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Art. 322 - Istigazione alla corruzione

1. Chiunque offre o promette denaro od altra utilità non dovuti ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’articolo 318, ridotta di un terzo (1).

2. Se l’offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio ad omettere o a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a fare un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nell’articolo 319, ridotta di un terzo (2)(3).

3. La pena di cui al primo comma si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri (4).

4. La pena di cui al secondo comma si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro od altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall’articolo 319 (5).

(1) Comma così modificato dall’art. 1, comma 75, lett. m), n. 1), L. 190/2012.

(2) Comma così modificato dall’art. 3, L. 181/1992.

(3) La Corte costituzionale, con sentenza 163/2014, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità del presente comma, in riferimento all’art. 3 Cost.

(4) Comma così sostituito dall’art. 1, comma 75, lett. m), n. 2), L. 190/2012.

(5) Articolo così sostituito dall’art. 12, L. 86/1990.

Rassegna di giurisprudenza

Elementi strutturali

In materia di reato di istigazione alla corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (art. 322 comma 2), le affermazioni della giurisprudenza di legittimità restano ferme ai principi affermati e per i quali: a) il reato si configura con la semplice condotta dell’offerta o della promessa di danaro o di altra utilità, purché seria, potenzialmente e funzionalmente idonea ad indurre il destinatario a compiere un atto contrario ai doveri di ufficio, tale da determinare una rilevante probabilità di causare un turbamento psichico nel pubblico ufficiale, sì che sorga il pericolo che egli accetti l’offerta o la promessa; b) l’idoneità della condotta va valutata con un giudizio "ex ante" che tenga conto dell’entità del compenso, delle qualità personali del destinatario e della sua posizione economica e di ogni altra connotazione del caso concreto, con esclusione del reato soltanto se manchi la idoneità potenziale dell’offerta o della promessa a conseguire lo scopo perseguito dall’autore per l’evidente quanto assoluta impossibilità del pubblico ufficiale di tenere il comportamento illecito richiestogli (Sez. 6, 46015/2018).

