedere al sequestro in via diretta (Sez. 3, 8995/2018).

Qualora il profitto sia costituito da una somma di denaro  bene fungibile per eccellenza , esso non è assoggettabile a confisca per equivalente, in quanto il denaro è sempre oggetto di confisca diretta, e la sua trasformazione in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è di ostacolo al sequestro preventivo, che può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito (SU, 10561/2014; SU, 31617/2015).

In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 322-ter, costituisce "profitto" del reato anche il bene immobile acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro sia causalmente collegabile al reato e sia soggettivamente attribuibile all’autore di quest’ultimo (Sez. 5, 7334/2019).

 

Confisca disposta con sentenza di applicazione concordata di pena (patteggiamento)

Alla sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti fanno espresso riferimento numerose altre disposizioni di legge che prevedono ipotesi di confisca per equivalente, quali l’art. 322-ter in relazione a vari delitti contro la pubblica amministrazione; l’art. 640-quater per i reati previsti dagli artt. 640, secondo comma, 640-bis e 640-ter, secondo comma; l’art. 644 per il delitto di usura; l’art. 648-quater in relazione ai delitti di riciclaggio, impiego di denaro o beni di provenienza illecita ed autoriciclaggio; l’art. 600-septies.2. per i reati previsti dalla Sezione I del capo III e per di quelli di cui agli artt. 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 609-undecies; l’art. 240-bis (già art. 12-sexies DL 306/1992); l’art. 12-bis DL 74/2000 in riferimento ai reati tributari; l’art. 2641 CC per i reati previsti dal codice civile in materia di società e consorzi.

Va evidenziato, tuttavia, che la L. 146/2006 ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite, il cui scopo, indicato nell’art. 1, è stato quello di "promuovere la cooperazione per prevenire e combattere il crimine organizzato transnazionale in maniera più efficace". Nella Convenzione, in più disposizioni, viene fatto generico riferimento alla "condanna" ed alle "persone condannate alla reclusione", senza vincoli di modelli procedimentali, scelta comprensibile alla luce dei diversi ordinamenti dei 189 Stati Parte, in alcuni soltanto dei quali è previsto il patteggiamento della pena.

Nel recepire la Convenzione, mediante la legge di ratifica, il legislatore nazionale, evidentemente, ha utilizzato le stesse espressioni, senza avvertire la necessità di una specificazione, quale quella presente nelle norme in precedenza citate che prevedono la confisca per equivalente. Il solo dato letterale non è sufficiente per ritenere che il legislatore abbia inteso escludere il caso di applicazione della pena ex art. 444 CPP dalla sfera di operatività della confisca, prevista nella Convenzione con disposizioni stringenti e rigorose, volte a rafforzare la cooperazione internazionale ai fini della confisca (art. 13) ed a disporre che gli Stati Parte adottassero, «nella più ampia misura possibile nell’ambito dei loro ordinamenti giuridici interni, le misure necessarie a consentire la confisca» dei proventi derivanti dai reati di cui alla Convenzione o di «beni il cui valore corrisponde a quello di tali proventi» (art. 12, comma 1, lett. a).

Si consideri altresì che, al momento dell’approvazione della L. 146/2006, le Sezioni unite avevano da poco definitivamente chiarito la natura della sentenza di patteggiamento, in contrasto con l’orientamento espresso in altre due pronunce, precedenti alla "novellazione" operata dalla L. 134/2003, in forza della quale «l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti ha decisamente cambiato pelle» (SU, 17781/2006). Le Sezioni unite, con la citata pronuncia, richiamata anche nella decisione impugnata, hanno affermato il seguente principio di diritto: «la sentenza emessa all’esito della procedura di cui agli artt. 444 e ss. CPP poiché è, ai sensi dell’art. 445, comma 1-bis, equiparata "salvo diverse disposizioni di legge a una pronuncia di condanna" costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art. 168, 1° comma, n. 1, della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa» (da ultimo, in senso conforme, Sez. 4, 1492/2019.).

All’esito di un’ampia analisi dei mutamenti subiti dall’istituto del patteggiamento, le Sezioni unite sono pervenute alla conclusione che gli stessi stanno «univocamente a significare che il regime della equiparazione, ora codificato alla stregua della normativa complementare più volte menzionata, non consente di rifuggire dall’applicazione di tutte le conseguenze penali della sentenza di condanna che non siano categoricamente escluse». Detta interpretazione ha superato il vaglio di costituzionalità con la sentenza 336/2009 del giudice delle leggi, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, CPP, nella parte in cui, equiparata la sentenza di cui all’art. 444 ad una sentenza di condanna, prevede che essa abbia efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

Ha evidenziato la Corte costituzionale che la scelta del patteggiamento rappresenta un diritto per l’imputato espressivo del più generale diritto di difesa, «al quale si accompagna la naturale accettazione di tutti gli effetti  evidentemente, sia favorevoli che sfavorevoli - che il legislatore ha tassativamente tracciato come elementi coessenziali all’accordo intervenuto tra l’imputato ed il pubblico ministero ed assentito dalla positiva valutazione del giudice. Effetti tra i quali - per quel che si è detto, non irragionevolmente  il legislatore ha ritenuto di annoverare anche il valore di giudicato sul fatto, sulla relativa illiceità e sulla responsabilità, ai fini del giudizio disciplinare davanti alle pubbliche autorità.

