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Art. 40 - Rapporto di causalità

1. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.

2. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.

Rassegna di giurisprudenza

Causalità

Le discussioni sulla causalità vengono solitamente precedute dall’evocazione della nota sentenza Franzese delle Sezioni unite (SU, 30328/2012), dalla quale – tuttavia  non di rado si traggono principi ed enunciazioni opposte. Ad oltre dieci anni da tale importante e condivisa pronunzia, si pone, in conseguenza, la necessità di una breve messa a fuoco ed attualizzazione di alcune questioni di principio, anche alla luce della recente esperienza giuridica. Come è noto, l’ordinamento accoglie la concezione condizionalistica della causalità cui è strettamente legato il giudizio logico controfattuale, necessario per riscontrare l’effettivo rilievo condizionante del fattore considerato: se dalla somma degli antecedenti si elimina col pensiero la condotta umana ed emerge che l’evento si sarebbe verificato comunque, allora essa non è condizione necessaria; se invece, eliminata mentalmente l’azione, emerge che l’evento non si sarebbe verificato, allora occorre ritenere che fra l’azione e l’evento esiste nesso di condizionamento. Nei reati omissivi impropri il meccanismo controfattuale viene posto in opera immaginando la condotta mancata e verificando se la sua adozione avrebbe impedito la produzione dell’evento. Naturalmente, il procedimento di eliminazione mentale, per poter funzionare, presuppone che siano già note le regolarità scientifiche od esperienziali che governano gli accadimenti oggetto d’interesse. Nell’ambito dei reati commissivi mediante omissione tale indagine si rivela spesso particolarmente problematica. Infatti, nei reati commissivi l’azione umana è una parte naturalisticamente reale, certa, della spiegazione dell’evento. È quindi chiaro quale parte degli accadimenti occorre sottrarre per porre in opera il giudizio contro fattuale; e la relativa operazione logica è solitamente priva di aspetti problematici. Al contrario nei reati omissivi che qui interessano, dal punto di vista naturalistico, si è in presenza di un nulla, di un non facere. La condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l’evento deve essere rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo, ipotetico, fondato precipuamente su ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso concreto. Alla stregua di tale base ricostruttiva occorre determinare se l’azione doverosa avrebbe avuto concrete chances di salvare il bene protetto o di annullare il rischio. È chiaro che un così complesso giudizio, per il suo carattere ipotetico o prognostico, è per sua natura esposto a maggiori margini d’incertezza. Pertanto si è ritenuto in passato che esso, in sede di accertamento, non possa raggiungere lo stesso livello di rigore esigibile nell’ambito della causalità commissiva. Sul tema sono infine intervenute le Sezioni Unite. La Corte ha evidenziato l’autonomia dogmatica e la forte componente normativa della causalità omissiva, determinata dalla clausola di equivalenza di cui all’art. 40, dal copioso nucleo normativo concernente la disciplina della posizione di garanzia, infine, nei reati colposi, dagli specifici doveri di diligenza. Tuttavia tale autonomia in chiave normativa non giustifica l’erosione del paradigma causale nell’omissione verificatasi nella giurisprudenza di legittimità. Lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello del condizionale controfattuale: occorrerà quindi verificare se, qualora si fosse tenuta la condotta doverosa e diligente, il singolo evento di danno non si sarebbe verificato o si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Le incertezze applicative riscontrate in ambito giurisprudenziale riguardano i criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale, ma esse non mettono in crisi lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità, bensì la sua concreta verifica processuale. Insomma, dalla pronunzia emerge che il problema delle valutazioni probabilistiche non deve condurre ad intaccare l’unitario modello condizionalistico, ma va colto e risolto nella sua sede propria, che è quella dell’accertamento della connessione causale nella specificità di ciascun caso considerato. Emerge così appieno la centralità del momento dell’accertamento del nesso causale. Tale condivisa conclusione costituisce, dopo tante incertezze della giurisprudenza, l’approdo che occorre qui ribadire e chiarire. Pure per ciò che riguarda il momento dell’accertamento del nesso causale la richiamata sentenza delle Sezioni Unite offre spunti interessanti. La Corte considera utopistico un metodo di indagine fondato su strumenti di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, cioè affidato esclusivamente alla forza esplicativa di leggi scientifiche universali o dotate di un coefficiente probabilistico prossimo ad uno. Tale modello viene ritenuto insufficiente a governare, da solo, il complesso contesto del diritto penale, che si trova di fronte le manifestazioni più varie della realtà. Accade frequentemente che nel giudizio si debbano utilizzare leggi statistiche ampiamente diffuse nell’ambito delle scienze naturali, talvolta dotate di coefficienti medio-bassi di probabilità frequentista; nonché generalizzazioni empiriche del senso comune e rilevazioni epidemiologiche. Occorre in tali ambiti una verifica particolarmente attenta sulla fondatezza delle generalizzazioni e sulla loro applicabilità nella fattispecie concreta; ma nulla esclude che, quando sia esclusa l’incidenza nel caso specifico di fattori interagenti in via alternativa, possa giungersi alla dimostrazione del nesso di condizionamento. Raccogliendo spunti sparsi si può cogliere nella pronunzia delle Sezioni Unite un modello dell’indagine causale che integra abduzione ed induzione, cioè l’ipotesi (l’abduzione) circa la spiegazione degli accadimenti e la concreta, copiosa caratterizzazione del fatto storico (l’induzione). Induzione ed abduzione s’intrecciano dialetticamente: l’induzione (il fatto) costituisce il banco di prova critica intorno all’ipotesi esplicativa. La prospettiva è quella di una ricostruzione del fatto dotata di alta probabilità logica, ovvero di elevata credibilità razionale. Occorre prendere atto che la ripetuta utilizzazione del termine "probabilità" nel testo della richiamata sentenza delle Sezioni Unite ha involontariamente generato una certa confusione, ben documentata nella prassi, anche perché è spesso sfuggita la distinzione tra probabilità statistica e probabilità logica. Occorre allora aggiungere a quanto sin qui esposto che l’espressione "probabilità logica" esprime il concetto che la constatazione del regolare ripetersi di un fenomeno non ha significato solo sul terreno statistico, ma contribuisce ad alimentare l’affidamento sulla plausibilità della generalizzazione desunta dalla osservazione dei casi passati. Si è da più parti ritenuto che tale concetto, nel suo nucleo concettuale, possa essere utile nei giudizi della giurisprudenza. Anche qui si è in presenza di una base fattuale o induttiva costituita dalle prove disponibili, e si tratta di compiere una valutazione relativa al grado di conferma che l’ipotesi ha ricevuto sulla base delle prove: se tale grado è ritenuto "sufficiente", l’ipotesi è attendibile e quindi può essere assunta come base della decisione. È stato peraltro sottolineato dalle Sezioni Unite, quanto all’identificazione del grado di conferma o probabilità logica dell’ipotesi ricostruttiva del fatto prospettata dall’accusa la quale possa considerarsi "sufficiente" per vincere la presunzione d’innocenza e giustificare legalmente la condanna dell’imputato, che, essendo la condizione necessaria requisito oggettivo della fattispecie criminosa, essa deve essere dimostrata con rigore secondo lo standard probatorio dell’ "oltre il ragionevole dubbio" che il giudizio penale riserva agli elementi costitutivi del fatto di reato. Il giudice è impegnato nell’operazione logico-esplicativa alla stregua dei percorsi indicati dall’art. 192, commi 1 e 2, CPP, quanto al ragionamento sull’evidenza probatoria, e dall’art. 546, comma 1, lett. e), CPP, per la doverosa ponderazione del grado di resistenza dell’ipotesi di accusa rispetto alle ipotesi antagoniste o alternative, in termini conclusivi di "certezza processuale" o di "alta probabilità logica" della decisione. La indicata, condivisa giurisprudenza delle Sezioni Unite è focalizzata sui ragionamenti esplicativi, che guardano il passato, tentano di spiegare le ragioni di un accadimento, di individuare i fattori che lo hanno generato. Il giudice, come lo storico, l’investigatore, il medico, compie continuamente tale tipo di ragionamento. Esistono, tuttavia, pure ragionamenti predittivi che riguardano la verificazione di eventi futuri. Tali ragionamenti sono frequenti in ambito scientifico. Ma anche il giudice articola particolari previsioni retrospettive quando si trova a chiedersi cosa sarebbe accaduto se un’azione fosse stata omessa o se, al contrario, fosse stato tenuto il comportamento richiesto dall’ordinamento: si tratta di ragionamenti controfattuali che riguardano sia la causalità materiale sia l’evitabilità dell’evento che qualifica la giuridica rilevanza della colpa. La distinzione dei due indicati ragionamenti è di grande quanto ignorata importanza; e va acquisita al patrimonio dei principi guida nell’intricata materia; anche perché differente è il peso che vi ha il coefficiente probabilistico che caratterizza le leggi scientifiche e più in generale le informazioni generalizzanti utilizzate. Nell’ambito dei ragionamenti esplicativi noi giungiamo ad esprimere giudizi causali sulla base di generalizzazioni causali congiunte con l’analisi di contingenze fattuali. In tale ambito il coefficiente probabilistico della generalizzazione scientifica o esperienziale non è solitamente molto importante. Occorre considerare che assai spesso dei casi un evento può trovare la sua causa, alternativamente, in diversi fattori. In tale frequente situazione, le generalizzazioni che enunciano le diverse categorie di relazioni causali costituiscono solo delle ipotesi causali alternative. Emerge, così, che il problema dell’indagine causale è, nella maggior parte dei casi, quello della pluralità delle cause. Esso può essere plausibilmente risolto solo cercando sul terreno, cioè nell’ambito delle prove disponibili, i segni, i fatti, che solitamente si accompagnano a ciascun ipotizzabile fattore causale e la cui presenza o assenza può quindi accreditare o confutare le diverse ipotesi prospettate. Il ragionamento probatorio è dunque di tipo ipotetico, congetturale: ciascuna ipotesi causale viene messa a confronto, in chiave critica, con le particolarità del caso concreto che potranno corroborarla o falsificarla. Sono le contingenze concrete del fatto storico, i segni che noi vi scorgiamo, che possono in alcuni casi consentire di risolvere il dubbio e di selezionare una accreditata ipotesi eziologia; a meno che dai reperti fattuali tragga alimento un’alternativa, plausibile ipotesi esplicativa. Come si vede, l’affidabilità di un assunto è temprata non solo e non tanto dalle conferme che esso riceve, quanto dalla ricerca disinteressata e strenua di fatti che la mettano in crisi, che la falsifichino. Tutto questo vuoi dire che le istanze di certezza che permeano il processo penale impongono al giudice di svolgere l’indicata indagine causale in modo rigoroso. Occorre un approccio critico: la teoria del caso concreto deve confrontarsi con i fatti, non solo per rinvenirvi i segni che vi si conformano ma anche e forse soprattutto per cercare elementi di critica, di crisi. Non può esservi conoscenza senza un tale maturo e rigoroso atteggiamento critico, senza un disinteressato impegno ad analizzare severamente le proprie congetture ed i fatti sui quali esse si basano. La spiegazione di un accadimento richiede sempre tale approccio dialettico. Peraltro la dialettica di cui si parla non è contesa verbale ma confronto tra l’ipotesi e i fatti; e tra le diverse ipotesi, alla ricerca della più accreditata alla luce delle concrete contingenze di ciascuna fattispecie. La congruenza dell’ipotesi non discende dalla sua coerenza formale o dalla corretta applicazione di schemi inferenziali di tipo deduttivo, bensì dalla aderenza ai fatti espressi da una situazione data. In breve occorre rivolgersi ai fatti, ricercarli ed analizzarli con determinazione. L’ordine di idee qui espresso non è dissimile da quello che traspare dalla già richiamata, importante pronunzia delle Sezioni unite. La sentenza non distingue tra ragionamento esplicativo e ragionamento predittivo, ma sembra riferirsi in primo luogo proprio al primo. Come si è accennato, si parla infatti di abduzione, cioè di ipotesi, e di caratterizzazione del fatto storico, cioè di induzione: induzione ed abduzione si confrontano dialetticamente: il fatto storico, costituisce lo strumento critico rispetto all’ipotesi esplicativa. La prospettiva, come si è accennato, è quella di una ricostruzione del fatto dotata di elevata probabilità logica. Occorre tuttavia fortemente sottolineare che la valutazione che si conclude con il giudizio di elevata probabilità logica, di credibilità razionale dell’ipotesi esplicativa, ha un ineliminabile contenuto valutativo, sfugge ad ogni rigida determinazione quantitativa, manifestandosi con essa (come è stato efficacemente considerato in dottrina) il prudente apprezzamento ed il libero seppure non arbitrario convincimento del giudice. Tale elaborazione concettuale, accreditata anche dalla pronuncia delle Sezioni Unite, è andata incontro ad alcuni inconvenienti che si registrano frequentemente nella prassi e di cui occorre prendere atto, per tentare di emendarli. Da un lato la probabilità logica viene spesso confusa con la probabilità statistica che, invece, esprime il coefficiente numerico della relazione tra una classe di condizioni ed una classe di eventi ed è quindi scevra da contenuti valutativi. Per evitare fraintendimenti tra i diversi usi del termine probabilità, il concetto di probabilità logica può essere sostituito con quello di corroborazione dell’ipotesi; alludendosi con ciò al resoconto che sintetizza l’esito della discussione critica sulle prove, alimentata dai segni di conferma o di confutazione delle ipotesi esplicative. In ogni caso, quando si parla di probabilità occorre aver presente la polisemia: si deve evitare l’errore di confondere le due categorie, e va pure vinta la tentazione di superare le difficoltà ingenerate, in alcuni casi, nell’indagine causale dall’insufficiente coefficiente numerico dell’informazione statistica, sostituendo fittiziamente alla probabilità statistica la probabilità logica. Dall’altro lato, proprio l’indicato contenuto valutativo, discrezionale dell’idea di probabilità logica ha aperto la strada a degenerazioni di tipo retorico nell’uso di tale strumento concettuale: si propone una qualunque argomentazione causale e si afferma apoditticamente che essa è, appunto, dotata di alta probabilità logica, così eludendo l’esigenza di una ricostruzione rigorosa del nesso causale. È chiaro che la componente valutativa insita nel concetto di cui ci occupiamo lo rende particolarmente adatto all’uso giurisprudenziale. Ma deve essere pure chiaro che ciò può avvenire solo in un modo rigidamente controllato; ed il controllo critico può essere costituito solo da una rigorosa attenzione ai fatti ed ai dettagli di ciascuna contingenza quali fattori di superamento di ciò che di astratto, retorico, fumoso può esservi in tale elaborazione concettuale. Si tratta di un’esigenza di concretezza e di attenzione ai fatti che, del resto, può essere senz’altro scorta nella recente giurisprudenza di legittimità. La gestione non corretta di tale ordine concettuale si risolve in vizio logico soggetto al sindacato di legittimità. Un errore del genere, pertinente alla considerazione delle peculiarità fattuali del caso si rinviene nella pronunzia in esame, come sarà esposto nel prosieguo (SU, 38343/2014). Ai sensi dell’art. 40 comma 1, un antecedente può essere considerato condizione necessaria dell’evento quando rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare, conforme cioè a una regola dotata di validità generalizzante (detta anche legge generale di copertura), porti ad eventi del genere di quello in verifica. Cioè, il nesso di condizionamento sussiste tutte le volte in cui un evento derivi da un altro, il quale si ponga come una delle condizioni senza il verificarsi del quale -  normalmente - l’evento derivato non sarebbe accaduto. Pertanto, può dirsi che è causale quel comportamento (azione od omissione) dell’uomo al quale segue, secondo l’id quod plerumque accidit, il verificarsi dell’evento dannoso o pericoloso; e ciò indipendentemente dal concorrere di condizioni (fattori, circostanze) preesistenti o simultanee ovvero sopravvenute, a meno che queste ultime risultino da sè sufficienti a determinare l’evento. Nel campo del diritto il fattore riferibile al comportamento dell’uomo è chiamato causa, essendo dato per scontato (c.d. assunzioni tacite", secondo la nomenclatura proposta da una nota dottrina) che tutti gli altri sinergici eventi, cronologicamente precedenti o coevi o successivi (se inseritisi secondo la normalità del traffico" causale), non interessano specificamente la ricerca della causa (giuridica): essi restano presupposti ed assunti nella clausola (sottintesa) coeteris paribus. Ne segue che quando l’evento-causa sia riconducibile alla condotta umana, impregiudicata l’ulteriore analisi sulle condizioni d’imputabilità soggettiva, correttamente si afferma che la causa dell’evento oggetto d’indagine da cui dipende l’esistenza del reato, secondo la formula codicistica, fu il comportamento (azione od omissione) dell’uomo. Il rapporto di causalità tra condotta ed evento costituisce una delle componenti oggettive della fattispecie penale e, per questo, il relativo accertamento deve seguire secondo criteri obbiettivi (preesistenti al giudizio), estraibili dall’osservazione empirica e forniti del requisiti della generalità (generalizzazione) e della ripetitività con elevato grado di conferma, sicché sia assicurato un buon grado di obbiettività nell’accertamento dell’elemento oggettivo della fattispecie di reato (Sez. 4, 12259/2015). 

