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Art. 42 - Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva

1. Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà.

2. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge.

3. La legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente, come conseguenza della sua azione od omissione.

4. Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa.

Rassegna di giurisprudenza

Responsabilità dolosa (i passaggi di questo paragrafo sono tutti tratti da SU, 38343/2014)

…Il dolo. La definizione legislativa e le questioni generali

La disamina deve partire dalla generale considerazione del dolo, che esprime la più intensa adesione interiore al fatto, costituisce la forma fondamentale, generale ed originaria di colpevolezza e rappresenta il criterio ordinario d’imputazione soggettiva. Esso è conoscenza e volontà in relazione agli elementi del fatto storico propri del modello legale descritto dalla norma incriminatrice, ovvero rappresentazione e volizione del fatto di reato. La definizione che ne dà l’art. 43 vale se non altro a rimarcare l’immancabile coinvolgimento della sfera intellettiva e volitiva dell’uomo.

Si tratta di significativa evocazione, che però non offre indicazioni univoche che valgano a definire i confini dell’imputazione soggettiva, né aiuta a risolvere le questioni tradizionalmente controverse come quella in esame. In dottrina è stata da più parti denunziata l’imprecisione e l’incompletezza della formula. Essa accentra la previsione e volizione sul solo evento, mentre i profili conoscitivi e volitivi del dolo coinvolgono senza dubbio tutti gli elementi del fatto storico congruenti con il modello di reato; ed accosta impropriamente i profili intellettivi e volitivi, quasi che essi debbano essere contemporaneamente presenti e cogliere tutti gli elementi del fatto, mentre la condivisa, largamente prevalente opinione ritiene che nei confronti di numerosi elementi del fatto stesso è sufficiente la sola rappresentazione.

Ma ciò che è stato maggiormente oggetto di critica è proprio fa mancanza di una esplicita presa di posizione quanto alla configurabilità delle manifestazioni più sfumate del dolo che vengono solitamente comprese, appunto, nella nozione di dolo eventuale; ed all’individuazione di una traccia per segnare un confine rispetto alla contigua figura della colpa cosciente. Per quanto attiene al dolo eventuale, sembra di poter evincere dai lavori preparatori che il codificatore si astenne deliberatamente dall’assolvere a tale arduo compito definitorio, rimettendolo all’elaborazione giurisprudenziale.

Più in generale, per ciò che riguarda l’evocazione dei profili intellettivi e volitivi del dolo, è diffusa l’opinione che si sia trattato di una scelta di compromesso con la quale i compilatori tentarono di conciliare le due teorie che in quell’epoca si contendevano il campo e che, nella ricerca del nucleo essenziale del dolo attribuivano preminenza una alla volontà e l’altra alla rappresentazione. Tali critiche, tuttavia, non colgono il punto centrale della presente disamina, quello afferente alla volontà ed ai suoi confini.

Orbene, la lettura della formula legale non lascia dubbi sul fatto che si intese valorizzare e quasi enfatizzare la componente volitiva della figura. L’evento deve essere preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione. Non accadimento semplicemente desiderato, sperato, ma "conseguenza", esito che dipende dal consapevole attivarsi od omettere.

La formula, letta alla luce di tale pregnante valorizzazione della volontà, illumina pure le situazioni nelle quali l’evento, senza essere intenzionalmente perseguito, venga posto in correlazione causale con la propria azione e, proprio per questa ragione, voluto come conseguenza nel momento stesso in cui l’agente decide di porla in essere, conscio del risultato che ne può derivare. In definitiva, il dettato normativo legittima la figura del dolo eventuale, consentendo di cogliere in essa un atteggiamento psichico assimilabile a quello propriamente volontaristico.

D’altra parte, dal riferimento all’intenzionalità si desume almeno che il dolo implica atteggiamenti interni, processi psicologi che, tuttavia, non possono essere meramente potenziali, ma devono effettivamente svolgersi nella psiche del soggetto, devono cioè essere reali. Si tratta di enunciazione tutt’altro che ovvia, che merita di essere subito evidenziata, giacché è chiamata continuamente a confrontarsi, tanto nell’elaborazione dottrinale quanto nella pratica giurisprudenziale, con dati di segno contrario: la tentazione di una eccessiva normativizzazione del dolo, di quello eventuale in particolare, il ricorso a schemi presuntivi che consentano di superare le difficoltà connesse alla dimostrazione di un dato così poco estrinseco come l’atteggiamento interiore.

Al contempo, però, a tale enunciazione va aggiunta la considerazione realistica della necessità, insita nell’accertamento, di non proscrivere del tutto il riferimento a modelli generalizzanti dell’agire umano; la necessità, altresì, di adattare, in certo modo semplificandoli, discussi concetti tratti dalla psicologia o dal senso comune, così da renderne possibile l’applicazione nel contesto giudiziario.

È pure comunemente riconosciuta l’esigenza di uscire, per quanto possibile, da formule astratte per percorrere itinerari analitici e concreti. È stata colta un’esigenza di "scomposizione", di analisi interna del dolo. Vi è un problema di struttura, che attiene appunto al suo contenuto, al reale significato dei connotati intellettivi e volitivi evocati dall’art. 43; un problema di oggetto che riguarda tutti gli elementi del fatto; ed un problema di accertamento che presenta particolare complessità, dovendosi inferire fatti interni o spirituali attraverso un procedimento che parte dall’id quod plerumque accidit e considera le circostanze esteriori, caratteristiche del caso concreto, che normalmente costituiscono l’espressione o accompagnano o sono comunque collegate agli stati psichici.