Va rilevato che il reato di istigazione alla corruzione, di cui all’art. 322, è stato oggetto di più interventi di riforma, di cui l’ultimo ad opera della L.190/2012. Secondo una condivisa esegesi, formatasi nella vigenza della precedente formulazione della norma, l’art. 322 viene ad estendere la punibilità dell’agente, sia privato che pubblico, in fattispecie in cui l’ipotesi base di corruzione non sia neppure realizzata sotto forma di tentativo. La corruzione è infatti reato plurisoggettivo di «natura bilaterale» o, per così dire, a «concorso necessario», nel quale l’elemento caratterizzante dell’illecito è ritenuto la stipulazione tra il privato e il pubblico ufficiale di un pactum sceleris, avente ad oggetto i doveri funzionali del secondo: le condotte convergenti e, per così dire, speculari del privato e del pubblico funzionario si integrano a vicenda, dando vita ad un unico delitto a compartecipazione necessaria, la cui configurazione è strettamente collegata alla sussistenza di entrambe le condotte (il pubblico ufficiale percepisce l’utilità o ne accetta la promessa e dà in cambio l’atto d’ufficio o contrario ai doveri d’ufficio; nella posizione inversa viene a trovarsi il privato). Come chiarito dalla giurisprudenza ora citata, tale impostazione trae conferma dall’’art. 322, norma altrimenti superflua, in quanto l’autonoma punibilità dell’azione del privato, che invano promette od offre denaro a un pubblico ufficiale o quella di quest’ultimo che sollecita vanamente tale promessa o dazione, discenderebbe dalla norma generale sul tentativo. L’art. 322, invece, viene ad assolvere proprio alla funzione di sottoporre a sanzione «fatti tendenti ad insidiare il senso di rettitudine e di disinteresse che deve sempre accompagnare l’esercizio delle pubbliche funzioni», altrimenti non punibili per effetto del disposto dell’art. 115. La ratio di tale scelta riposa sull’interesse a proteggere il retto funzionamento ed il prestigio della pubblica amministrazione contro il pericolo di unilaterali iniziative che, in quanto rivolte alla conclusione di un pactum sceleris, possono rappresentare un grave turbamento della funzione pubblica o della concreta attività della pubblica amministrazione. Venendo pertanto ad anticipare l’intervento repressivo di attività dirette a conseguire i risultati tipici della corruzione, il reato di cui all’art. 322 è stato dal legislatore strutturato specularmente alle fattispecie-base degli artt. 318 e 319. La riforma intervenuta ad opera della L. 190/2012 sulla fattispecie di cui all’art. 318 ha necessariamente riguardato anche il reato di istigazione. L’art. 318 viene a contemplare nel testo vigente un’unica fattispecie di identico di disvalore di «corruzione per l’esercizio della funzione», nella quale il legislatore ha eliminato il riferimento all’«atto d’ufficio» che aveva giustificato la previsione di due distinte ipotesi, connotate da differente gravità, a seconda della collocazione temporale dell’accordo corruttivo rispetto all’atto dell’intraneus. Inoltre, il legislatore ha eliminato dalla fattispecie di cui all’art. 318 il riferimento alla «retribuzione», così vietando ogni forma di mercimonio delle funzioni, indipendentemente dalla esistenza di un rapporto di proporzione di tipo sinallagmatico; mentre, non modificando l’art. 321 (a dir il vero, neppure coordinando la lettera della norma alla nuova veste dell’art. 318), ha escluso spazi di impunità per il corruttore. Il nuovo articolo 318, attraverso la locuzione «per l’esercizio», viene ora a punire non solo le condotte già previste dal vecchio testo, ma anche tutti i casi in cui l’indebita dazione o la sua promessa si colleghino, causalmente o finalisticamente, all’esercizio della funzione o del potere da parte dell’intraneus, indipendentemente dal compimento di singoli atti dell’ufficio. Come è stato osservato dalla dottrina, la preposizione «per» viene ad indicare non solo «la finalità» in vista della quale la remunerazione è effettuata o promessa, ma anche la «causa» dell’indebita dazione di denaro o altra utilità o la sua promessa, costituita dall’esercizio della funzione o del potere da parte dell’agente pubblico. A ciò deve aggiungersi che, proprio perché l’accordo corruttivo è sganciato da uno specifico atto d’ufficio, la distinzione della corruzione impropria in antecedente o susseguente non ha più un decisivo rilievo. Il riferimento all’esercizio dei poteri o delle funzioni viene in realtà a cogliere, anche in situazioni in cui la dazione indebita sia successiva al manifestarsi di tale