In tema di prova scientifica del nesso causale, mentre ai fini dell’assoluzione dell’imputato è sufficiente il solo serio dubbio, in seno alla comunità scientifica, sul rapporto di causalità tra la condotta e l’evento, la condanna deve, invece, fondarsi su un sapere scientifico largamente accreditato tra gli studiosi, richiedendosi che la colpevolezza dell’imputato sia provata "al di là di ogni ragionevole dubbio". In applicazione del principio la Corte  richiamando espressamente i limiti del sindacato di legittimità rispetto al sapere scientifico  ha ritenuto immune da censure la sentenza di assoluzione degli amministratori delegati e dei presidenti del consiglio d’amministrazione di una società dal reato di omicidio colposo ai danni di lavoratori esposti ad amianto, che aveva argomentato la mancanza di prova del nesso causale sulla duplice considerazione che gli imputati avevano assunto la carica a distanza di molti anni dalla cosiddetta "iniziazione" della malattia tumorale, e che costituiva ancora oggetto di dibattito nella comunità scientifica la sussistenza di un effetto acceleratore sul mesotelioma dell’esposizione ad amianto anche nella fase successiva a quella dell’ "iniziazione" (Sez. 4, 55005/2017).

Da dove provengono le leggi utilizzabili dal giudice? Le fonti non possono che essere due: la scienza e l’esperienza. Esula dalla presente trattazione l’analisi del problema dell’utilizzabilità delle leggi di matrice esperienziale. Ci soffermeremo invece sulle leggi scientifiche, che vengono in rilievo nell’ottica della regiudicanda sub iudice. Cos’è una legge scientifica? A quali condizioni può dirsi che un enunciato abbia valenza di legge scientifica? Su questo tema si registra una sostanziale convergenza del pensiero scientifico ed epistemologico nell’enucleazione dei seguenti requisiti: la generalità; la controllabilità; il grado di conferma; l’accettazione da parte della comunità scientifica internazionale. A). È, in primo luogo, necessario che la legge soddisfi il requisito della generalità: occorre infatti che i casi osservati non coincidano con il campo di applicazione della legge. Ad esempio, l’asserto secondo il quale se si conficca un pugnale nel cuore di un essere umano, questi muore, ha una portata generale perché, pur essendo vero che il numero di esempi finora osservati di pugnali conficcati cuori umani è finito, esiste un’infinità di esempi possibili. Se un’asserzione non affermasse nulla di più di quanto venga affermato dalle sue prove, sarebbe assurdo adoperarla per spiegare o per predire qualcosa che non sia già contenuto nelle prove medesime. B) La controllabilità. È coessenziale alla nozione di scientificità la possibilità di assoggettare la teoria a controllo empirico e, pertanto, di valutarla alla luce dei controlli osservativi e sperimentali. Una teoria risulta soddisfacente di fatto (e non solo potenzialmente) se supera i controlli più severi: specialmente quelli che possono essere ritenuti cruciali ancor prima di venire esperiti. Tuttavia, per quante conferme una teoria possa avere avuto, essa non è mai certa, in quanto un controllo successivo può sempre smentirla. Miliardi di conferme non rendono certa una teoria (ad esempio, tutti i pezzi di legno galleggiano in acqua) mentre un solo fatto negativo (questo pezzo di ebano non galleggia), dal punto di vista logico, la falsifica. Di qui il celebre criterio della falsificabilità elaborato nel pensiero epistemologico moderno, secondo cui un sistema teorico è scientifico solo se può risultare in conflitto con certi dati dell’esperienza. È la caratteristica logica di essere deduttivamente falsificabili che contraddistingue le teorie scientifiche. Le teorie pseudo-scientifiche, come l’astrologia, fanno talvolta predizioni corrette ma sono formulate in un modo tale da essere in grado di sottrarsi ad ogni falsificazione e perciò non sono scientifiche. Va da sé che ove un’affermazione scientifica si imbatta in un singolo caso falsificante, essa deve essere immediatamente respinta. La controllabilità coincide con la falsificabilità e cioè con la smentibilità. Non esiste quindi alcun processo induttivo mediante cui le teorie scientifiche siano confermate. Noi possiamo controllare la validità delle teorie scientifiche esclusivamente deducendone conseguenze e respingendo quelle teorie che implicano una singola conseguenza falsa. C) Grado di conferma di una teoria scientificaStrettamente connesso alla nozione di controllabilità è il concetto di grado di conferma o di corroborazione di una teoria. Per grado di corroborazione di una teoria è da intendersi, in quest’ottica, un resoconto valutativo dello stato  ad un determinato momento storico  della discussione critica di una teoria, relativamente al suo grado di controllabilità, alla severità dei controlli cui è stata sottoposta e al modo in cui li ha superati. In sintesi, una valutazione globale del modo in cui una teoria ha retto, fino ad un certo momento della sua discussione critica, ai controlli empirici cui è stata sottoposta; e una valutazione dei risultati dei detti controlli empirici. È pertanto possibile parlare esclusivamente del grado di corroborazione di una teoria ad un determinato momento della sua discussione critica e non in assoluto. Al riguardo, anche dalla giurisprudenza d’oltre oceano (sentenza della Corte Suprema degli Stati uniti 28 giugno 1993, pronunziata nel caso Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals Inc., che ha analizzato il problema degli effetti teratogeni di un farmaco antinausea, il Bendectin) provengono indicazioni interessanti. La sentenza Daubert indica infatti i seguenti. criteri di affidabilità delle teorie scientifiche: 1) Verificabilità del metodo. Il primo carattere che la conoscenza scientifica deve possedere è quello della verificabilità: una teoria è scientifica se può essere controllata mediante esperimenti. 2) Falsificabilità. Il secondo criterio richiede che la teoria scientifica sia sottoposta a tentativi di falsificazione, i quali, se hanno esito negativo, la confermano nella sua credibilità. 3) Conoscenza del tasso di errore. Occorre che al giudice sia resa nota, per ogni metodo proposto, la percentuale di errore accertato o potenziale che questo comporta. In questa prospettiva, si è evidenziato, in giurisprudenza, che la legge causale scientifica può considerarsi tale soltanto dopo essere stata sottoposta a ripetuti, superati tentativi di falsificazione e dopo avere avuto ripetute conferme, donde, appunto, l’"alto grado di conferma" che la contraddistingue e donde la "fiducia" che non può non esserle riservata. La certezza che essa esprime viene connotata con le formule "alto grado di probabilità ", "alto grado di credibilità razionale ", "alto grado di conferma", proprio perché non è un valore assoluto, non è un’acquisizione irreversibile, poiché è certezza "allo stato" ma va aggiunto allo stato è certezza e non probabilità. D) Il requisito più pregnante, nell’ottica della giurisprudenza di legittimità, però quello della diffusa accettazione in seno alla comunità scientifica internazionale. La rilevanza di questo requisito è tale da segnare il discrimine tra affermazione e negazione del nesso di causalità. Incertezza scientifica significa mancanza di accettazione da parte della generalità della comunità scientifica della validazione di un’ipotesi. E da tale incertezza non può che conseguire l’assoluzione dell’imputato perché in questi casi non può ritenersi realizzata l’evidenza probatoria in ordine all’effettiva efficacia condizionante della condotta. Il giudice è , pertanto, tenuto ad accertare se gli enunciati che vengono proposti trovino comune accettazione nell’ambito della comunità scientifica (Sez. 4, 43796/2010), esaminando le basi fattuali sulle quali le argomentazioni del perito sono state condotte; l’ampiezza, la rigorosità e l’oggettività della ricerca; l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica nonchè il grado di consenso che le tesi sostenute dall’esperto raccolgono nell’ambito della comunità scientifica (Sez. 4, 18678/2012). Rimane, però, fermo che, ai fini della ricostruzione del nesso causale, è utilizzabile anche una legge scientifica che non sia unanimemente riconosciuta, essendo sufficiente il ricorso alle acquisizioni maggiormente accolte o generalmente condivise, attesa la diffusa consapevolezza della relatività e mutabilità delle conoscenze scientifiche (SU, 25-1-2005, Sez. 4, 36280/2012). Di tale indagine il giudice è chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e utilizzate e fornendo una razionale giustificazione, in modo completo e, il più possibile, comprensibile a tutti, dell’apprezzamento compiuto. Si tratta di accertamenti e valutazioni di fatto, insindacabili in cassazione, ove sorretti da congrua motivazione, poiché il giudizio di legittimità non può che incentrarsi esclusivamente sulla razionalità, completezza e rigore metodologico del predetto apprezzamento. Il giudice di legittimità, infatti, non è giudice del sapere scientifico e non detiene proprie conoscenze privilegiate (Sez. 4, 1826/2017), di talchè esso non può, ad esempio, essere chiamato a decidere se una legge scientifica, di cui si postuli l’utilizzabilità nell’inferenza probatoria, sia o meno fondata (Sez. 4, 43786/2010). La Corte di cassazione ha invece il compito di valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare e indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto (Sez. 4, 42128/2008). Questa impostazione è coerente con gli approdi della più avveduta giurisprudenza sull’argomento. Si è poc’anzi analizzata la sentenza Daubert. Orbene, questa sentenza addita espressamente all’interprete l’importanza del requisito della sottoposizione al controllo della comunità scientifica internazionale, mediante la pubblicazione sulle più diffuse riviste specializzate, e della generale accettazione in seno alla comunità degli esperti. È vero che la sentenza Daubert attribuisce a tale requisito un carattere ausiliario ma non indispensabile, affermando che una valutazione di affidabilità ammette ma non richiede l’esplicita identificazione di una comunità scientifica rilevante e una espressa definizione di un particolare grado di accettazione all’interno di quella comunità. Ma rimane comunque fermo che, nella prospettiva delineata da questa sentenza, l’accettazione diffusa può essere un fattore importante per stabilire l’ammissibilità di una particolare prova mentre una tecnica che è stata in grado di ottenere soltanto un consenso sporadico nella comunità scientifica può essere vista con scetticismo. Del resto, il criterio in disamina era stato accolto dalla giurisprudenza nordamericana fin dal 1923, con la sentenza Frye, secondo la quale una prova scientifica può essere ammessa soltanto quando sia fondata su un principio o una scoperta sufficientemente stabile, sì da aver ricevuto generale accettazione nell’ambito di ricerca al quale attiene. Del resto, non esistendo, fra gli epistemologi, un accordo sull’esistenza di un unico metodo scientifico e proponendo la "corrente metodologia" metodi di ricerca diversi e fra loro in contrasto, l’esigenza di assicurare al massimo grado la certezza richiesta dal diritto impone al giudice di considerare affidabili solo teorie scientifiche che, oltre a possedere i requisiti poc’anzi illustrati, godano del consenso generale. Sulla base delle considerazioni appena formulate è dunque possibile affermare che le leggi scientifiche utilizzabili dal giudice per la spiegazione causale sono esclusivamente quelle connotate da un elevato grado di conferma empirica e di corroborazione, per il superamento dei tentativi di falsificazione, e che godano inoltre di un diffuso consenso, nell’ambito della comunità scientifica internazionale. 