Tra tali aspetti del problema del dolo vi è una stretta connessione. Infatti, sovente è proprio dalle particolari caratteristiche dell’oggetto che sarà possibile rendersi conto della natura del processo psicologico che lo riflette: sarà insomma l’oggetto a definire in concreto i profili intellettivi e volitivi del dolo. Inoltre, va adeguatamente sottolineata la centralità del momento dell’accertamento, nel quale si condensano e si risolvono concretamente i delicati problemi applicativi che la speculazione dottrinaria inscrive, sovente, entro sofisticate cornici teoretiche.

Tale approccio analitico ed integrato deve essere perseguito, nella prospettiva di proscrivere elaborazioni concettuali che, anche se astrattamente impeccabili, si dimostrino insuscettibili di concreta verifica e quindi inutilizzabili; e di creare un terreno di convinta condivisione tra la dottrina e la prassi, nel cogliere in essa un atteggiamento psichico assimilabile a quello propriamente volontaristico. D’altra parte, dal riferimento all’intenzionalità si desume almeno che il dolo implica atteggiamenti interni, processi psicologi che, tuttavia, non possono essere meramente potenziali, ma devono effettivamente svolgersi nella psiche del soggetto, devono cioè essere reali.

Si tratta di enunciazione tutt’altro che ovvia, che merita di essere subito evidenziata, giacché è chiamata continuamente a confrontarsi, tanto nell’elaborazione dottrinale quanto nella pratica giurisprudenziale, con dati di segno contrario: la tentazione di una eccessiva normativizzazione del dolo, di quello eventuale in particolare, il ricorso a schemi presuntivi che consentano di superare le difficoltà connesse alla dimostrazione di un dato così poco estrinseco come l’atteggiamento interiore.

Al contempo, però, a tale enunciazione va aggiunta la considerazione realistica della necessità, insita nell’accertamento, di non proscrivere del tutto il riferimento a modelli generalizzanti dell’agire umano; la necessità, altresì, di adattare, in certo modo semplificandoli, discussi concetti tratti dalla psicologia o dal senso comune, così da renderne possibile l’applicazione nel contesto giudiziario. È pure comunemente riconosciuta l’esigenza di uscire, per quanto possibile, da formule astratte per percorrere itinerari analitici e concreti.

È stata colta un’esigenza di "scomposizione", di analisi interna del dolo. Vi è un problema di struttura, che attiene appunto al suo contenuto, al reale significato dei connotati intellettivi e volitivi evocati dall’art. 43; un problema di oggetto che riguarda tutti gli elementi del fatto; ed un problema di accertamento che presenta particolare complessità, dovendosi inferire fatti interni o spirituali attraverso un procedimento che parte dall’id quod plerumque accidit e considera le circostanze esteriori, caratteristiche del caso concreto, che normalmente costituiscono l’espressione o accompagnano o sono comunque collegate agli stati psichici. Tra tali aspetti del problema del dolo vi è una stretta connessione.

Infatti, sovente è proprio dalle particolari caratteristiche dell’oggetto che sarà possibile rendersi conto della natura del processo psicologico che lo riflette: sarà insomma l’oggetto a definire in concreto i profili intellettivi e volitivi del dolo. Inoltre, va adeguatamente sottolineata la centralità del momento dell’accertamento, nel quale si condensano e si risolvono concretamente i delicati problemi applicativi che la speculazione dottrinaria inscrive, sovente, entro sofisticate cornici teoretiche.

Tale approccio analitico ed integrato deve essere perseguito, nella prospettiva di proscrivere elaborazioni concettuali che, anche se astrattamente impeccabili, si dimostrino insuscettibili di concreta verifica e quindi inutilizzabili; e di creare un terreno di convinta condivisione tra la dottrina e la prassi, nel segno della valorizzazione delle componenti soggettive dell’illecito e della rinunzia a soluzioni retoriche o presuntive che finiscono con lo svalutare le questioni attinenti alle componenti psicologiche del reato.

 

…La struttura del dolo. Rappresentazione e volontà

Il legislatore, come si è accennato dà del dolo una nozione complessa nella quale si integrano profili intellettivi o rappresentativi e profili volitivi. Attorno a tali fattori, la volontà e la rappresentazione, si è dipanata una plurisecolare disputa dottrinale tra due scuole di pensiero che, pur nella varietà delle opinioni, tendono ad attribuire ruolo preminente all’una od all’altra delle componenti di tale forma d’imputazione soggettiva.

Sebbene in proposito si siano sviluppate dispute teoriche poco produttive, non può essere neppure trascurato che la vasta dottrina sul dolo presenta diverse inflessioni che oscillano, nelle situazioni problematiche e di confine, proprio per il maggiore o minore rilievo attribuito al profilo rappresentativo o volitivo del dolo. Si tratta di una situazione che si manifesta soprattutto nell’ambito della riflessione a proposito della definizione dei tratti distintivi del dolo eventuale, anche in relazione alla contigua categoria della colpa cosciente.

In tale ambito, come meglio si vedrà in prosieguo, si perviene a risultati assai differenti a seconda che il profilo volitivo del dolo venga ricostruito secondo un modello di tipo normativo, astratto, fondato sull’atteggiamento interiore tipicamente connesso alla rappresentazione di un risultato; o che esso, invece, venga ricostruito considerando l’irripetibile atteggiamento psichico del caso concreto.

