x

x

Art. 322-bis - Peculato, concussione, induzione indebita dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (1)

1. Le disposizioni degli articoli 314, 316, da 317 a 320 e 322, terzo e quarto comma, si applicano anche:

1) ai membri della Commissione delle Comunità europee, del Parlamento europeo, della Corte di Giustizia e della Corte dei conti delle Comunità europee;

2) ai funzionari e agli agenti assunti per contratto a norma dello statuto dei funzionari delle Comunità europee o del regime applicabile agli agenti delle Comunità europee;

3) alle persone comandate dagli Stati membri o da qualsiasi ente pubblico o privato presso le Comunità europee, che esercitino funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti delle Comunità europee;

4) ai membri e agli addetti a enti costituiti sulla base dei Trattati che istituiscono le Comunità europee;

5) a coloro che, nell’ambito di altri Stati membri dell’Unione europea, svolgono funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio;

5-bis) ai giudici, al procuratore, ai procuratori aggiunti, ai funzionari e agli agenti della Corte penale internazionale, alle persone comandate dagli Stati parte del Trattato istitutivo della Corte penale internazionale le quali esercitino funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti della Corte stessa, ai membri ed agli addetti a enti costituiti sulla base del Trattato istitutivo della Corte penale internazionale (2).

5-ter) alle persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di organizzazioni pubbliche internazionali (3);

5-quater) ai membri delle assemblee parlamentari internazionali o di un’organizzazione internazionale o sovranazionale e dei giudici e funzionari delle corti internazionali (3).

5-quinquies) alle persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali o degli incaricati di un pubblico servizio nell'ambito di Stati non appartenenti all'Unione europea, quando il fatto offende gli interessi finanziari dell'Unione. (4)

2. Le disposizioni degli articoli 319-quater, secondo comma, 321 e 322, primo e secondo comma, si applicano anche se il denaro o altra utilità è dato, offerto o promesso (5):

1) alle persone indicate nel primo comma del presente articolo;

2) a persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di altri Stati esteri o organizzazioni pubbliche internazionali (6).

3. Le persone indicate nel primo comma sono assimilate ai pubblici ufficiali, qualora esercitino funzioni corrispondenti, e agli incaricati di un pubblico servizio negli altri casi (7).

(1) Rubrica così modificata prima dall’art. 1, comma 75, lett. n), n. 2), L. 190/2012 e poi dall’art. 10, comma 1, lett. b), L. 237/2012.

(2) Numero aggiunto dall’art. 10, comma 1, lett. a), L. 237/2012.

(3) Numero aggiunto dalla L. 3/2019.

(4) Numero aggiunto dall'art. 1, lettera d) del D. Lgs. 75/2020.

(5) Alinea così modificato dall’art. 1, comma 75, lett. n), n. 1), L. 190/2012.

(6) Numero così modificato dall’art. 3, comma 1, L. 116/2009 e di seguito dalla L. 3/2019.

(7) Articolo aggiunto dall’art. 3, L. 300/2000.

Rassegna di giurisprudenza

La disposizione dell’art. 322-bis, laddove prevede che «Le disposizioni degli articoli 314, 316, da 317 a 320 e 322, terzo e quarto comma, si applicano anche: 1) ai membri [...] del Parlamento europeo [...]» rende configurabili i reati di corruzione a carico dei Membri del Parlamento europeo.

Ciò posto, ed in difetto di precisi ostacoli normativi, sarebbe paradossale e privo di coerenza sistematica ritenere che le fattispecie di corruzione non siano ipotizzabili a carico dei Membri del Parlamento italiano e siano invece configurabili nei confronti dei Membri del Parlamento europeo, che pure svolgono un’attività di contenuto molto simile ai primi, sono tutelati da pressoché identiche guarentigie, e sono diretta espressione, e rappresentanza, del medesimo corpo elettorale che elegge la Camera dei Deputati (Sez. 6, 36769/2017).

Il giudice del processo per l’imputazione di corruzione di un funzionario di uno Stato estero deve procedere, anche d’ufficio, all’accertamento delle norme di diritto straniero utili al fine di stabilire se il funzionario corrotto svolga funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio. Questo principio discende dall’art. 14 L. 218/1995, che, in tema di accertamento della legge straniera, pone un principio generale dell’ordinamento rilevante in ogni caso in cui l’applicazione della legge penale nazionale presupponga l’accertamento di un dato normativo straniero (Sez. 6, 49532/2009).

Per questo accertamento il giudice può avvalersi, oltre che degli strumenti indicati dalle convenzioni internazionali, di informazioni acquisite per il tramite del Ministero della Giustizia o interpellare esperti o istituzioni specializzate. Qualora il giudice non riesca ad accertare la legge straniera indicata, neanche con l’aiuto delle parti, applica la legge richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa. In mancanza si applica la legge italiana (Sez. 6, 45935/2015). 