6. Una volta stabilito quali debbano essere i requisiti delle leggi scientifiche utilizzabili dal giudice nella valutazione del nesso causale, analizziamo un ulteriore profilo, inerente alla loro natura. Nell’ambito della categoria delle leggi scientifiche, la summa divisio si pone tra leggi di carattere universale e leggi di carattere statistico. Le prime sono quelle che asseriscono, nella successione di determinati eventi, invariabili regolarità, senza eccezioni. Le seconde si limitano invece ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa. Sono leggi universali, ad esempio, le asserzioni: tutte le volte in cui una sbarra di ferro magnetizzata viene spezzata in due, entrambe le sue parti sono ancora magneti; se un individuo viene lasciato senza mangiare né bere, muore. Sono invece leggi statistiche le asserzioni del tipo: se viene lanciato un dado simmetrico, la probabilità che esso si arresti volgendo verso l’alto una determinata faccia è di uno a sei; il fumo provoca il cancro al polmone; l’esposizione a cloruro di vinile monomero provoca l’angiosarcoma epatico. Leggi probabilistiche si incontrano praticamente in tutte le discipline, dalla fisica all’economia, dalla biologia alla medicina, dalla psicologia alle scienze sociali. Si distinguono leggi probabilistiche epistemiche e leggi probabilistiche intrinseche: le prime assumono che esistano, in relazione ai fenomeni oggetto d’indagine, autentiche leggi universali, che però sono ignote, ragion per cui il probabilismo è soltanto frutto dei limiti della conoscenza scientifica attuale; le seconde costituiscono invece, per quel che ad oggi è dato sapere, autentiche leggi stocastiche, irriducibili a leggi universali. Ve ne sono innumerevoli, ad esempio nella fisica quantistica e nella genetica. La Corte di cassazione ha affermato che il ricorso alle leggi statistiche da parte del giudice è più che legittimo perché il modello della sussunzione sotto leggi sottende, il più delle volte, necessariamente il distacco da una spiegazione causale deduttiva, che implicherebbe una impossibile conoscenza di tutti i fatti e di tutte le leggi pertinenti (Sez. 4, 6 dicembre 1990, relativa alla frana di Stava, verificatasi il 9 luglio 1985). E, correttamente, le Sezioni unite, hanno sottolineato che, ove si ripudiasse la natura eminentemente induttiva dell’accertamento giudiziale e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica certezza assoluta, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penate in settori nevralgici per la tutela di beni primari, stabilendo conseguentemente che la spiegazione causale dell’evento può essere tratta da leggi scientifiche, universali o statistiche, enucleabili anche da rilevazioni epidemiologiche (SU, 10 luglio 2002, Franzese). Indubbiamente, però, qualora si circoscrivesse lo spettro cognitivo alla sola considerazione dello spessore statistico-quantitativo del parametro nomologico utilizzato, laddove venisse utilizzata, come premessa maggiore del sillogismo esplicativo, una legge statistica con coefficiente percentualistico elevato ma non prossimo al 100%, gli approdi decisori assai raramente si configurerebbero in termini di certezza. Ad esempio, si considera statisticamente provato che il fumo possa produrre il cancro al polmone. Tuttavia, non soltanto vi sono accaniti fumatori che non contraggono il cancro al polmone ma vi sono anche molte persone che contraggono questo tipo di tumore senza aver mai fumato: quindi il fumo non ne costituisce condicio sine qua non. Ne deriva che perfino se riscontrassimo un cancro al polmone in un fumatore, non potremmo concludere con certezza che il fumo ne sia stato la causa. A fortiori, una correlazione statistica di bassa frequenza non è in grado di fondare l’imputazione causale dell’evento singolo. Per colmare le carenze epistemiche derivanti dall’utilizzo di parametri nomologici che, di per sé, non assicurano la certezza, è stato elaborato, in giurisprudenza, il concetto di "probabilità logica". Su questo versante, viene in rilievo la differenza fra probabilità statistica e probabilità logica. Mentre la prima attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli eventi, la seconda contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale. Dunque, il concetto di probabilità logica impone di tener conto di tutte le caratteristiche del caso concreto, integrando il criterio della frequenza statistica con tutti gli elementi astrattamente idonei a modificarla. Ad esempio: dall’indagine statistica si rileva che la somministrazione di una determinata terapia per contrastare una certa patologia, ha avuto efficacia positiva nell’80% dei casi. Rimanendo ancorati al dato statistico, non è possibile affermare il nesso di condizionamento tra la condotta del medico che abbia omesso di prescrivere la terapia e la morte del paziente perché residuerebbe un rischio troppo elevato di condannare un innocente, dato che nel 20% dei casi la terapia non ha avuto efficacia risolutiva. Se la probabilità statistica viene invece integrata da tutti gli elementi forniti dall’evidenza disponibile, è possibile pervenire ad una valutazione, in un senso o nell’altro, connotata da un elevato grado di credibilità razionale, non più espresso in termini meramente percentualistici. Le caratteristiche del caso concreto da prendere in considerazione potranno inerire all’età, al sesso del paziente, allo stadio cui era pervenuta la patologia, alla tempestività dell’accertamento della malattia, alle condizioni di salute generale del soggetto, alla presenza di altre patologie, alla necessaria assunzione, da parte del paziente, di altri farmaci che interferiscono con la terapia praticata e, in generale, a tutte le circostanze che possono aumentare o diminuire le speranze di sopravvivenza. E le Sezioni unite, nella sentenza Franzese, hanno affermato che anche coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica o da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche, pur imponendo verifiche particolarmente attente sia in merito alla loro fondatezza che alla specifica applicabilità alla fattispecie concreta, possono essere utilizzati per l’accertamento del nesso di condizionamento, ove siano corroborati dal positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza, nel caso di specie, di altri fattori interagenti in via alternativa. Il procedimento logico, non dissimile, secondo le Sezioni unite, dalla sequenza del ragionamento inferenziale, dettato, in tema di prova indiziaria, dall’art. 192, comma 2, CPP, deve pertanto condurre alla conclusione, caratterizzata da "un alto grado di credibilità razionale , quindi alla "certezza processuale", che , esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici , sia stata condizione "necessaria" dell’evento , attribuibile perciò all’agente come fatto proprio. L’ulteriore passo sarà costituito, nell’ottica del giudizio di probabilità logica, dalla ricerca  e, eventualmente, dall’esclusione  di decorsi causali alternativi. Dunque l’attività investigativa del pubblico ministero prima e quella istruttoria del giudice poi non devono essere dirette soltanto ad ottenere la conferma dell’ipotesi formulata ma devono riguardare anche l’esistenza di fattori causali alternativi, che possano costituire elementi di smentita dell’ipotesi prospettata. L’impossibilità di escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’esistenza di fattori causali alternativi non consente di ritenere processualmente certo il rapporto di causalità e dunque. di attribuire, sotto il profilo oggettivo, l’evento all’imputato. In giurisprudenza, si è, in proposito, precisato però che il giudice deve adeguatamente motivare la conclusione sulla possibile esistenza di fattori alternativi di spiegazione dell’evento e non può contrapporre ai dati di fatto accertati mere congetture per ipotizzare tali spiegazioni. E le Sezioni unite hanno ribadito che il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sulla base dell’analisi delle connotazioni del fatto storico e delle peculiarità del caso concreto (SU, 38343/2014). La via per giungere ad un corretto giudizio di probabilità logica è additata dalle Sezioni unite nel procedimento abduttivo, strumento principe dell’accertamento della condizionalità necessaria (SU, 10.7.2002, Franzese). Lo schema dell’abduzione è il seguente: si osserva F, un fatto sorprendente, di cui si vogliono ricercare le cause; se A fosse vero, allora F sarebbe naturale; vi è quindi motivo di credere che A sia vero. Dunque, al fine di trovare una spiegazione di un fatto problematico, dobbiamo elaborare un’ipotesi o congettura da cui dedurre delle conseguenze, le quali, a loro volta, possano essere collaudate empiricamente. Il primo passo è pertanto la formulazione di un’ipotesi esplicativa. Si procede poi, per via deduttiva, a trarre dall’ipotesi le previsioni dei risultati di determinate verifiche. Si eseguono quindi le verifiche e si confrontano le previsioni con i risultati di essi, concludendo con la validazione o l’invalidazione dell’ipotesi. L’abduzione cerca quindi di risalire dai fatti alle loro cause, procedendo dal conseguente all’antecedente. Dunque, la logica abduttiva è un ragionare all’indietro: dall’esperienza all’ipotesi. Il punto di partenza è un fatto sorprendente, che genera "uno stato di insoddisfazione", che "stimola alla ricerca". Orbene, l’indagante formula un’ipotesi di spiegazione che è un tentativo di ricondurre l’evento sorprendente alle sue cause sulla base di una qualche forma di regolarità nomologica. Una volta formulata un’ipotesi di spiegazione dei fatti, ciò che si deve fare è trarne le conseguenze per deduzione o con confrontarle con i risultati delle verifiche e scartare l’ipotesi, provandone un’altra, non appena la prima verrà smentita. Sulla base delle considerazioni dianzi formulate, le Sezioni unite, con impostazione sostanzialmente confermata dalla giurisprudenza successiva, hanno enucleato, per quanto attiene alla responsabilità professionale del medico, relativamente al profilo eziologico, i seguenti principi di diritto: il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio contro fattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica  universale o statistica , si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe * verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosi che, all’esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con "alto grado di credibilità razionale". L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio (SU, 10.7.2002, Franzese). Ne deriva che nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità. Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra l’omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorché risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore modalità migliorative, anche sotto il profilo dell’intensità della sintomatologia dolorosa (Sez. 4, 47748/2018).