 

…La teoria della rappresentazione

Occorre brevemente rammentare che la teoria della rappresentazione muove da una premessa di natura psicologica: nel reato vi è sempre una condotta che coincide, nella forma positiva, col puro movimento corporeo e nella forma negativa con l’iniziale stato di quiete di quelle parti del corpo il cui movimento dipende dalla volontà del soggetto.

La realizzazione dolosa di una condotta implica necessariamente una volizione nello stretto significato psicologico del termine. È indispensabile cioè un impulso cosciente del volere diretto a produrre il movimento o a conservare lo stato di inerzia. Qui davvero, si ritiene, la nozione di volontà con cui lavora il giurista e quella propria dello psicologo coincidono perfettamente. Infatti, solo in questo ambito si riscontra quella fusione tra mentale e fisico che rappresenta la caratteristica essenziale del processo volitivo. Accanto a tale profilo squisitamente volitivo ve ne è uno intellettivo che investe tutti gli altri elementi della fattispecie.

Così, di realmente volontario non c’è in ogni caso che l’azione, mentre l’evento più che volontario dovrebbe dirsi intenzionale, a significare cioè che l’azione è stata posta in essere col proposito (diretto o eventuale) di produrre l’evento. Se è vero che ogni volizione cosciente presuppone uno scopo e che quindi un elemento di intenzionalità non manca mai nel reato doloso, non è meno vero, si afferma, che anche a prendere in esame la forma più intensa di dolo, quello cioè intenzionale, quando si scende ad analizzarne la sostanza si deve riconoscere che tutte le volte che ci chiediamo quali siano i nessi che intercorrono tra l’agente ed elementi distinti dall’azione od omissione, ci troviamo a constatare nient’altro che rappresentazione: dotata di speciale intensità e forza causale, ma pur sempre rappresentazione.

Tale dottrina prende le mosse dall’esigenza, avvertita da plurisecolare coscienza giuridica, che vuole ricondurre al dolo anche alcune situazioni in cui non vi è intenzionalità del risultato: è da considerare in dolo di omicidio chi, per lucrare un’assicurazione, ha incendiato la propria casa pur sapendo che nel rogo sarebbe perita una vecchia paralitica. La morte della donna non è un fine ultimo e neppure un mezzo necessario per perseguirlo, ma solo una conseguenza rappresentata come certamente connessa all’impiego di uno dei mezzi o al verificarsi del risultato finale.

Essa, tuttavia, rischia di impoverire, svuotare il dolo; e mostra i maggiori aspetti problematici nelle situazioni in cui l’agente opera prevedendo come solo possibile il verificarsi dell’evento lesivo, giacché implica il pericolo di eccessiva dilatazione del dolo eventuale fino a comprendervi casi che la coscienza giuridica e lo stesso diritto positivo collocano nella colpa con previsione.

 

…La teoria della volizione

La teoria della volontà configura una essenziale componente volitiva rispetto all’evento non solo quando esso è intenzionale, cioè direttamente preso di mira, ma anche quando l’agente lo prevede come conseguenza necessariamente connessa all’impiego di un mezzo o al verificarsi di un risultato finale; ed ancora in alcuni casi nei quali lo stesso evento è previsto come possibile conseguenza della propria condotta.

Naturalmente, tale istanza si deve confrontare con la difficoltà di definire il criterio per differenziare, tra le tante conseguenze possibili, quelle che sono anche volute dal soggetto. Il legislatore, pur con le incertezze prima indicate, ha superato nella formula normativa il rigido dualismo tra le due tradizionali teorie del dolo: ha dapprima evocato il concetto d’intenzione, a sottolineare che il diritto penale ricollega la sanzione ad un comportamento umano nella cui struttura rientra un effettivo atteggiamento di volontà; e, avvertita l’esigenza di una definizione più esauriente, ha introdotto la previsione e volizione dell’evento. Ciò consente, come si è accennato, di scorgere nella formula una sobria, ma netta opzione per la teoria della volontà.

Nella dottrina italiana più recente è dato cogliere, nel complesso, una tendenziale opzione per le teorie che attribuiscono alla volontà un ruolo chiave nella struttura di tutte le forme di dolo. Si è osservato che di recente si è assistito ad un ritrovato interesse per l’intenzionalità contro il cognitivismo rigidamente determinista, che si sostanzia in particolare nello sforzo di classificare i comportamenti in rapporto ai fini e alla loro rilevanza per il soggetto agente, nonché nell’attenzione ai processi indispensabili per coordinare, attuare e guidare l’azione diretta al conseguimento di uno scopo.

La rilevanza di tali studi nell’ambito penale consiste nell’avere restituito succo contenutistico e dignità scientifica allo stesso concetto di intenzione: un concetto sintetizzabile come orientamento dell’individuo ad un risultato nei termini non già di un puro desiderio, ma di un concreto attivarsi (o di un altrettanto finalizzato non attivarsi) per il conseguimento di uno scopo. Si preferiscono ricostruzioni del dolo che fanno leva precipuamente sulla volontà come intesa dal senso comune: se è vero che sul piano analitico la rappresentazione e la volontà hanno punti di riferimento diversi, è altrettanto vero che la volontà criminosa finisce con l’investire l’intero fatto di reato colto nella sua unità di significato. In questo senso il diritto penale considera voluto non solo l’atto iniziale di premere il grilletto, ma anche lo sfociare di tale atto nell’evento letale.