esercizio, la proiezione dell’accordo corruttivo verso il futuro: la remunerazione del pubblico agente in funzione dell’avvenuto esercizio dei suoi poteri o funzioni rappresenta infatti un insidioso modo per creare una relazione così da assicurarsene i futuri favori. L’elaborazione giurisprudenziale si è particolarmente soffermata sui rapporti della nuova fattispecie dell’art. 318 con quella, pressoché immutata, disciplinata dall’art. 319. Nella precedente formulazione, il perimetro assegnato all’art. 318 era sostanzialmente disegnato dall’art. 319, nel senso che rientravano nel fuoco della prima incriminazione tutti quei casi di corruzione per i quali non erano ravvisabili gli estremi della fattispecie «propria». Dunque, l’ipotesi criminosa della corruzione impropria veniva in considerazione, in via tipicamente residuale, in presenza di mercimonio riferito ad un atto non solo legittimo, ma anche conforme ai doveri di ufficio del pubblico agente. Secondo un’interpretazione condivisa, il legislatore con la riscrittura dell’art. 318 non ha inteso rovesciare l’assetto dei rapporti fra le due citate fattispecie di corruzione, assegnando alla prima il ruolo di norma di portata generale, con la quale sanzionare ogni forma di mercimonio della funzione, fatti salvi i casi in cui il pactum sceleris abbia ad oggetto i singoli, specifici atti indicati nell’art. 319. Pertanto, anche nel testo vigente la fattispecie prevista dall’art. 318 ha un ambito di operatività residuale rispetto alla fattispecie principale della corruzione propria, ricorrendo in tutte quelle ipotesi in cui il mercimonio della funzione non abbia ad oggetto atti contrari ai doveri d’ufficio. Riformulato l’art. 318, il legislatore ha conseguentemente rimodellato le ipotesi di istigazione alla corruzione «impropria», collegandole non più al singolo atto dell’ufficio, ma all’esercizio delle funzioni o dei poteri. Si tratta ora di stabilire se la trasposizione nel primo e nel terzo comma dell’art. 322 della stessa locuzione «per l’esercizio delle funzioni o dei poteri» di cui all’art. 318 consenta di ritenere punibile anche l’istigazione alla corruzione impropria in relazione ad una funzione o un potere già esercitati. Si ritiene di dare a tale questione risposta affermativaNon vi è ragione infatti per interpretare la suddetta proposizione in modo diverso rispetto all’art. 318. Il tenore letterale della novella non offre alcun appiglio testuale per ritenere che il legislatore abbia voluto riferirsi alla sola istigazione alla corruzione impropria proiettata verso il futuro esercizio dei poteri o funzioni del destinatario dell’offerta o promessa. Né appare dirimente l’argomento evidenziato da parte della dottrina della irragionevole mancanza di simmetria con le restanti ipotesi previste dall’art. 322. ed in particolare con la quella della istigazione ad opera del privato alla corruzione propria susseguente. Orbene, sono proprio i rapporti tra il primo ed il secondo dell’art. 322, che replicano quelli tra le fattispecie-base di corruzione, a consentire di dare contenuto alla previsione del primo comma: quest’ultimo viene a coprire ogni forma di istigazione del privato «per l’esercizio delle funzioni o dei poteri» che non ricada nella ipotesi più grave sanzionata dal secondo comma in cui il privato abbia messo in atto una pericolosa spinta, attraverso la offerta o la promessa di denaro o utilità, verso il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri di ufficio. Come si è detto in precedenza, il termine «per», ancor più nella istigazione, appare, anche quando l’iniziativa unilaterale del privato si riferisca ad un potere o una funzione già esercitati, proiettare la condotta verso il futuro esercizio dei poteri e delle funzioni del soggetto pubblico. Il rigore della soluzione interpretativa qui accolta relativamente alla posizione del privato appare in ogni caso ragionevolmente attenuato dal principio di offensività, che ha già tempo portato la giurisprudenza di legittimità ad escludere dall’area del penalmente rilevante ipotesi di istigazione in cui l’offerta si sia rivelata inidonea potenzialmente a ledere o a porre in pericolo l’interesse protetto dalla norma e, ciò in particolar modo quando, versandosi in situazioni di cui al primo comma dell’art. 322, si sia in presenza di piccole regalie di cortesia o d’uso. D’altra parte è la stessa L. 190/2012 a ritenere lecita l’accettazione di «regali d’uso, purché di modico valore e nei limiti delle normali relazioni di cortesia» (art. 1, comma 44) (Sez. 6, 19319/2017).