La Corte di legittimità non è per nulla detentrice di proprie certezze in ordine all’affidabilità della scienza, sicché non può essere chiamata a decidere, neppure a Sezioni unite, se una legge scientifica di cui si postula l’utilizzabilità nell’inferenza probatoria sia o meno fondata. Tale valutazione, giova ripeterlo, attiene al fatto. Al contrario, il controllo che la Corte Suprema è chiamata ad esercitare attiene alla razionalità delle valutazioni che a tale riguardo il giudice di merito esprime (Sez. 4, 27521/2018, in esplicita adesione a Sez. 4, 43786/2010). 

In tema di rapporto di causalità, l’individuazione della cosiddetta legge scientifica di copertura sul collegamento tra la condotta e l’evento presuppone una documentata analisi della letteratura scientifica universale in materia con l’ausilio di esperti qualificati ed indipendenti (Sez. 4, 18933/2014).

Il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Sez. 4, 28571/2016).

Nella verifica dell’imputazione causale dell’evento occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato: il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta. Detta valutazione risulta di maggiore complessità in riferimento alle fattispecie omissive ovvero ogni qual volta la condotta, anche se attiva, risulti qualificata dalla rilevanza causale di condizioni negative dell’evento, in rapporto al contenuto omissivo della colpa. In tali fattispecie, qualificate dalla presenza di condizioni negative dell’evento, si rende indispensabile la costruzione di decorsi causali ipotetici: il giudice, procedendo alla ricostruzione controfattuale del nesso causale, deve interrogarsi in ordine all’evitabilità dell’evento, per effetto delle condotte doverose mancate che, naturalisticamente, costituiscono un "nulla". La giurisprudenza di legittimità ha anche enunciato il carattere condizionalistico della causalità omissiva, indicando il seguente itinerario probatorio: il giudizio di certezza sul ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario e si fonda anche sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico, da effettuarsi ex post sulla base di tutte le emergenze disponibili; e culmina nel giudizio di elevata "probabilità logica (SU, 30328/2002).

Le incertezze alimentate dalle generalizzazioni probabilistiche possono essere in qualche caso superate nel crogiuolo del giudizio focalizzato sulle particolarità del caso concreto quando l’apprezzamento conclusivo può essere espresso in termini di elevata probabilità logica. Ai fini dell’imputazione causale dell’evento, pertanto, il giudice di merito deve sviluppare un ragionamento esplicativo che si confronti adeguatamente con le particolarità della fattispecie concreta, chiarendo che cosa sarebbe accaduto se fosse stato posto in essere il comportamento richiesto dall’ordinamento. Poiché il giudice non può conoscere tutte le fonti intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, né procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale (Sez. 4, 12360/2014).

In tema di nesso di causalità, il giudizio controfattuale  imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento, richiede preliminarmente l’accertamento di ciò che è accaduto (c.d. giudizio esplicativo) per il quale la certezza processuale deve essere raggiunta (Sez. 4, 23339/2013).

Qualora siano prospettabili più ipotesi alternative in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra la condotta e l’evento, non è censurabile la sentenza che affermi la sussistenza del nesso causale tra la condotta dell’imputato e l’evento, senza precisare quale tra esse si sia realmente verificata, qualora identiche siano le conseguenze giuridiche dall’una o dall’altra derivanti. Con ciò si intende affermare che lì dove vengano proposte  sul piano scientifico  un numero ristretto di ipotesi esplicative, è necessario  escludendo altri fattori incidenti con assoluta certezza, come nel caso in esame  concentrarsi sugli effetti in diritto che derivano, in tesi, dalla validazione dell’una o dell’altra ipotesi, secondo la disciplina normativa vigente del nesso causale e del concorso di cause (artt. 40 e 41) (Sez. 1, 5306/2018).

In tema di circolazione stradale e concorso di cause, ai sensi dell’art. 40, comma 1, un antecedente può essere considerato condizione necessaria dell’evento quando rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione necessaria, porti ad eventi del genere di quello poi verificatosi in concreto, indipendentemente dal concorrere di altre condizioni, salvo quelle sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento. Deve pertanto affermarsi che in tema di circolazione stradale, perché una data condotta, tenuta da un utente della strada in violazione di norme specifiche o solo di prudenza, sia causa efficiente e condizionante del verificarsi di un sinistro è sufficiente che crei una situazione di pericolo o di ragionevole allarme tale da spingere l’utente in potenziale conflitto a porre in essere una manovra che, altrimenti, non avrebbe compiuto, dall’esecuzione della quale derivi poi il verificarsi di un evento di danno (Sez. 4, 39766/2015).

 

Causalità nei reati omissivi impropri

La riflessione sull’indagine causale non può prescindere dalla considerazione delle neglette peculiarità della causalità omissiva. Qui il ragionamento si articola diversamente e dà luogo ad un’inferenza predittiva. Come si è anticipato, il giudice penale svolge tale tipo di ragionamento di carattere previsionale, anche se si rivolge al passato, quando, per restare alle problematiche eziologiche, si interroga, nell’ambito della causalità omissiva, in ordine all’evitabilità dell’evento per effetto delle condotte doverose mancate. Anche in tale ambito noi abbiamo comunque un fatto, di cui dobbiamo in primo luogo dare una spiegazione complessiva prima di interrogarci sul ruolo causale dell’omissione che ci interessa. In questa prima parte dell’indagine causale noi utilizziamo quasi sempre il modello esplicativo ipotetico sin qui esaminato. Entro il complessivo contesto fattuale così investigato dobbiamo poi inserire la condotta umana doverosa che è invece mancata: si tratta di un giudizio predittivo, di una prognosi. Noi ci interroghiamo su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta. In questo ragionamento insorgono peculiari difficoltà. L’omissione, come si è accennato, costituisce un nulla dal punto di vista naturalistico, sicché nel giudizio controfattuale noi inseriamo una condotta astratta, idealizzata. Inoltre per prevedere ciò che sarebbe accaduto nel singolo caso oggetto del processo è di grande importanza conoscere cosa accade nei casi simili. Occorre dunque rivolgersi alle generalizzazioni formatesi a proposito del nesso causale che c’interessa, se esistenti. Qui noi utilizziamo le generalizzazioni scientifiche o esperienziali in chiave eminentemente deduttiva e, per tale ragione, è assai importante il coefficiente probabilistico (parliamo di probabilità statistica) della regolarità causale che utilizziamo. La misura di certezza o d’incertezza che caratterizza la generalizzazione utilizzata si trasferisce, infatti, dalla premessa maggiore alla conclusione del sillogismo probatorio. L’uso dello strumento deduttivo può tuttavia implicare gravi problemi, soprattutto in ambiti complessi. Infatti, spesso non disponiamo affatto di generalizzazioni affidabili ma solo di lacunose ed in qualche caso anche contraddittorie informazioni statistiche. Ma anche quando disponiamo di informazioni sufficientemente esaustive ed affidabili, esse hanno carattere molto generale e non appaiono focalizzate sui tratti della specifica vicenda oggetto del processo. Una descrizione dell’evento non priva di qualche specificità ci farà trovare di fronte all’assenza di informazioni pertinenti. Ad esempio, sappiamo che una determinata percentuale di persone sopravvive dopo essere stata curata a seguito di infarto del miocardio, ma non sappiamo quale esatto peso vi abbiano i diversi fattori di rischio quali l’età, il sesso, le condizioni generali e numerose altre variabili individuali. La conclusione è che noi non disponiamo quasi mai di uno strumento deduttivo sufficientemente affidabile. Tale situazione, che rischia di frustrare in radice le inferenze della causalità omissiva, apre la strada all’introduzione di un aggiuntivo momento di tipo induttivo nella complessiva argomentazione probatoria. In breve, le eventuali generalizzazioni disponibili, di cui è già stata mostrata la vocazione, nel contesto in esame, all’utilizzazione in chiave deduttiva, vengono integrate da un passaggio di tipo induttivo elaborato dal giudice sulla base delle particolarità del caso concreto. Perciò, nell’esempio dell’infarto, se il paziente era giovane, l’infarto non devastante, le condizioni generali buone, si può giungere a ritenere che diagnosi e trattamento tempestivi avrebbero evitato l’evento. La valutazione finale si esprimerà anche qui in termini di elevata probabilità logica, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, ovvero di corroborazione dell’ipotesi: è ciò che accade oggi nella prassi. In breve il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario, si fonda anche sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e culmina nel già detto giudizio di elevata probabilità logica, IV est di corroborazione dell’ipotesi. Le incertezze alimentate dalle generalizzazioni probabilistiche possono essere in qualche caso superate nel crogiuolo del giudizio focalizzato sulle particolarità del caso concreto, quando l’apprezzamento conclusivo può essere espresso in termini di elevata probabilità logica. È il piano processuale che, richiedendo un approccio valutativo, può in alcuni casi consentire di metabolizzare la misura d’incertezza che spesso si riscontra nei giudizi della giurisprudenza. Tale soluzione rende praticabile il giudizio d’imputazione dell’evento, allontanando la prospettiva di indiscriminata impunità anche per condotte omissive gravemente trascurate e dannose. Anche qui tuttavia occorre ribadire il pericolo di degenerazioni di tipo retorico che, come si riscontra talvolta nella prassi, imprimono arbitrariamente il suggello dell’elevata probabilità logica su ragionamenti probatori che rimangono altamente incerti quanto al carattere salvifico delle condotte mancate; e che non si confrontano adeguatamente con le particolarità della fattispecie concreta. Anche in tale ambito, il rischio di ingannevoli distorsioni del giudizio può essere evitato solo attraverso una serrata ricerca  prima  ed analisi  poi  delle contingenze nel caso concreto che, come si è accennato, in qualche caso ma non sempre, possono consentire di superare in chiave induttiva il tratto probabilistico (in chiave numerica) dell’inferenza deduttiva (SU, 38343/2014).