La volontà intesa in senso ampio investe l’azione come movimento corporeo e il fatto complessivo colto nella sua unità significativa; nell’ambito del fatto di reato concepito come entità unitaria la volontà, dunque, abbraccia anche tutti gli altri elementi del fatto diversi dalla condotta. In conseguenza, se manca la volontà di realizzare il fatto, non bastano a integrare il dolo desideri, speranze, proponimenti, tendenze, inclinazioni e simili. Proprio perché il comportamento doloso orienta finalisticamente i fattori della realtà nella prospettiva del mezzo verso uno scopo, esso attrae nell’orbita della volontà l’intero processo che determina il risultato perseguito. Insomma, traspare nel dolo un atto di volizione quale scelta soggettivo-personale che mette in conto la lesione di beni.

 

…Le categorie del dolo

In relazione all’aspetto della volontà il dolo viene distinto in diverse categorie. Sebbene pure al riguardo vi siano varie opinioni e terminologie, è attualmente prevalente l’indirizzo che configura una tripartizione in dolo intenzionale, dolo diretto, dolo eventuale. Esso si è ormai affermato anche nel lessico della giurisprudenza. Pertanto, nel seguito, ci si atterrà a tale tripartizione. Per conferire completezza e coerenza all’analisi demandata a queste Sezioni unite è necessario tracciare, pur con la doverosa brevità, i tratti essenziali delle tre indicate figure del dolo.

 

…Il dolo intenzionale

Solitamente il dolo viene ritenuto intenzionale allorché la rappresentazione del verificarsi del fatto di reato rientra nella serie di scopi in vista dei quali il soggetto si determina alla condotta e l’agente persegue, appunto, intenzionalmente quale scopo finalistico della propria azione òd omissione un risultato certo, probabile o solo possibile; quando cioè ha di mira proprio la realizzazione della condotta criminosa (reati di azione) ovvero la causazione dell’evento (reati di evento). Tale forma di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della volontà che raggiunge l’intensità massima.

L’intenzione è compatibile con la previsione dell’evento in termini non di certezza ma di possibilità. Gli autori che caratterizzano la volontà come direzione verso uno scopo ritengono che la forma intenzionale deve essere ritenuta l’espressione tipica dell’elemento soggettivo doloso, mentre il dolo diretto e quello eventuale costituiscono un’estensione della disciplina dell’imputazione soggettiva. 

 

Il dolo diretto

Si ha dolo diretto quando la volontà non si dirige verso l’evento tipico e tuttavia l’agente si rappresenta come conseguenza certa o altamente probabile della propria condotta un risultato che però non persegue intenzionalmente. Esso si configura tutte le volte in cui l’agente si rappresenta con certezza gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice e si rende conto che la sua condotta sicuramente la integrerà. Rientra in questa forma di dolo anche il caso in cui l’evento lesivo rappresenta una conseguenza accessoria necessariamente o assai probabilmente connessa alla realizzazione volontaria del fatto principale. Questa figura di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della rappresentazione.

In altri termini, il dolo diretto si configura quando l’agente ha compiuto volontariamente una certa azione, rappresentandosene con certezza o con alta probabilità lo sbocco in un fatto di reato, ma la rappresentazione non esercita efficacia determinante sulla volizione della condotta. In breve, si è in presenza di un livello di probabilità del verificarsi dell’evento che tocca una soglia tanto elevata da implicare di regola, la certezza soggettiva che l’evento accadrà: di regola, perché tale certezza deve sussistere effettivamente e va dunque accertata, con la conseguenza che la responsabilità per dolo non potrebbe essere sostenuta, in particolare, ove in chi agisce risultasse il convincimento del non realizzarsi dell’evento rilevante.

Quando un evento viene previsto con certezza il dolo non può essere escluso in base a stati psichici consistenti in una presa di distanze interiore dall’evento stesso. Ma occorre distinguere: se un soggetto agisce con la certezza di realizzare il fatto tipico pur avversandolo tenacemente, in cuor suo sperando contro ogni speranza in un esito favorevole, non viene meno la rappresentazione dello scontato prodursi dell’evento. Se invece un individuo è convinto, anche nel modo più alogico e colpevole, magari per superstizione, di non cagionare l’evento certamente legato alla sua condotta, manca in realtà l’elemento rappresentativo ed il dolo dev’essere escluso.

Occorre aggiungere che una previsione realmente certa è ben difficilmente prospettabile e d’altra parte vi è necessità di non alterare il confine col dolo eventuale, sicché deve venire in gioco un livello di previsione in termini di ben elevata probabilità e dunque tanto rilevante che sarebbe insensato far conto a qualsiasi fine sul non verificarsi dell’evento.

Perciò alla cognizione certa deve equipararsi  perché è in pratica impossibile ogni distinzione  la rappresentazione della realizzazione del fatto come altamente probabile. Come si vede, nel dolo diretto assume rilievo eminente il profilo intellettivo: occorre che l’agente si sia concretamente rappresentato il risultato. Le opinioni, tuttavia, divergono circa la misura di probabilità occorrente per configurare tale livello d’imputazione.