Nel caso di un’istigazione alla corruzione un elemento qualificante è costituito dalla serietà dell’offerta, apprezzabile in base a tutte le circostanze del caso, in quanto la stessa sia idonea ad ingenerare turbamento psicologico nel pubblico ufficiale o nell’incaricato di pubblico servizio (Sez. 6, 3176/2012).

L’offerta o la promessa di donativi di modesta entità integrano il delitto di istigazione alla corruzione solo qualora la condotta sia caratterizzata da un’adeguata serietà, da valutare alla stregua delle condizioni dell’offerente nonché delle circostanze di tempo e di luogo in cui l’episodio si colloca, e sia in grado di turbare psicologicamente il pubblico ufficiale (Sez. 6, 1935/2016).

L'offerta, per integrare la base materiale del reato di istigazione alla corruzione (art. 322), deve essere effettiva e seria, così l'accettazione, a fronte dell'offerta o della promessa dell'agente, per integrare il reato di corruzione (artt. 318 e 319), deve essere valutata nella sua effettività e serietà in quanto idonea a determinare, perlomeno, un inizio di trattativa con il privato proponente ovvero come impegno preso dal funzionario per accondiscendere alle proposte ricevute, connotati da verificare ex ante e in concreto. (Questione relativa alla ravvisabilità in capo al funzionario dello status di indagato del delitto di corruzione, ex art. 319, per aver il medesimo accettato l'offerta di denaro da parte dei ricorrenti, consegnatagli come acconto rispetto alla futura trattazione, secondo le prospettate illecite modalità, di pratiche per l'acquisto della cittadinanza di cittadini brasiliani. In motivazione, la Suprema corte ha osservato come i connotati sopra menzionati non fossero ravvisabili, in termini di accettazione della proposta corruttiva, nel caso di specie, poiché la mera accettazione materiale della somma e la sua conservazione erano stati evidentemente accompagnati dalla riserva mentale del destinatario di proporre denuncia, riserva mentale che era stata resa palese dalla tempestiva informativa al sindaco e dal conseguente comportamento del funzionario che aveva effettivamente proposto denuncia) (Sez. 6, 33655/2020).

Rapporto con altri reati

Il tentativo di induzione indebita a dare o promettere utilità si differenzia dall’istigazione alla corruzione attiva di cui all’art. 322, commi terzo e quarto, perché mentre quest’ultima fattispecie si inserisce sempre nell’ottica di instaurare un rapporto paritetico tra i soggetti coinvolti, diretto al mercimonio dei pubblici poteri, la prima presuppone che il funzionario pubblico, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, ponga potenzialmente il suo interlocutore in uno stato di soggezione, avanzando una richiesta perentoria, ripetuta, più insistente e con più elevato grado di pressione psicologica rispetto alla mera sollecitazione, che si concretizza nella proposta di un semplice scambio di favori (SU, 12228/2014).

L’integrazione del delitto di istigazione alla corruzione al fine del compimento di un atto del proprio ufficio di cui all’art. 322, comma terzo,  secondo la formulazione vigente prima della L. 190/2012 – sanziona specificamente la condotta dell’agente munito della qualifica pubblicistica, il quale si attivi nell’ottica di instaurare un rapporto paritetico con il privato diretto al mercimonio dei propri pubblici poteri e prescinde totalmente dagli sviluppi di quel rapporto così come dall’effettiva emissione dell’atto cui la sollecitazione all’illecita compravendita era volta.

Perché possa configurarsi la fattispecie in parola è invero necessario e sufficiente che la condotta del pubblico funzionario sia idonea ad indurre il privato ad accedere al sinallagma illecito. Idoneità della sollecitazione che deve essere valutata con giudizio ex ante, sicché il reato può essere escluso solo se manchi l’idoneità potenziale della proposta alla realizzazione dello scopo, cioè ad essere recepita dall’extraneus, tenuto conto dell’entità del corrispettivo richiesto dal pubblico ufficiale, delle qualità personali del destinatario della proposta e del suo interesse al rilascio dell’atto oggetto della compravendita. Con l’ulteriore precisazione che l’indagine sull’idoneità della sollecitazione costituisce un apprezzamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità ove sorretto da esaustiva e non illogica motivazione (Sez. 6, 8300/2019).

La condotta di sollecitazione, punita dal comma quarto dell’art. 322, si distingue sia da quella di costrizione (cui fa riferimento l’art. 317, nel testo modificato dall’art. 1, comma 75 L. 190/2012) che da quella di induzione (che caratterizza la nuova ipotesi delittuosa dell’art. 319-quater, introdotta dalla medesima L. 190) in quanto si qualifica come una richiesta formulata dal pubblico agente senza esercitare pressioni o suggestioni che tendano a piegare ovvero a persuadere, sia pure allusivamente, il soggetto privato, alla cui libertà di scelta viene prospettato, su basi paritarie, un semplice scambio di favori, connotato dall’assenza sia di ogni tipo di minaccia diretta o indiretta sia, soprattutto, di ogni ulteriore abuso della qualità o dei poteri (Sez. 6, 12208/2019).