 

Posizione di garanzia, in generale

Come è noto, il sistema prevenzionistico è tradizionalmente fondato su diverse figure di garanti che incarnano distinte funzioni e diversi livelli di responsabilità organizzativa e gestionale. La prima e fondamentale figura è quella del datore di lavoro. Si tratta del soggetto che ha la responsabilità dell’organizzazione dell’azienda o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. La definizione contenuta nel T.U. è simile a quella espressa nella normativa degli anni ‘90 ed a quella fatta propria dalla giurisprudenza; e sottolinea il ruolo di dominus di fatto dell’organizzazione ed il concreto esercizio di poteri decisionali e di spesa. L’ampiezza e la natura dei poteri è ora anche indirettamente definita dall’articolo 16 che, con riferimento alla delega di funzioni, si occupa del potere di organizzazione, gestione, controllo e spesa. Il dirigente costituisce il livello di responsabilità intermedio: è colui che attua le direttive del datore di lavoro, organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa, in virtù di competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli. Il dirigente, dunque, ai sensi della normativa richiamata, nell’ambito del suo elevato ruolo nell’organizzazione delle attività, è tenuto a cooperare con il datore di lavoro nell’assicurare l’osservanza della disciplina legale nel suo complesso; e, quindi, nell’attuazione degli adempimenti che l’ordinamento demanda al datore di lavoro. Tale ruolo, naturalmente, è conformato ai poteri gestionali di cui dispone concretamente. Ciò che rileva, quindi, non è solo e non tanto la qualifica astratta, ma anche e soprattutto la funzione assegnata e svolta. Infine, il preposto è colui che sovraintende alle attività, attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione, sulla base e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico. Per ambedue le ultime figure occorre tener conto da un lato dei poteri gerarchici e funzionali che costituiscono base e limite della responsabilità; e dall’altro del ruolo di vigilanza e controllo. Si può dire, in breve, che si tratta di soggetti la cui sfera di responsabilità è conformata sui poteri di gestione e controllo di cui concretamente dispongono. Dette definizioni di carattere generale subiscono specificazioni in relazione a diversi fattori, quali il settore di attività, la conformazione giuridica dell’azienda, la sua concreta organizzazione, le sue dimensioni. Ed è ben possibile che in un’organizzazione di qualche complessità vi siano diverse persone, con diverse competenze, chiamate a ricoprire i ruoli in questione. Queste considerazioni di principio evidenziano che, soprattutto in realtà complesse come quella in esame, nell’ambito dello stesso organismo può riscontrarsi la presenza di molteplici figure di garanti. Tale complessità suggerisce che l’individuazione della responsabilità penale passa non di rado attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le categorie giuridiche, i modelli di agente, dall’altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno. Si tratta, in breve, di una ricognizione essenziale per un’imputazione che voglia essere personalizzata, in conformità ai sommi principi che governano l’ordinamento penale; per evitare l’indiscriminata, quasi automatica attribuzione dell’illecito a diversi soggetti. L’analisi dei ruoli e delle responsabilità viene tematizzata entro la categoria giuridica della posizione di garanzia. Si tratta, come è ben noto, di espressione che esprime in modo condensato l’obbligo giuridico di impedire l’evento che fonda la responsabilità in ordine ai reati commissivi mediante omissione, ai sensi dell’art. 40, capoverso. Questo classico inquadramento deve essere rivisitato. In realtà il termine "garante" viene ampiamente utilizzato nella prassi anche in situazioni nelle quali si è in presenza di causalità commissiva e non omissiva; ed ha assunto un significato più ampio di quello originario, di cui occorre acquisire consapevolezza. A tale riguardo, occorre preliminarmente considerare che la causalità condizionalistica, essendo basata in chiave logica, è caratterizzata dalla costitutiva, ontologica indifferenza per il rilievo, per il ruolo qualitativo delle singole condizioni, che sono tutte per definizione equivalenti. Ne discende l’esigenza di arginare l’eccessiva forza espansiva dell’imputazione del fatto determinata dal condizionalismo. Tale esigenza è alla base della causalità giuridica e costituisce una costante del diritto penale moderno, sia in ambito teorico che giurisprudenziale. La necessità di limitare l’eccessiva ed indiscriminata ampiezza dell’imputazione oggettiva generata dal condizionalismo è alla base di classiche elaborazioni teoriche: la causalità adeguata, la causa efficiente, la causalità umana, la teoria del rischio. Tale istanza si rinviene altresì nel controverso art. 41, capoverso, cod. pen. L’esigenza cui tali teorie tentano di corrispondere è sempre la medesima: tentare di limitare, separare le sfere di responsabilità, in modo che il diritto penale possa realizzare la sua vocazione ad esprimere un ben ponderato giudizio sulla paternità dell’evento illecito. Il contesto della sicurezza del lavoro fa emergere con particolare chiarezza la centralità dell’idea di rischio: tutto il sistema è conformato per governare l’immane rischio, gli indicibili pericoli, connessi al fatto che l’uomo si fa ingranaggio fragile di un apparato gravido di pericoli. Il rischio è categorialmente unico ma, naturalmente, si declina concretamente in diverse guise in relazione alle differenti situazioni lavorative. Dunque, esistono diverse aree di rischio e, parallelamente, distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare. Soprattutto nei contesti lavorativi più complessi, si è frequentemente in presenza di differenziate figure di soggetti investiti di ruoli gestionali autonomi a diversi livelli degli apparati; ed anche con riguardo alle diverse manifestazioni del rischio. Ciò suggerisce che in molti casi occorre configurare già sul piano dell’imputazione oggettiva, distinte sfere di responsabilità gestionale, separando le une dalle altre. Esse conformano e limitano l’imputazione penale dell’evento al soggetto che viene ritenuto "gestore" del rischio. Allora, si può dire in breve, garante è il soggetto che gestisce il rischio. Questa esigenza di delimitazione delle sfere di responsabilità è tanto intensamente connessa all’essere stesso del diritto penale quale scienza del giudizio di responsabilità, che si è fatta strada nella giurisprudenza, attraverso lo strumento normativo costituito dall’art. 41, capoverso. Infatti, la diversità dei rischi interrompe, per meglio dire separa le sfere di responsabilità. L’ordine di idee cui si fa cenno si rinviene, sia pure talvolta inconsapevolmente, nella giurisprudenza di legittimità. Il tema dell’interruzione del nesso causale ricorre con insistenza proprio nell’ambito di processi inerenti ad infortuni sul lavoro. L’effetto interruttivo è stato riconosciuto in rari ma significativi casi. Ai sensi dell’art. 41 capoverso il nesso eziologico può essere interrotto da una causa sopravvenuta che si presenti come atipica, estranea alle normali e prevedibili linee di sviluppo della serie causale attribuibile all’agente e costituisca, quindi, un fattore eccezionale. Analogamente la possibilità d’interruzione del nesso causale è stata ravvisata dalla Corte di cassazione (Sez. 4, 10733/1995) in altro caso di lesioni subite per effetto di condotta del lavoratore incongrua e non richiesta. E’ stato ribadito il noto principio che le norme dettate in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro perseguono il fine di tutelare il lavoratore persino in ordine ad incidenti derivati da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, sicché la condotta imprudente dell’infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento quando sia comunque riconducibile all’area di rischio inerente all’attività svolta dal lavoratore ed all’omissione di doverose misure antinfortunistiche da parte del datore di lavoro; ma si è aggiunto che il datore di lavoro è esonerato da responsabilità quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive organizzative ricevute. Anche qui compare la classica evocazione dell’eccezionalità della condizione sopravvenuta, costituita dalla condotta incongrua del lavoratore. Tuttavia, al fondo, anche la pronunzia in questione trae ispirazione dalla considerazione della riconducibilità o meno dell’evento e della condotta che vi ha dato causa all’area di rischio propria della prestazione lavorativa: linea argomentativa che viene del resto espressamente enunciata a fianco di quella tradizionale afferente  appunto  all’eccezionalità ed abnormità della condotta del lavoratore. In sintesi, si può cogliere in tale orientamento della giurisprudenza l’implicita tendenza a considerare interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore quando essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è "interruttivo" (per restare al lessico tradizionale) non perché "eccezionale" ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare. Tale eccentricità renderà magari in qualche caso (ma non necessariamente) statisticamente eccezionale il comportamento ma ciò è una conseguenza accidentale e non costituisce la reale ragione dell’esclusione dell’imputazione oggettiva dell’evento. Riconosciuta la sfera di rischio come area che designa l’ambito in cui si esplica l’obbligo di governare le situazioni pericolose che conforma l’obbligo del garante, ne discende altresì la necessità di individuare concretamente la figura istituzionale che può essere razionalmente chiamata a governare il rischio medesimo e la persona fisica che incarna concretamente quel ruolo. Questa enunciazione richiede, tuttavia, di essere chiarita: occorre guardarsi dall’idea ingenua, e foriera di fraintendimenti, che la sfera di responsabilità di ciascuno possa essere sempre definita e separata con una rigida linea di confine; e che questa stessa linea crei la sfera di competenza e responsabilità di alcuno escludendo automaticamente quella di altri. In realtà le cose sono spesso assai più complesse. Basti considerare la transitività delle condizioni che si susseguono all’interno di una catena causale; l’intreccio di obblighi che spesso coinvolgono diverse figure e diversi soggetti nella gestione di un rischio; la complessa figura della cooperazione colposa. Questa serie di differenti connessioni, con il suo carico di complessità, rende chiaro quanto delicata sia l’individuazione di aree di competenza pienamente autonome che giustifichino la compartimentazione della responsabilità penale; tanto più in un contesto come quello del diritto penale del lavoro imperniato sulla figura del datore di lavoro che è gravato da una pervasiva posizione di garanzia. Lo scopo del diritto penale, tuttavia, è proprio quello di tentare di governare tali intricati scenari, nella già indicata prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori. Le considerazioni sopra esposte trovano fondamento in alcune norme del T.U. che, sebbene contenute in un testo normativo successivo ai fatti, ripercorrono arresti della giurisprudenza ed aiutano a capire come nasce e si conforma la posizione di garanzia, id est la responsabilità gestoria che, in caso di condotte colpose, può fondare la responsabilità penale. Di grande interesse è l’art. 299: l’acquisizione della veste di garante può aver luogo per effetto di una formale investitura, ma anche a seguito dell’esercizio in concreto di poteri giuridici riferiti alle diverse figure. Un’ulteriore indicazione normativa per individuare in concreto i diversi ruoli deriva dall’art. 28, relativo alla valutazione dei rischi ed al documento sulla sicurezza, che costituisce una sorta di statuto della sicurezza aziendale. La valutazione riguarda «tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori». Il documento deve contenere la valutazione dei rischi, l’individuazione di misure di prevenzione e protezione, l’individuazione delle procedure, nonché dei ruoli che vi devono provvedere, affidati a soggetti muniti di adeguate competenze e poteri. Si tratta quindi di una sorta di mappa dei poteri e delle responsabilità cui ognuno dovrebbe poter accedere per acquisire le informazioni pertinenti. Mettendo insieme le indicazioni che pervengono dalle norme fin qui indicate che, come si è già accennato, recepiscono indirizzi della prassi ed attingono alla sfera della sensatezza, si può concludere che ruoli, competenze e poteri segnano le diverse sfere di responsabilità gestionale ed al contempo definiscono la concreta conformazione, la latitudine delle posizioni di garanzia, la sfera di rischio che deve essere governata. La sfera di responsabilità organizzativa e giuridica così delineata è per così dire originaria. Essa è generata dall’investitura formale o dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garanti. Nell’individuazione del garante, soprattutto nelle istituzioni complesse, occorre partire dalla identificazione del rischio che si è concretizzato, del settore, in orizzontale, e del livello, in verticale, in cui si colloca il soggetto che era deputato al governo del rischio stesso, in relazione al ruolo che questi rivestiva. Ad esempio, semplificando nel modo più banale, potrà accadere che rientri nella sfera di responsabilità del preposto l’incidente occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa; in quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell’organizzazione dell’attività lavorativa; in quella del datore di lavoro, invece, l’incidente derivante da scelte gestionali di fondo. Naturalmente, il quadro proposto è molto semplificato ed idealizzato e diviene non di rado assai più complesso nella realtà; quando, come nel caso in esame, le scelte di fondo sono il frutto dell’azione concertata di diverse figure che a quelle scelte hanno contribuito. Per ciò che qui maggiormente interessa, nell’ambito di organizzazioni complesse, d’impronta societaria, la veste datoriale non può essere attribuita solo sulla base di un criterio formale, magari indiscriminatamente estensivo, ma richiede di considerare l’organizzazione dell’istituzione, l’individuazione delle figure che gestiscono i poteri che danno corpo a tale figura ed ai quali si è sopra fatto cenno. L’investitura del garante può essere non solo originaria ma derivata. Anche qui recependo gli orientamenti della prassi, l’art. 16 del T.U. ha chiarito che la delega deve essere specifica, deve conferire poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa ben definiti, ad un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza. La materia della delega richiede un chiarimento di fondo piuttosto importante. È diffusa l’opinione (e la si rinviene spesso negli atti giudiziari) che i poteri e le responsabilità del dirigente e del preposto nascano necessariamente da una delega. Al contrario, le figure dei garanti hanno una originaria sfera di responsabilità che non ha bisogno di deleghe per essere operante, ma deriva direttamente dall’investitura o dal fatto. La delega è invece qualcosa di diverso: essa, nei limiti in cui è consentita dalla legge, opera la traslazione dal delegante al delegato di poteri e responsabilità che sono proprie del delegante medesimo. Questi, per così dire, si libera di poteri e responsabilità che vengono assunti a titolo derivativo dal delegato. La delega, quindi, determina la riscrittura della mappa dei poteri e delle responsabilità. Residua, in ogni caso, tra l’altro, come l’art. 16 del T.U. ha chiarito, un obbligo di vigilanza "alta", che riguarda il corretto svolgimento delle proprie funzioni da parte del soggetto delegato. Ma ciò che qui maggiormente rileva è che non vi è effetto liberatorio senza attribuzione reale di poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa pertinenti all’ambito delegato. In breve, la delega ha senso se il delegante (perché non sa, perché non può, perché non vuole agire personalmente) trasferisce incombenze proprie ad altri, cui attribuisce effettivamente i pertinenti poteri (SU, 38343/2014).