Si va, nell’ambito delle elaborazioni teoriche, dalla certezza, alla probabilità prossima alla certezza, alla alta probabilità, alla probabilità. Si tratta di un punto di grande rilievo che deve essere qui sottolineato: la distinzione tra dolo diretto e dolo eventuale viene connessa alla rappresentazione del livello di possibilità di verificazione del risultato.

A seconda che la linea di confine sia posta attorno alla certezza o alla semplice probabilità l’area d’estensione del dolo diretto si amplia o si riduce, con una complementare riduzione o crescita del campo del dolo eventuale. La questione, come è agevole intendere, ha grandissima importanza pratica oltre che teorica e sarà ripresa più avanti. Qui preme di rimarcare in anticipo che la preservazione del confine tra dolo eventuale e dolo diretto impone di assegnare a tale ultima figura solo l’ambito segnato da eventi che hanno una ben levata probabilità di verificazione.

In ogni caso, come si è stato da più parti condivisibilmente considerato, il profilo rappresentativo di cui si parla non può essere confuso coi moti affettivi, con gli atteggiamenti emozionali. La volontà dolosa non è esclusa dagli alibi morali che l’agente si sforzi di elaborare per alleggerire il peso della propria coscienza, né si confonde con i suoi atteggiamenti affettivi: se l’evento è stato previsto come conseguenza certa o altamente probabile della condotta, il suo significato finalistico obiettivo corrisponde alla volontà del soggetto.

 

…Il dolo eventuale e la colpa cosciente

Il dolo eventuale designa l’area dell’imputazione soggettiva dagli incerti confini in cui l’evento non costituisce l’esito finalistico della condotta, né è previsto come conseguenza certa o altamente probabile: l’agente si rappresenta un possibile risultato della sua condotta e ciononostante s’induce ad agire accettando la prospettiva che l’accadimento abbia luogo. L’istituto presenta nell’elaborazione teorica e nella prassi una grandissima varietà di posizioni: è il luogo problematico nel quale maggiormente si mostrano, prendono corpo concreto, confrontandosi con le esigenze applicative, le dispute teoriche tra rappresentazione e volontà nel dolo.

Esso racchiude nella sua struttura definitoria il confine tra dolo e colpa e, ancor più, segna in molti casi il limite soggettivo dell’illecito penale. Per completezza va chiarito che il dolo eventuale è compatibile con due figure in relazione alle quali si verifica talvolta qualche confusione: il dolo indeterminato ed il dolo alternativo.

La prima fattispecie si configura quando il soggetto agisce volendo alternativamente o cumulativamente due o più risultati che non sono tra loro incompatibili, come quando si spara contro un gruppo di persone volendo cagionare indifferentemente la morte di una o più persone. Il dolo alternativo si caratterizza invece per il fatto che i diversi fatti previsti sono incompatibili fra loro, nel senso che la realizzazione dell’uno esclude la realizzazione dell’altro: si spara per ferire od uccidere indifferentemente. In ambedue le figure in questione il dolo potrà configurarsi come intenzionale, diretto o eventuale.

Le diverse prospettazioni elaborate per caratterizzare il dolo eventuale possono essere distinte essenzialmente per il maggiore o minore rilievo attribuito al momento della rappresentazione e per lo spazio lasciato alla concreta indagine sull’atteggiamento psichico dell’agente, sulla componente volitiva. Si tratta di sfumature interne al senso dei discorsi, che sovente vanno oltre le enunciazioni formali sull’adesione all’una od all’altra delle teorie.

 

Il dolo eventuale e la teoria della rappresentazione

In un quadro così complesso e difficilmente definibile pare utile partire dalla sintetica esposizione della dottrina che nel dolo eventuale valorizza il ruolo della rappresentazione; anche perché essa si trova spesso riflessa nell’elaborazione giurisprudenziale. Quando il risultato dannoso è previsto solo come probabile o possibile occorre, ai fini dell’imputazione dolosa, qualcosa di più della sua sola previsione, onde definire un criterio discretivo rispetto alla colpa cosciente contrassegnata, appunto, dalla previsione dell’evento. L’unico criterio disponibile per stabilire quale è stato l’atteggiamento del soggetto nei confronti dell’evento rappresentato è dato in tutto e per tutto dal comportamento tenuto.

Se una persona si determina ad una certa condotta, malgrado la previsione che essa possa sboccare in un fatto di reato, ciò significa che accetta il rischio implicito nel verificarsi dell’evento; qualora avesse voluto sottrarsi a tale rischio, qualora’ non avesse acconsentito all’evento, evidentemente non avrebbe agito. Lo stato di dubbio non esclude il dolo: finché l’agente si rappresenta la possibilità positiva del prodursi di un fatto di reato lesivo di un interesse tutelato dal diritto, il rimprovero che gli si muove non è di aver agito con leggerezza, bensì di essersi volontariamente determinato ad una condotta, nonostante la previsione di realizzare un illecito penale.

Dunque in tali situazioni è presente un elemento di rappresentazione concreta. Tale concreta previsione manca, invece, nella colpa cosciente. Nei classici casi del giocoliere che lancia i coltelli verso un’altra persona, o dell’automobilista che guida a velocità eccessiva in una strada affollata, vi è una previsione della possibilità di cagionare un evento dannoso accompagnata dalla convinzione che, fidando nell’abilità personale, tale pregiudizio non si verificherà.