Anche per il reato di corruzione internazionale, previsto dall’art. 322-bis, trovano applicazione le regole dettate dagli articoli 7, 9 e 10, per cui, qualora il reato sia commesso in territorio estero, occorre per la sua procedibilità in Italia, che vi sia la richiesta del Ministro della Giustizia (Sez. 6, 9106/2013).

È improcedibile, ai sensi dell’art. 9 comma 2, l’azione penale per il delitto di corruzione internazionale commessa dal cittadino italiano all’estero, in mancanza della richiesta del Ministro della Giustizia (Sez. 6, 9106/2013).

Anche per il reato di corruzione internazionale di cui all’art. 322, l’atto contrario ai doveri di ufficio, rilevante per affermare la sussistente corruzione propria, oggetto dell’accordo illecito, non è necessario che venga accertato nei propri connotati specifici, essendo sufficiente che sia individuabile in funzione della competenza e della concreta sfera di intervento del pubblico ufficiale, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di singoli atti, anche non preventivamente fissati o programmati, ma pur sempre appartenenti al "genus" previsto, come quando il pubblico ufficiale si ponga a disposizione del privato in violazione del dovere di imparzialità, onestà e vigilanza - situazione in cui non è possibile prevedere specifici atti contrari ai doveri di ufficio - e il privato miri ad assicurarsi un atteggiamento di favore da parte di quello (Sez. F, 32779/2012).

Anche all’ente indagato per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25 DLGS 231/2001 derivante dal reato di cui all’art. 322-bis (corruzione internazionale) si applicano le misure cautelari interdittive. Il comma 4 dell’art. 25 ha la funzione di estendere l’ambito soggettivo di quegli stessi delitti richiamati nei primi tre commi. Pertanto, il richiamo contenuto nel comma 5 dell’art. 25 deve considerarsi rivolto alle ipotesi base di corruzione indicate nei commi 2 e 3, comprensive anche delle estensioni soggettive contemplate nel comma 4 (Sez. 6, 42701/2010).

La responsabilità amministrativa degli enti in relazione alla commissione di fatti costituenti reato è stata introdotta nell’ordinamento italiano, con la L. 300/2000, a seguito della ratifica di alcune convenzioni internazionali, sottoscritte dall’Italia, contenenti l’espresso obbligo degli Stati aderenti di introdurre sul piano interno, in relazione a determinati reati, la responsabilità delle persone giuridiche.

Le suddette Convenzioni (segnatamente, la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali e la Convenzione UE relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’UE), secondo un trend che troverà costante applicazione in successive convenzioni internazionali dedicate a forme di criminalità che potevano essere connesse alle attività di impresa, imponevano infatti agli Stati Parte specifici obblighi di adattamento della normativa nazionale, nella prospettiva di rendere omogenee e quindi maggiormente effettive le risposte sanzionatorie offerte dalla comunità internazionale.

Le convenzioni ora citate, nel prevedere un certo margine di discrezionalità del legislatore nazionale nella scelta del modello sanzionatorio da adottare in relazione ai reati da esse previste (nell’ambito dell’UE l’opera di riavvicinamento delle normative penali deve pur sempre rispettare le differenze delle tradizioni giuridiche e degli ordinamenti giuridici degli Stati membri), stabilivano tuttavia le direttrici ineludibili entro le quali dare esecuzione agli obblighi assunti sul piano internazionale: prevedere sanzioni «efficaci, proporzionate e dissuasive». Una volta che la comunità internazionale aveva imposto l’introduzione di fattispecie penali uniformi, la risposta repressiva degli Stati doveva pertanto garantire l’effettività della tutela del bene giuridico leso: l’efficacia, la proporzionalità e il carattere dissuasivo della sanzione (ancorché non penale) dovevano essere i requisiti fondamentali affinché la normativa pattizia in questione venisse applicata appieno.

Dall’effettività della risposta sanzionatoria discende come ovvio corollario che il sistema punitivo deve essere in grado di contrastare le possibili elusioni nell’applicazione della normativa repressiva e conseguentemente del relativo regime sanzionatorio (cfr. sulla nozione di sanzioni «effettive, proporzionate e dissuasive», CGUE, Grande sezione, sentenza 8 settembre 2015, C-105/14: se il regime che disciplina l’estinzione dei reati per prescrizione nel determina l’impunità, si deve constatare che le misure previste dal diritto nazionale non possono essere considerate effettive e dissuasive).

Tale elusione nella materia della responsabilità delle persone giuridiche appare ancor più evidente là dove siano ritenuti sufficienti una mera riorganizzazione o la modifica della denominazione sociale per ostacolare la repressione di un illecito.

Proprio in relazione all’ipotesi della fusione di società, la CGUE ha più volte richiamato il principio di «effettività» del sistema sanzionatorio per affermare che la normativa interna degli Stati deve assicurare l’imposizione di sanzioni nei confronti dell’ente che abbia incorporato quello che ha commesso l’infrazione, potendo altrimenti le imprese sfuggire alle sanzioni per il semplice fatto che la loro identità è stata modificata a seguito di ristrutturazioni, cessioni o altre modifiche di natura giuridica o organizzativa.