In generale, quando si parla di cautele da approntare per fronteggiare un rischio si fa riferimento ad un obbligo giuridico e non solo meramente morale o sociale. Peraltro, tale obbligo giuridico non sempre trova la sua fonte diretta in un assetto normativo. Il presente dell’esperienza giuridica mostra contesti di rischio oggetto di una articolata disciplina di settore: la sicurezza del lavoro e la circolazione stradale ne costituiscono gli esempi più noti. Si tratta di corpi normativi che dettano regole plurime, spesso dettagliate. Tali normative hanno importante rilievo, contribuendo significativamente a conferire determinatezza all’illecito colposo ed a concretizzare quindi, nello specifico contesto, il principio di legalità. Esse, tuttavia, non possono certamente esaurire ed attualizzare tutte le possibili prescrizioni atte a governare compiutamente rischi indicibilmente vari e complessi. L’inadeguatezza deriva da un lato dalla varietà delle situazioni di dettaglio, che non consente di pensare ad una normazione direttamente esaustiva; e dall’altro dal continuo sviluppo delle conoscenze e delle tecnologie, che rende sovente inattuali le prescrizioni codificate. Per questo la normativa cautelare ha bisogno di essere integrata dal sapere scientifico e tecnologico che reca il vero nucleo attualizzato della disciplina prevenzionistica. Per tale ragione il sistema, come correttamente esposto dalla Corte di merito, prevede che ciascun garante analizzi i rischi specifici connessi alla propria attività; ed adotti le conseguenti, appropriate misure cautelari, avvalendosi proprio di figure istituzionali, come il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che del sapere necessario sono istituzionalmente portatori. Correttamente si è parlato al riguardo di autonormazione: espressione che ben esprime la necessità di un continuo autoadeguamento delle misure di sicurezza alle condizioni delle lavorazioni. L’obbligo giuridico nascente dalla attualizzata considerazione dell’accreditato sapere scientifico e tecnologico è talmente pregnante che è sicuramente destinato a prevalere su quello eventualmente derivante da disciplina legale incompleta o non aggiornata. La Corte di cassazione, del resto, ha avuto recentemente modo di pronunziarsi proprio sul tema del ruolo del sapere scientifico e tecnologico nel conformare l’obbligazione cautelare e nell’orientare il giudizio sulla colpa demandato al giudice. Si è rammentato che l’evocazione di tali conoscenze, spesso condensate in qualificate linee guida, ha a che fare con le forti istanze di determinatezza che permeano la sfera del diritto penale. Occorre partire dalla considerazione che la fattispecie colposa ha necessità di essere eterointegrata non solo dalla legge, ma anche da atti di rango inferiore, per ciò che riguarda la concreta disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo. La discesa della disciplina dalla sfera propriamente legale a fonti gerarchicamente inferiori che caratterizza la colpa specifica, contrariamente a quanto si potrebbe a tutta prima pensare, costituisce peculiare, ineliminabile espressione dei principi di legalità, determinatezza, tassatività. La fattispecie colposa, col suo carico di normatività diffusa, è per la sua natura fortemente vaga, attinge il suo nucleo significativo proprio attraverso le precostituite regole alle quali vanno parametrati gli obblighi di diligenza, prudenza, perizia. Tuttavia, è illusorio pensare che ogni contesto rischioso possa trovare il suo compiuto governo in regole precostituite e ben fondate, aggiornate, appaganti rispetto alle esigenze di tutela. In tali situazioni si rivela il pericolo che il giudice prima definisca le prescrizioni o l’area di rischio consentito e poi ne riscontri la possibile violazione, con una innaturale sovrapposizione di ruoli che non è sufficientemente controbilanciata dalla terzietà. Se ci si chiede dove il giudice, consumatore e non produttore di leggi scientifiche e di prescrizioni cautelari, possa rinvenire la fonte precostituita alla stregua della quale gli sia poi possibile articolare il giudizio senza surrettizie valutazioni a posteriori, la risposta può essere una sola: la scienza e la tecnologia sono le uniche fonti certe, controllabili, affidabili. Traspare, così, quale interessante rilievo abbia il sapere extragiuridico sia come fonte delle cautele, al fine di conferire determinatezza alla fattispecie colposa, sia come guida per l’appezzamento demandato al giudice (SU, 38343/2014).

Ai fini della operatività della c.d. clausola di equivalenza di cui all'art. 40 cpv., nell'accertamento degli obblighi impeditivi gravanti sul soggetto che versa in posizione di garanzia, l'interprete deve tenere presente la fonte da cui scaturisce l'obbligo giuridico protettivo, che può essere la legge, il contratto, la precedente attività svolta, o altra fonte obbligante e - in tale ambito ricostruttivo, al fine di individuare lo specifico contenuto dell'obbligo - come scaturente dalla determinata fonte di cui si tratta - occorre valutare sia le finalità protettive fondanti la stessa posizione di garanzia, sia la natura dei beni dei quali è titolare il soggetto garantito, che costituiscono l'obiettivo della tutela rafforzata, alla cui effettività mira la clausola di equivalenza (Sez. 4, 25327/2022).