Tale convincimento nient’altro significa se non che l’agente ha escluso dalla propria coscienza la possibilità positiva che l’evento si verificasse; in altre parole che dallo stato di una previsione generica sulla idoneità di un comportamento quale egli tiene, a sfociare in astratto in un reato, è passato alla previsione concreta che, per particolari circostanze, ciò non avrà a verificarsi. La colpa cosciente si rivela caratterizzata dalla previsione negativa che un fatto di reato non si realizzerà e si distingue così dallo stato mentale di chi, rappresentatasi la possibilità di porre in essere una figura criminosa, non arrivi a superare questa posizione di dubbio.

Dunque, in tale dottrina la colpa cosciente si caratterizza per una previsione astratta che si evolve nel superamento del dubbio e si risolve in una previsione negativa. Al contrario il dubbio, se non superato o rimosso, radica il dolo. In breve, il limite dell’imputazione dolosa deve, nel dolo eventuale, ravvisarsi nell’accettazione del rischio: quando l’agente ha accettato la possibilità dell’evento, sia pure come risultato accessorio rispetto allo scopo della sua condotta, si può affermare che esso è voluto.

In tale scuola di pensiero la vera nozione unificante di tutte le specie di dolo è costituita dal momento rappresentativo: la rappresentazione dell’evento non solo come certo ma anche come probabile o possibile segna il passaggio dalla colpa cosciente al dolo eventuale, se il soggetto non abbia risolto in senso negativo il dubbio sulle conseguenze lesive possibili. È chiaro che in tale impostazione il dolo eventuale non costituisce una figura di margine, ma assurge ad ipotesi di base. Tale indirizzo dottrinale, come si è accennato, trova sovente applicazione anche in giurisprudenza.

 

…Il dolo eventuale e la teoria della volizione

Un opposto indirizzo della riflessione dottrinale, pure esso non di rado evocato dalla prassi, soprattutto quella più recente, va alla ricerca, come si è accennato, della dimensione volontaristica anche nel dolo eventuale. Di volontà in senso proprio può parlarsi solo con riferimento al dolo intenzionale. Nel dolo eventuale, in cui tale importante inflessione finalistica manca, occorre pur tuttavia andare alla ricerca di connotati della figura che la caratterizzino in guisa tale che un momento lato sensu volontaristico sia comunque presente.

È chiaro che in tale diversa prospettiva il dolo eventuale diviene figura peculiare, distinta e per nulla archetipica. Lo sforzo analitico nella direzione di fattori conoscitivi e volitivi peculiari caratterizza tale figura che, come è stato efficacemente sintetizzato, diviene una forma autonoma, un normotipo con una sua tipicità e colpevolezza distinte. In parallelo con tale sforzo analitico si è sviluppata una nuova fenomenologia: il dolo eventuale ha investito non solo attività illecite, ma anche attività di base lecite, come la circolazione stradale, le relazioni sessuali, le attività imprenditoriali. Il presente giudizio è espressione, appunto, di tali nuovi, inusuali contesti, che mettono alla prova l’istituto.

Tale nuova temperie giudiziaria ha fatto comparire nei processi nuove figure d’autore. Soggetti mai visti prima sulla scena del crimine doloso, tradizionalmente popolato, come si esporrà più avanti, da persone che impugnano una pistola e sparano ad un avversario. La nuova situazione ha portato, beneficamente, ad approfondimenti sull’atteggiamento interiore, sui processi decisionali, sulle motivazioni, che hanno dato più affinato contenuto alla fattispecie, dando corpo al vitale momento della colpevolezza, al rimprovero doloso.

Le teorie volontaristiche muovono dalla critica alla dottrina che nel dolo eventuale valorizza il momento rappresentativo. Si considera che la "previsione negativa" circa la possibilità che l’evento si realizzi, che costituisce l’unico criterio idoneo a definire rigorosamente il meccanismo psicologico della colpa cosciente, rappresenta il punto debole della costruzione. Infatti il codice esige la previsione dell’evento e non la previsione negativa. Il concetto di prova negativa è equivoco e sistematicamente inaccettabile. Sotto il profilo dell’oggetto, la previsione di un non evento finisce col postulare come oggetto del nesso psichico un requisito che non fa parte del fatto tipico: del fatto tipico fa parte l’evento, non la sua negazione.

Parimenti, altra dottrina osserva che la tesi secondo cui la colpa cosciente è caratterizzata dal superamento del dubbio rende inspiegabile l’aggravamento di pena previsto dall’art. 61, n. 3, e finisce, secondo la prassi corrente, con l’ascrivere al dolo eventuale un’area che andrebbe invece assegnata alla colpa cosciente. Il tenore letterale della norma rivela l’impraticabilità, nell’ordinamento italiano, della teoria secondo la quale la colpa con previsione sarebbe caratterizzata dal superamento, dalla rimozione della rappresentazione della possibilità che l’evento si verifichi. Si parla di un’azione compiuta nonostante la previsione dell’evento.

Ciò significa che detta previsione deve sussistere al momento della condotta, non deve essere stata sostituita da una non-previsione o contro-previsione, come quella implicita nella rimozione del dubbio. L’avverbio "nonostante" sottolinea efficacemente il permanere di un fattore-ostacolo che dovrebbe frapporsi alla condotta. La nozione di colpa con previsione attualmente praticata appare, in conclusione, per molti versi, frutto di un’insufficiente attenzione al dato normativo. Ne discende che il puro stato di dubbio nel quale il soggetto si trovi va ascritto al campo della colpa, sia pure aggravata, non a quello del dolo. Il dubbio non esclude l’esistenza del dolo, ma non è sufficiente ad integrarlo.