Per la sussistenza del reato di corruzione o di quello di istigazione alla corruzione non si richiede che l’atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientrino nelle competenze o nella sfera di influenza dell’ufficio al quale appartiene il soggetto corrotto o che rientrino pure nell’ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio: basta che si tratti di un atto o comportamento rientrante nelle competenze del settore all’interno del quale l’agente svolge la sua funzione e in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto (Sez. 6, 23355/2016).

L’art. 322, nel punire l’istigazione alla corruzione, da un lato descrive le condotte punibili e dall’altro richiama per ognuna di esse le pene (ridotte di un terzo) stabilite dal codice per i reati di corruzione di cui agli artt. 318 e 319, non menzionando espressamente quelle del reato di cui all’art. 319-ter. Questa omissione è stata letta da una parte della dottrina come elemento decisivo per escludere, in ossequio al principio di tassatività, l’estensione della suddetta fattispecie anche all’ipotesi dell’istigazione alla corruzione in atti giudiziari.

Secondo altra dottrina, l’art. 322 avrebbe invece richiamato i «fatti» di corruzione nel loro complesso e non soltanto quelli di cui agli artt. 318 e 319, così da punire anche quelle ipotesi di istigazione caratterizzate dal dolo specifico indicato dall’art. 319-ter, comunque riconducibili, tramite gli artt. 318 e 319, al modello dell’istigazione alla corruzione.

La questione va risolta muovendo da quest’ultima tesi. Effettivamente non costituisce elemento decisivo la non menzione da parte dell’art. 322 delle pene previste dall’art. 319-ter, in quanto la prima norma contiene la descrizione autonoma delle condotte punibili a titolo di istigazione, che ben può ricomprendere la fattispecie disciplinata dalla seconda norma. Infatti, il comportamento di chi offre o promette denaro o altra utilità per indurre il pubblico ufficiale a compiere un atto, conforme o contrario ai doveri di ufficio per favorire o danneggiare una parte processuale è comunque punibile ai sensi dei primi due commi dell’art. 322.

Ciò comporta peraltro che, per il principio di legalità, non potranno applicarsi le pene previste dall’art. 319-ter, dovendosi far esclusivo riferimento, come chiaramente stabilisce l’art. 322, alle sole pene (ridotte di un terzo) previste dagli artt. 318 e 319. In questa prospettiva, una volta ritenuto possibile la configurabilità dell’ipotesi dell’istigazione anche per la corruzione in atti giudiziari, va stabilito se sia ancora possibile la punibilità della medesima condotta a titolo di tentativo.

Secondo una opinione largamente maggioritaria, la previsione dell’art. 322, quale figura autonoma di reato, per il principio di specialità, non renderebbe più configurabile il tentativo di corruzione. Le poche pronunce di legittimità, che hanno ritenuto punibile il tentativo di corruzione in atti giudiziari, muovevano infatti dal presupposto, tra l’altro non argomentato, della impossibilità di applicare la fattispecie di cui all’art. 322 alla condotta corruttiva prevista dall’art. 319-ter.

Rispetto alla tesi che ritiene che la fattispecie di cui all’art. 322 ricomprenda e assorba anche la forma del reato tentato, va peraltro osservato che, attraverso la fattispecie di reato autonoma di cui all’art. 322, il legislatore ha voluto rendere punibili condotte, quali le unilaterali iniziative del privato o del pubblico agente, che sarebbero state difficilmente riconducibili nello schema del tentativo del reato di corruzione, secondo le norme generali, essendo quest’ultimo reato a concorso necessario ed a struttura bilaterale.

Residuerebbero, infatti, al di fuori dell’art. 322 cod. pen. quelle situazioni in cui entrambi i protagonisti del rapporto pongano in essere una trattativa, svolgendo un ruolo attivo, ma questa fallisca: in questo caso possono essere entrambi punibili ai sensi dell’art. 56, se hanno compiuto atti idonei e diretti in modo non equivoco a raggiungere un accordo corruttivo, poi non concluso (Sez. 6, 38920/2017).