Ai fini dell’operatività della clausola di equivalenza di cui all’art. 40, secondo comma, l’accertamento dell’obbligo impeditivo è il primo passaggio necessario per individuare il soggetto responsabile del reato omissivo improprio. In relazione a tale norma, la giurisprudenza di legittimità, sin dagli anni novanta del secolo scorso, ha infatti elaborato la «teoria del garante», muovendo dall’osservazione  e dalla valorizzazione  del significato profondo che deve riconoscersi agli «obblighi di garanzia», discendenti dallo speciale vincolo di tutela che lega il soggetto garante, rispetto ad un determinato bene giuridico, per il caso in cui il titolare dello stesso bene sia incapace di proteggerlo autonomamente. È compito dell’interprete procedere alla selezione delle posizioni di garanzia, per tutti i casi della vita - non tipizzati dal legislatore - corrispondenti ad una situazione di passività, in cui versi il titolare del bene protetto, ma non meno complesso si presenta il compito dell’interprete chiamato a definire il contenuto della condotta protettiva anche in relazione a garanti già individuati dalla legge. Tanto chiarito, preme pure evidenziare che la Corte regolatrice, nel rilevare la complessità delle valutazioni conducenti alla selezione delle posizioni di garanzia, da intendersi come locuzione che esprime in modo condensato l’obbligo giuridico di impedire l’evento, ha espressamente considerato: che occorre guardarsi dall’idea ingenua, e foriera di fraintendimenti, in base alla quale la sfera di responsabilità penale di ciascuno possa essere sempre definita e separata con una rigida linea di confine e che questa stessa linea crei la sfera di competenza e responsabilità di alcuno escludendo automaticamente quella di altri; che particolarmente complessa risulta la selezione dei garanti e l’individuazione di aree di competenza pienamente autonome, che giustifichino la compartimentazione della responsabilità penale, specialmente nell’ambito della figura della cooperazione colposa; che l’interprete deve avere sempre presente lo scopo del diritto penale, che «è proprio quello di tentare di governare tali intricati scenari, nella già indicata prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori» (Sez. 4, 49821/2012).

La titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione da parte di questi di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (la cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso (Sez. 4, 40812/2019).

Il principio interpretativo che deve guidare il giudice nell’applicazione della clausola di equivalenza di cui all’art. 40, secondo comma, al fine di accertare la posizione di garanzia, ma che regola come un faro anche i giudizi che ne costituiscono il corollario, si sostanzia nel tenere presente la fonte da cui scaturisce l’obbligo giuridico protettivo, che può essere la legge, il contratto, la precedente attività svolta, o altra fonte obbligante e, in tale ambito ricostruttivo, al fine di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo, come scaturente dalla determinata fonte di cui si tratta, nel valutare sia le finalità protettive fondanti la stessa posizione di garanzia, sia la natura dei beni dei quali è titolare il soggetto garantito, che costituiscono l’obiettivo della tutela rafforzata, alla cui effettività mira la clausola di equivalenza (Sez. 4, 9855/2015).

Sulla base della normativa di settore e per giurisprudenza costante, è il datore di lavoro ad essere il primo destinatario del generale obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 CC, in quanto garante dell’incolumità fisica dei prestatori di lavoro (Sez. 4, 4361/2014); è sempre il datore di lavoro che è tenuto, a norma degli artt. 3 e 4 DLGS 626/1994 (oggi meglio delineati dagli artt. 17 e 18 DLGS 81/2008), alla redazione del documento di valutazione dei rischi (Sez. 4, 45808/2017), del piano operativo di sicurezza (Sez. 4, 31304/2013), nonché alla nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP). Si tratta di obblighi non delegabili, tranne che in presenza di rischi particolarmente complessi e specifici che richiedano la presenza di un soggetto altamente specializzato. Ad ogni modo, il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione dei suddetti documenti non esonera il datore di lavoro dall’obbligo di verificarne l’adeguatezza e l’efficacia (Sez. 4, 27295/2016; Sez. 4, 22147/2016). È inoltre sempre sul datore di lavoro che grava il fondamentale obbligo di formazione ed informazione dei lavoratori (Sez. 4, 39765/2015; Sez. 4, 21242/2014). In ambito aziendale sono poi individuabili altre figure destinatarie della normativa prevenzionistica, e come tali titolari di distinte posizioni di garanzia in quanto incarnano distinte funzioni e diversi livelli di responsabilità organizzativa e gestionale. Vi è così il dirigente, che costituisce il livello di responsabilità intermedio e che è tenuto a cooperare con il datore di lavoro nell’assicurare l’osservanza della disciplina legale nel suo complesso; trattasi di ruolo conformato ai poteri gestionali di cui dispone concretamente, in quanto ciò che rileva non è solo e non tanto la qualifica astratta, ma anche e soprattutto la funzione assegnata e svolta. Il preposto, infine, è colui che sovraintende alle attività, attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione, sulla base e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico. Si tratta di definizioni di carattere generale che subiscono specificazioni in relazione a diversi fattori, quali il settore di attività, la conformazione giuridica dell’azienda, la sua concreta organizzazione, le sue dimensioni. È evidente che in un’organizzazione di qualche complessità vi siano diverse persone, con diverse competenze, chiamate a ricoprire i ruoli in questione. Queste considerazioni di principio evidenziano che nell’ambito dello stesso organismo può riscontrarsi la presenza di molteplici figure di garanti. Ciò suggerisce che l’individuazione della responsabilità penale passa attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le categorie giuridiche, i modelli di agente, dall’altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno. Si tratta, in breve, di una ricognizione essenziale per un’imputazione che voglia essere personalizzata, in conformità ai sommi principi che governano l’ordinamento penale; ciò al fine di evitare l’indiscriminata, quasi automatica attribuzione dell’illecito a diversi soggetti (si tratta di considerazioni contenute nella motivazione della fondamentale sentenza delle Sezioni unite (SU, 38343/2014) (la riassunzione è dovuta a Sez. 4, 57937/2018).

Ai fini della operatività della così detta clausola di equivalenza di cui all'art. 40 cpv. c.p., nell'accertamento degli obblighi impeditivi gravanti sul soggetto che versa in posizione di garanzia, l'interprete deve tenere presente la fonte da cui scaturisce l'obbligo giuridico protettivo, che può essere la legge, il contratto, la precedente attività svolta, o altra fonte obbligante e - in tale ambito ricostruttivo, al fine di individuare lo specifico contenuto dell'obbligo - come scaturente dalla determinata fonte di cui si tratta - occorre valutare sia le finalità protettive fondanti la stessa posizione di garanzia, sia la natura dei beni dei quali è titolare il soggetto garantito, che costituiscono l'obiettivo della tutela rafforzata, alla cui effettività mira la clausola di equivalenza (Sez. 4, 33596/2021).

In tema di successione di posizioni di garanzia, quando l'obbligo di impedire l'evento connesso ad una situazione di pericolo grava su più persone obbligate ad intervenire in tempi diversi, l'accertamento del nesso causale rispetto all'evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascun titolare della posizione di garanzia, stabilendo cosa sarebbe accaduto nel caso in cui la condotta dovuta da ciascuno dei garanti fosse stata tenuta, anche verificando se la situazione di pericolo non si fosse modificata per effetto del tempo trascorso o di un comportamento dei successivi garanti (Sez. 4, 35830/2021).

Qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l’omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione (Sez. 4, 18826/2012, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la responsabilità del datore di lavoro per il reato di lesioni colpose nonostante fosse stata dedotta l’esistenza di un preposto di fatto). In tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia  che può essere generata da investitura formale o dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante  deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro (Sez. 4, 19029/2017).

Ai fini dell’operatività della così detta "clausola di equivalenza" di cui all’art. 40, secondo comma, non è necessario che il titolare della posizione di garanzia sia direttamente dotato dei poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, essendo sufficiente che egli disponga dei mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad impedire l’evento dannoso (Sez. 4, 14550/2018).

I principi di imputazione oggettiva e soggettiva del reato colposo commissivo mediante omissione impongono di esaminare in maniera accurata le modalità di inserimento e le specifiche attribuzioni del soggetto all’interno del ciclo aziendale, al fine di delinearne una eventuale posizione di responsabilità quale soggetto garante del bene tutelato (Sez. 4, 57937/2018).

 

Casistica

In tema di patologie asbesto-correlate, l'esistenza e l'entità dell'esposizione ad amianto può essere dimostrata anche attraverso la prova testimoniale, in quanto il vigente sistema processuale penale non conosce ipotesi di prova legale e, anche nei settori in cui sussistono indicazioni normative di specifiche metodiche per il rilievo di valori soglia, il relativo accertamento può essere dato con qualsiasi mezzo di prova (Sez. 4, 16715/2018).

In tema di rapporto di causalità tra esposizione ad amianto e morte del lavoratore per mesotelioma, ove con motivazione immune da censure la sentenza impugnata ritenga impossibile l'individuazione del momento di innesco irreversibile della malattia, nonché causalmente irrilevante ogni esposizione successiva a tale momento, ai fini del riconoscimento della responsabilità dell'imputato è necessaria l'integrale o quasi integrale sovrapposizione temporale tra la durata dell'attività lavorativa della singola vittima e la durata della posizione di garanzia rivestita dall'imputato nei confronti della stessa (Sez. 4, 25532/2019 e, più di recente, Sez. 4, 12151/2020).

In base ai principi di diritto di ordine generale, la configurabilità di un reato a carico del revisore non si può fondare soltanto sulla sua posizione di garanzia e discendere, sic et simpliciter, dal mancato esercizio dei doveri di controllo, ma richiede che siano delineabili puntuali elementi sintomatici, dotati del necessario spessore indiziario, in forza dei quali l’omissione del potere di controllo  e, pertanto l’inadempimento dei poteri-doveri di vigilanza il cui esercizio sarebbe valso ad impedire le condotte distrattive degli amministratori  esorbiti dalla dimensione meramente colposa per assurgere al rango di elemento dimostrativo di dolosa partecipazione, sia pure nella forma del dolo eventuale, per la consapevole accettazione del rischio che l’omesso controllo avrebbe potuto consentire la commissione di illiceità da parte degli amministratori (Sez. 6, 6133/2019).

In tema di lesioni colpose, il detentore di un cane è titolare di una posizione di garanzia che gli impone l’obbligo di controllare e di custodire l’animale adottando ogni cautela per evitare e prevenire le possibili aggressioni a terzi anche all’interno dell’abitazione ed è altrettanto consolidato il principio per cui se il proprietario affidi la custodia dell’animale ad altra persona, la responsabilità di questi residua nel caso in cui lo stesso sia in concreto tuttora in grado di esercitare il potere di controllo ovvero, in caso di affidamento temporaneo, abbia delegato la custodia a persone non in grado, secondo un giudizio ex ante e in concreto, di adempiere adeguatamente al relativo onere (Sez. 4, 42307/2018).

Ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, non è necessaria la sussistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, trattandosi di reato di pericolo a dolo generico per la cui configurazione, pertanto, non è necessario che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né che abbia agito allo scopo di recare pregiudizio ai creditori; l’irrilevanza di un nesso causale tra fatti di distrazione e dissesto dell’impresa fa sì che, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, detti fatti assumano rilevanza penale in qualsiasi tempo siano stati commessi e, quindi, anche quando l’insolvenza non si era ancora manifestata (SU, 22474/2016).

In tema di disciplina degli alimenti, il legale rappresentante della società gestrice di una catena di supermercati non è per ciò solo responsabile, qualora essa sia articolata in plurime unità territoriali autonome, ciascuna affidata ad un soggetto qualificato ed investito di mansioni direttive, in quanto la responsabilità del rispetto dei requisiti igienico-sanitari dei prodotti va individuata all’interno della singola struttura aziendale, senza che sia necessariamente richiesta la prova dell’esistenza di una apposita delega in forma scritta (Sez. 3, 56118/2018).