Ogniqualvolta l’agente si decida ad agire senza aver raggiunto la sicurezza soggettiva che l’evento previsto non si verificherà non può mancare una qualche accettazione del rischio. Essa non può essere superata dal puro accantonamento del dubbio quale stratagemma cui l’agente può facilmente, consapevolmente ricorrere per vincere le remore ad agire. A tale riguardo occorre accertare se la rimozione del dubbio rivesta un carattere di soggettiva serietà, in quanto l’agente sia pervenuto in buona fede al convincimento che l’evento non si sarebbe verificato.

Né sarebbe possibile sondare nell’inconscio alla ricerca delle radici dalle quali un determinato errore può derivare, giacché la norma-comando non può che fare appello alla parte cosciente dell’animo umano. Infine non viene neppure ritenuto possibile attingere ad un particolare atteggiamento emotivo, uno stato emozionale che accompagnerebbe la decisione di agire nonostante la previsione dell’evento, giacché il concetto di volizione di cui all’art. 43 non appare riconducibile a tale stregua. In breve, l’automobilista che percorre ad alta velocità le vie del centro sa di rendere più probabile la lesione dell’altrui incolumità. Dunque, se non si vuole correre il rischio di un macroscopico aumento dei casi di responsabilità dolosa, occorre individuare il dolo eventuale, rispetto alla colpa cosciente, non solo con riguardo al profilo rappresentativo ma richiedendo la presenza di elementi psicologici ulteriori.

Tale diverso modo di approcciarsi al tema conduce a considerare che se la previsione è elemento anche della colpa cosciente, è sul piano della volizione che va ricercata la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente. La colpevolezza per accettazione del rischio non consentito corrisponde alla colpevolezza propria del reato colposo, non alla più grave colpevolezza che caratterizza il reato doloso.

Accetta un rischio non consentito non solo chi incendia una casa prevedendo la possibilità della morte di una persona, ma anche chi spinge un’auto a velocità eccessiva in una strada affollata. L’argomentazione fondata sulla colpevolezza per accettazione del rischio non può spiegare, dunque, perché mai, se l’evento si verifica, esso sia attribuito a titolo di dolo in un caso ed a titolo di colpa nell’altro: nel dolo eventuale vi deve essere quindi qualcosa in più dell’accettazione del rischio. Si afferma così che dolo eventuale si ha quando il rischio viene accettato a seguito di un’opzione, di una deliberazione con la quale l’agente consapevolmente subordina un determinato bene ad un altro.

Vi è la chiara prospettazione di un fine da raggiungere, di un interesse da soddisfare, e la percezione del nesso che può intercorrere tra il soddisfacimento di tale interesse e il sacrificio di un bene diverso. In sostanza l’agente compie anticipatamente un bilanciamento, una valutazione comparata degli interessi in gioco (suoi ed altrui) ed i piatti della bilancia risultano, a seguito di tale valutazione, a livelli diversi: ve n’è uno che sovrasta l’altro. Il risultato intenzionalmente perseguito trascina con sé l’evento collaterale, il quale viene dall’agente coscientemente collegato al conseguimento del fine. Non basta, quindi, la previsione del possibile verificarsi dell’evento; è necessario anche  e soprattutto  che l’evento sia considerato come prezzo (eventuale) da pagare per il raggiungimento di un determinato risultato. Anche l’evento collaterale appare, in tal modo, all’agente "secondo l’intenzione".

Il dolo eventuale, dunque, in quanto espressione di una volontà pianificatrice, non risulta in opposizione con l’immagine del delitto doloso fornita dall’art. 43 cod. pen. In sintesi si può dire che nel dolo eventuale, oltre all’accettazione del rischio o del pericolo vi è l’accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno, della lesione, in quanto essa rappresenta il possibile prezzo di un risultato desiderato. Vi è dunque nel dolo eventuale una componente Iato sensu economica. In dottrina si argomenta pure che nel dolo eventuale la volizione in senso proprio sicuramente non esiste.

Posto che le conseguenze accessorie di un comportamento non possono dirsi intenzionali e non rientrano, quindi, nel concetto di volizione in senso naturalistico, l’unica strada percorribile è quella di assimilare alla volizione alcune situazioni reputate ad essa vicine con una scelta che è di tipo normativo, fondata su parametri rigorosi riferiti al modello dell’intenzionalità. Si tratta di individuare l’atteggiamento che, presente la consapevolezza di una possibile causazione dell’illecito, più si avvicini alla prospettiva della sua volizione.

Tale elemento di assimilazione è costituito dalla possibilità di affermare che l’agente avrebbe agito anche nella certezza di produrre il risultato. Tale impostazione presenta il vantaggio di creare un collegamento diretto, sia pure potenziale, rispetto all’evento; e quindi evita di dover scendere a considerare parametri interiori puramente emozionali che finiscono col collegare l’imputazione soggettiva all’atteggiamento più o meno ottimistico verso l’evento o impongono di prendere in considerazione la maggiore o minore sincerità verso se stessi.