Basti ricordare, tra le tante, le pronunce della Corte del Lussemburgo in relazione alla normativa in tema di tutela della concorrenza. In particolare, tra le ultime, CGUE, sentenza dell’11 dicembre 2007, C-280/06, relativa alla normativa italiana contenuta nella L. 287/1990, nella quale la Grande sezione della Corte ha affermato (CGUE, sentenza del 28 marzo 1984, cause riunite 29/83 e 30/83, Compagnie royale asturienne des mines e Rheinzink c. Commissione; CGUE, sentenza del 7 gennaio 2004, cause riunite C-204/00 P. e altri, Aalborg Portland e altri c. Commissione) che qualora un ente violi le regole della concorrenza incombe ad esso, secondo il principio della responsabilità personale, di rispondere di tale infrazione; tuttavia, qualora tale ente sia oggetto di una modifica di natura giuridica o organizzativa, «tale modifica non ha necessariamente l’effetto di creare una nuova impresa esente dalla responsabilità per i comportamenti anticoncorrenziali del precedente ente se, sotto l’aspetto economico, vi è identità fra i due enti».

Solo in tal modo  ha aggiunto la CGUE  le misure adottate a livello nazionale svolgono la funzione di «dissuadere» gli operatori economici dal tenere comportamenti anticoncorrenziali: «se nessun’altra possibilità di imposizione della sanzione ad un ente diverso da quello che ha commesso l’infrazione fosse prevista, alcune imprese potrebbero sfuggire alle sanzioni per il semplice fatto che la loro identità è stata modificata a seguito di ristrutturazioni, cessioni o altre modifiche di natura giuridica o organizzativa.

Lo scopo di reprimere comportamenti contrari alle regole della concorrenza e di prevenirne la ripetizione mediante sanzioni dissuasive sarebbe pertanto compromesso». Conclusivamente, la CGUE ha evidenziato i rischi di un’applicazione eccessivamente «formalistica» del principio della responsabilità personale nei confronti delle persone giuridiche: la ratio e la finalità delle sanzioni verrebbero eluse ed i gestori di imprese sarebbero incentivati a sottrarsi alla loro responsabilità mediante modifiche organizzative «mirate».

L’orientamento assunto dalla CGUE è significativo, tenuto conto anche della natura «penale» delle sanzioni previste dalla L. 287/1990, secondo la Corte di Strasburgo (Corte EDU, sentenza del 7.9.2011, Menarini Diagnostics SRL c. Italia). A medesime conclusioni è pervenuta la stessa Corte più in generale in materia di responsabilità amministrativa (CGUE, Sez. 5, sentenza del 5 marzo 2015, C343/13).

La CGUE  relativamente ad un caso di fusione con incorporazione della società responsabile di illeciti amministrativi  ha osservato che il trasferimento della responsabilità amministrativa alla società incorporante discende dalla normativa contenuta nella Direttiva comunitaria 78/855 relativa alle fusioni delle società per azioni, alla quale i sistemi nazionali devono uniformarsi: in assenza di detto trasferimento  ha sottolineato la Corte  l’interesse dello Stato alla repressione non sarebbe protetto e la fusione costituirebbe il mezzo, per una società, di eludere le conseguenze delle infrazioni eventualmente commesse a danno dello Stato membro interessato.

La CGUE si è premurata di sottolineare che la suddetta interpretazione non si pone in contrasto con gli interessi dei creditori e degli azionisti della società incorporante, in quanto questi ultimi, prima della fusione, hanno la possibilità di ottenere adeguate garanzie. Quindi l’imputazione della responsabilità all’ente risultante dalla fusione per incorporazione discende ineludibilmente non solo dall’esigenza dell’effettività della risposta sanzionatoria pattiziamente imposta in tema di lotta alla criminalità d’impresa, ma anche dai principi comunitari in tema di riorganizzazione degli enti (Direttiva 78/855).

La L. 300/2000, nel dare esecuzione in Italia alle richiamate Convenzioni, ha ritenuto di far fronte agli obblighi di adattamento dalle stesse discendenti con il ricorso alla delegazione, indicando espressamente tra i principi e i criteri direttivi quello di «prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive» a carico delle persone giuridiche responsabili, in tal modo rafforzando l’attuazione degli obblighi pattizi.

Pertanto, con l’introduzione della normativa riguardante le «vicende modificative dell’ente» ed in particolare della previsione, secondo cui «nel caso di fusione, anche per incorporazione, l’ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione» (art. 29), il legislatore delegato ha inteso applicare i principi e i criteri direttivi derivanti dalla legge di delega.

Tale conclusione appare ancor più indefettibile nei casi in cui le società coinvolte nell’operazione di fusione appartengano allo stesso gruppo e l’operazione sia pianificata dalla holding (Sez. 6, 11442/2016).

Nel caso di corruzione internazionale (art. 322-bis), vi è la giurisdizione del giudice italiano in presenza dell’esecuzione in Italia di parti rilevanti della condotta contestata (Sez. 6, 42701/2010).