La circostanza, invero, che l’imputato, nello stipulare l’accordo sul rito e sul merito della regiudicanda, "accetti" una determinata condanna penale, chiedendone o consentendone l’applicazione, sta infatti univocamente a significare che l’imputato medesimo ha ritenuto, a quei fini, di non contestare "il fatto" e la propria "responsabilità": con l’ovvia conseguenza di rendere per ciò stesso coerente, rispetto ai parametri di cui si assume la violazione, la possibilità che, intervenuto il giudicato su quel "fatto" e sulla relativa attribuibilità allo stesso imputato, simili componenti del giudizio si cristallizzino anche agli effetti del giudizio disciplinare». Sulla base di tale conclusione, ad esempio, la sentenza di applicazione della pena è ritenuta utilizzabile a fini probatori in altro procedimento penale, ai sensi dell’art. 238-bis CPP (Sez. 5, 12344/2018).

Nella sentenza impugnata, poi, il giudice ha correttamente evidenziato (pag. 46) che le Sezioni unite affrontarono un caso di confisca per equivalente, in presenza di un reato transnazionale, disposta proprio con una sentenza di patteggiamento. Il supremo collegio non esaminò espressamente la questione poiché non proposta nei vari motivi dei ricorsi, con i quali pure si contestò la legittimità della confisca per equivalente. Tuttavia, laddove avesse considerato fondata la tesi in questa sede sostenuta dai ricorrenti, la Corte di cassazione avrebbe rilevato d’ufficio l’illegalità della confisca "sanzione penale", in quanto disposta al di fuori dei casi consentiti.

Evidentemente le Sezioni unite hanno ritenuto che la confisca per equivalente prevista dall’art. 11 della L. 146/2006 debba essere ordinata anche con la sentenza di applicazione della pena. Alla medesima conclusione è pervenuta, implicitamente ma inequivocabilmente, un’altra recentissima decisione del giudice di legittimità, con la quale è stata annullata solo per vizio motivazionale la sentenza di applicazione della pena con cui è stata disposta la confisca per equivalente, ai sensi dell’art. 11 L. 146/2006, in un caso di reato aggravato dalla transnazionalità.

Ha osservato la Suprema Corte che «anche nel procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti, la confisca per equivalente non può essere applicata sulla base della motivazione sintetica tipica del rito, sicché il giudice, nel disporre la misura ablatoria, deve specificamente esplicitare le ragioni per cui ritiene sussistenti i presupposti per adottarla» (Sez. 4, 44912 del 18/09/2018) (ricostruzione sistematica dovuta a Sez. 2, 16100/2019).

Le parti, nel patteggiamento, non possono inserire un accordo anche sulle pene accessorie, sulle misure di sicurezza o sulla confisca, atteso che le suddette misure sono sottratte alla loro disponibilità. Tuttavia, ove ciononostante, le parti inseriscano nel patteggiamento anche un accordo sulle suddette misure, l’accordo ha un mero valore di orientamento della decisione che il giudice deve obbligatoriamente adottare sul punto. Di conseguenza, poiché il giudice non è ad esso vincolato, ben può - motivando - non tenerne conto senza che perciò la sentenza - in caso d’impugnazione - possa essere completamente travolta sul presupposto del mancato recepimento dell’intero accordo (Sez. 2, 4446/2019).

 

Sequestro e confisca in danno di persone giuridiche

È consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica.

Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio.

Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato. L’impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato (SU, 10561/2014).

Il sequestro preventivo a fini di confisca diretta del profitto del reato è possibile anche nei confronti di una persona giuridica per i reati commessi dal legale rappresentante o da altro organo della persona giuridica, quando il profitto sia rimasto nella disponibilità della stessa. Il provvedimento cautelare reale a fini di confisca del profitto attinge, difatti, non il soggetto (che appunto può essere del tutto estraneo alla condotta delittuosa), ma il compendio delittuoso, ovunque esso si trovi, dunque anche qualora esso sia rintracciabile nella sfera patrimoniale di un soggetto terzo.

Ciò salvo che detto soggetto terzo non fosse in buona fede, non avesse conosciuto o non fosse in condizioni di conoscere, attraverso l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del trasferimento a suo vantaggio del profitto derivante dai reati per i quali sia stata disposta la misura cautelare reale.

Ne discende che, qualora il soggetto che si sia avvantaggiato (non in buona fede) del profitto del reato rappresentato da una somma di denaro sia un ente, nulla può rilevare la circostanza che esso abbia mutato denominazione o veste giuridica e che, pertanto, si tratti di un’entità avente soggettività giuridica formalmente distinta ed autonoma rispetto a quella preesistente, qualora il nuovo soggetto giuridico sia integralmente subentrato nei rapporti giuridici preesistenti e, per quanto qui rileva, nelle disponibilità finanziarie della precedente articolazione (Sez. 6, 2186/2019).