Nella materia degli infortuni sul lavoro la posizione di garanzia del datore di lavoro trova, di regola, la sua fonte nel contratto; una volta individuato il garante, è necessario illustrare lo specifico contenuto dell’obbligo alla cui violazione sia riconducibile il rischio che s’intende prevenire, giovando a tal fine sia la consapevolezza che le norme cautelar’ «elastiche» richiedono l’esame delle circostanze del caso concreto per la definizione contenutistica, sia la delimitazione dell’area di rischio tutelata dalla regola cautelare. In tale ottica, il contenuto dell’obbligo impeditivo viene, di volta in volta, calibrato sulla regola «elastica» che impone al datore di lavoro il generale e generico dovere di tutelare l’integrità fisica del lavoratore (art. 2087 CC) o sulle specifiche regole cautelari dettate da leggi speciali, che non sempre definiscono in maniera «rigida» la condotta doverosa. Il comportamento alternativo corretto, in presenza di norme cautelari «elastiche», è stato individuato in quella condotta che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, avrebbe evitato il verificarsi dell’evento. Per aversi un comportamento alternativo corretto può non essere sufficiente, in altre parole, una mera condotta osservante delle regole cautelari (contrapposta alla condotta inosservante delle medesime regole) ma è necessaria quella condotta che, in relazione alle circostanze del caso concreto, sarebbe stata idonea ad evitare l’evento (Sez. 4, 57361/2018).

L’obbligo datoriale di vigilare sull’osservanza delle misure prevenzionistiche adottate può essere assolto attraverso la preposizione di soggetti a ciò deputati e la previsione di procedure che assicurino la conoscenza del datore di lavoro delle attività lavorative effettivamente compiute e delle loro concrete modalità esecutive, in modo da garantire la persistente efficacia delle misure di prevenzione adottate a seguito della valutazione dei rischi (Sez. 4, 14915/2019).

Costituisce giurisprudenza consolidata quella che vuole, in materia di responsabilità colposa, che il committente di lavori dati in appalto debba adeguare la sua condotta a fondamentali regole di diligenza e prudenza scegliere l’appaltatore e più in genere il soggetto al quale affida l’incarico, accertando che tale soggetto sia non soltanto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, ma anche della capacità tecnica e professionale, proporzionata al tipo astratto di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa. Egli ha l’obbligo di verificare l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati (Sez. 3, 35185/2016, in un caso relativo alla morte di un lavoratore edile precipitato al suolo dall’alto della copertura di un fabbricato, nella quale è stata ritenuta la responsabilità per il reato di omicidio colposo dei committenti, che, pur in presenza di una situazione oggettivamente pericolosa, si erano rivolti ad un artigiano, ben sapendo che questi non era dotato di una struttura organizzativa di impresa, che gli consentisse di lavorare in sicurezza). È pur vero che è stato di recente precisato  e va qui riaffermato  che in tema di infortuni sul lavoro, il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro opera anche in relazione al committente, dal quale non può tuttavia esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori, occorrendo verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità, da parte del committente, di situazioni di pericolo (Sez. 4, 27296/2017, in una fattispecie in tema di appalto di lavori di pulizia all’interno dell’azienda, in cui la Corte ha annullato la sentenza che aveva ritenuto la responsabilità del committente in relazione al reato di lesioni colpose, per aver dato incarico ad un lavoratore di pulire il piazzale della ditta usando soda caustica, senza assicurarsi che il datore di lavoro appaltatore avesse spiegato al dipendente la necessità di cambiare gli indumenti contaminati dalla predetta sostanza pericolosa). Rimane anche fermo il principio che, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto d’appalto, il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica, con esclusivo riguardo alle precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell’utilizzazione di speciali tecniche o nell’uso di determinate macchine (così la condivisibile Sez. 3, 12228/2015, che, in applicazione del principio, ha escluso che potesse andare esente da responsabilità il committente che aveva omesso di attivarsi per prevenire il rischio, non specifico, di caduta dall’alto di un operaio operante su un lucernaio). Tuttavia va anche ribadito che il committente è titolare di una autonoma posizione di garanzia e può essere chiamato a rispondere dell’infortunio subito dal lavoratore qualora l’evento si colleghi causalmente ad una sua colpevole omissione, specie nel caso in cui la mancata adozione o l’inadeguatezza delle misure precauzionali sia immediatamente percepibile senza particolari indagini (Sez. 4, 10608/2013, in un caso di inizio dei lavori nonostante l’omesso allestimento di idoneo punteggio). Vale anche l’ulteriore precisazione che il committente, anche nel caso di affidamento dei lavori ad un’unica ditta appaltatrice (c.d. cantiere "sotto - soglia"), è titolare di una posizione di garanzia idonea a fondare la sua responsabilità per l’infortunio, sia per la scelta dell’impresa  essendo tenuto agli obblighi di verifica imposti dall’art. 3, comma ottavo, DLGS 494/1996  sia in caso di omesso controllo dell’adozione, da parte dell’appaltatore, delle misure generali di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro (Sez. 4, 23171/2016, che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata, che aveva riconosciuto la responsabilità a titolo di omicidio colposo del committente, il quale aveva omesso non solo di verificare l’idoneità tecnico professionale della ditta appaltatrice, in relazione alla entità e tipologia dell’opera, ma anche di attivare i propri poteri di inibizione dei lavori, a fronte della inadeguatezza dimensionale dell’impresa e delle evidenti irregolarità del cantiere) (la riassunzione si deve a Sez. 4, 54010/2018).

Ai fini dell’operatività della così detta clausola di equivalenza di cui all’art. 40, comma 2, nell’accertamento degli obblighi impeditivi incombenti sul soggetto che versa in posizione di garanzia, l’interprete deve tenere presente la fonte da cui scaturisce l’obbligo giuridico protettivo, che può essere indifferentemente la legge, il contratto, la precedente attività svolta, la situazione di fatto e, in tale ambito ricostruttivo, per individuare lo specifico contenuto dell’obbligo, discendente dalla fonte, occorre avere riguardo alle finalità protettive fondanti la stessa posizione di garanzia e la natura dei beni dei quali è titolare il soggetto garantito, scopo della tutela rafforzata (Sez. 4, 5404/2015).

Si è anche detto che la norma dell’art. 40, secondo comma, va interpretata in termini solidaristici, alla luce dell’art. 2 Cost., il quale, ispirandosi al principio del rispetto della persona umana nella sua totalità, esige l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (Sez. 4, 11136/2015). E tale principio, con specifico riguardo alle professioni sanitarie, è stato declinato nel senso che gli operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici, sono tutti ex lege portatori di una posizione di garanzia, espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto dagli artt. 2 e 32 Cost., nei confronti dei pazienti, la cui salute devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l’integrità; l’obbligo di protezione perdura per l’intero tempo del turno di lavoro e, laddove si tratti di un compito facilmente eseguibile nel giro di pochi secondi, non è delegabile ad altri (Sez. 4, 9638/2000) (la riassunzione è dovuta a Sez. 4, 55519/2018).

In tema di colpa professionale medica, l’instaurazione del rapporto terapeutico tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita. Inoltre, va anche rammentato che la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto della sussistenza della violazione di una regola cautelare (generica o specifica) volta a prevenire l’evento, nonché della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso (Sez. 4, 32216/2018).

In tema di responsabilità medica è indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l'evento lesivo sarebbe stato evitato o differito (Sez. 4, 35058/2020).

Il reato di frode nelle pubbliche forniture è reato dì pura condotta e non di evento, sicché non è ipotizzabile in relazione ad esso una responsabilità da causalità omissiva (Sez. 6, 771/2007).

In senso contrario: è configurabile il concorso per omissione, ex art. 40, comma secondo, nel reato di frode nelle pubbliche forniture, posto che la responsabilità da causalità omissiva è ipotizzabile anche nei riguardi dei reati di mera condotta, a forma libera o vincolata, e che, nell’ambito della fattispecie concorsuale, la condotta commissiva può costituire sul piano eziologico il termine di riferimento che l’intervento omesso del concorrente avrebbe dovuto scongiurare. In applicazione del principio indicato, la Corte ha precisato che, in tanto può ascriversi una corresponsabilità in capo al responsabile del procedimento, in quanto sia ravvisabile un suo previo concerto con il soggetto tenuto alla prestazione, ovvero vi sia stata la sua consapevole e volontaria violazione di un obbligo di verifica e controllo che abbia propiziato la prestazione in frode (Sez. 6, 28301/2016).

Del reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA, l’amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta, mentre l’amministratore di diritto, quale mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento (artt. 40, comma secondo e 2932 CC), a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice (Sez. 3, 53662/2018).

La giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto, in capo al titolare di un esercizio pubblico, l’esistenza di una posizione di garanzia cui è correlato l’obbligo giuridico di impedire gli schiamazzi o comunque i rumori prodotti, in maniera eccessiva, dalla propria clientela, in questo modo configurando gli elementi strutturali propri delle fattispecie omissive improprie (cd. reati commissivi mediante omissione), caratterizzate dall’integrazione tra la struttura tipica del reato commissivo, cui sono riconducibili alcune tra le condotte previste dal comma 1 dell’art. 659, e la norma generale posta dall’art. 40, comma 2, secondo cui risponde di un evento dannoso o pericoloso colui il quale abbia l’obbligo giuridico di impedirlo.

Detto obbligo, il quale si sostanzia nel doveroso esercizio di un potere di controllo, è pacificamente configurabile a carico del titolare di una attività commerciale aperta al pubblico rispetto alle condotte poste in essere da parte dei suoi clienti che si trovino all’interno del locale, nei cui confronti egli è, dunque, tenuto ad adottare le misure più idonee ad impedire che determinati comportamenti da parte degli utenti possano sfociare in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica.

E tuttavia, si è ritenuto che un siffatto obbligo sussista anche per gli schiamazzi e i rumori prodotti dagli avventori all’esterno del locale, potendo il titolare ricorrere ai più vari accorgimenti, dagli avvisi alla clientela all’impiego di personale dedicato, dalla somministrazione delle bevande soltanto in recipienti non da asporto, in modo che esse vengano consumate all’interno del locale, fino al ricorso all’autorità di polizia o all’esercizio dello ius excludendi, quando essi siano comunque direttamente riferibili all’esercizio dell’attività, come nel caso in cui gli avventori permangano rumorosamente in sosta davanti al locale (Sez. 3, 22142/2017).

Un consulente esterno può essere chiamato a rispondere di eventuali comportamenti colposi che abbiano contribuito, in cooperazione colposa ex art. 113 con le figure principali destinatarie degli obblighi prevenzionistici in materia di infortuni sul lavoro, all’aggravamento del rischio, fornendo un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell’evento (Sez. 4, 43083/2013). Occorre, però, che una simile condotta di cooperazione colposa sia correttamente analizzata e specificamente individuata sulla base di un ragionamento probatorio che dia adeguato conto, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sua esistenza e riconducibilità al prevenuto in termini di prevedibilità e prevenibilità dell’evento (Sez. 4, 57937/2018).

In materia di incidenti da circolazione stradale, l'accertata sussistenza di una condotta antigiuridica di uno degli utenti della strada con violazione di specifiche norme di legge o di precetti generali di comune prudenza non può di per sé far presumere l'esistenza del nesso causale tra il suo comportamento e l'evento dannoso che occorre sempre provare e che si deve escludere quando sia dimostrato che l'incidente si sarebbe ugualmente verificato senza quella condotta o è stato, comunque, determinato esclusivamente da una causa diversa (Sez. 4, 16835/2021).