Essa potrebbe inoltre costituire un argine contro il pericolo di dilatazione del criterio d’imputazione dolosa. In breve, va escluso che un’imputazione dolosa possa fondarsi su presupposti psicologici concernenti il fatto tipico e in particolare l’evento, i quali in realtà si riducano alla dimensione rappresentativa, con un’abrogazione surrettizia del riferimento cardine alla volontà. Senza riferimento al ruolo del volere, il dolo si trasforma in una categoria puramente normativa, il cui confine con la colpa viene a dipendere soltanto dalla discrezionalità tipica delle valutazioni normative.

Assimilare normativamente situazioni del tutto differenti nella loro sostanzialità psicologica lascia ampi spazi di pura valutazione politico-criminale giudiziaria: si approda ad un concetto di dolo nella sostanza presunto, secondo parametri ampiamente affidati, circa la definizione dei loro contenuti, alla discrezionalità giudiziaria. Tale prospettazione non è andata esente da critiche. È stato da più parti osservato che, radicando l’indagine sul dolo non in quello che nell’animo dell’agente si è effettivamente prodotto, ma in quello che avrebbe potuto prodursi, essa appare decisamente carente sul versante del nesso psicologico tra agente e fatto laddove un effettivo contenuto psicologico di tale segno non può far difetto nel dolo.

La praticabilità di un giudizio ipotetico risulta poi difficile in tutte le situazioni in cui tra risultato intenzionalmente perseguito ed evento collaterale vi sia, nell’ottica dell’agente, una sostanziale equivalenza ed in cui, quindi, sovente lo stesso agente avrebbe avuto forti perplessità nel decidere. Si viene in sostanza a fondare la distinzione tra dolo e colpa essenzialmente solo in chiave ipotetica e sulla base di una valutazione della personalità del reo. La breve ed incompleta rassegna che precede in ordine ai diversi tentativi di meglio definire il dolo eventuale lascia intravedere due orientamenti di fondo.

Uno mostra attenzione per l’aspetto di scelta personale, il profilo intellettuale, razionale che sorregge la decisione per l’azione, da tenere distinto dagli aspetti per così dire emozionali dell’atteggiamento interiore. In tale ambito assume rilievo il livello di oggettiva probabilità dell’evento, sicché l’accertamento del dolo, sotto tale aspetto, tende all’astrattezza, alla tipicità, alla normatività dell’atteggiamento dell’agente razionale.

Vi domina il profilo rappresentativo del dolo. È la previsione del risultato possibile, accompagnata dalla scelta di agire ciò nonostante, che implica una scelta e quindi un atto di volontà che coinvolge l’evento. Si tratta di un punto di vista che si ispira anche alla realistica considerazione che i più intimi moti interni non possono essere investigati ed oggettivamente dimostrati con i metodi dell’indagine giudiziaria; e persegue quindi un obiettivo di semplificazione e standardizzazione della prova.

Esso implica il grave rischio che il dolo, fondandosi interamente su analisi a sfondo probabilistico, perda gran parte del suo connotato di concreto atteggiamento interiore ed assuma un volto astratto, oggettivato, presuntivo, così vulnerando il principio di colpevolezza. L’altro indirizzo, consapevole di tale rischio, tenta in vario modo d’introdurre un temperamento considerando anche il concreto atteggiamento soggettivo di fronte al verificarsi del risultato, cioè tentando di cogliere se vi fu realmente, nella contingente irripetibile particolarità del caso, quell’atteggiamento concreto di accettazione del risultato che contrassegna il dolo eventuale.

Pure in tale approccio vi è un pericolo dal quale occorre guardarsi, già emerso dalla rassegna di dottrina che precede; quello, cioè, di far dipendere l’essere o non essere del reato dalla sfera emotiva dell’agente, dalla sua maggiore o minore sensibilità, dal livello del senso della realtà. Sul piano applicativo tali indirizzi non conducono spesso a conseguenze realmente e radicalmente divergenti nella risoluzione dei casi. Residuano, tuttavia, innegabili spazi d’irrisolta incertezza. Il più tipico, come sarà esposto nel prosieguo, rimane nei casi, sicuramente assai delicati, nei quali la previsione di un evento che ha una seria probabilità di verificazione si accompagna ad una verace e forte speranza che esso non si compia. L’aspetto più discusso in materia riguarda l’ambito della formalizzazione concettuale della linea di demarcazione tra dolo eventuale e colpa cosciente.

Si tratta, in sintesi, di ricercare ed enunciare nel dolo eventuale non l’atteggiamento emotivo ma l’aspetto di selezione razionale che, in maggiore o minore misura, sottende ciascuna scelta d’azione. Ma, particolarmente nell’ottica della giurisprudenza, occorre al contempo ricondurre tale valutazione ad un ambito di concretezza, che valorizzi il concreto momento dell’accertamento giudiziale e rifugga, per quanto possibile, da astratte generalizzazioni.

Occorre apprestare, lo si vuole ulteriormente ribadire, uno strumentario concettuale chiaro e concretamente utilizzabile, utile alla sicura risoluzione di casi difficili o di nuova emersione connessi, come si è accennato, a contesti di base leciti. Sin da ora, tuttavia, occorre prender nota che le tormentate specificità della figura, guardate nel loro articolato complesso, giustificano e rendono sostanzialmente da condividere le opinioni dottrinali che hanno messo in luce la diversità, la peculiarità dell’istituto; la problematicità dell’individuazione di un atteggiamento psichico equiparabile alla volontà; la difficoltà dell’accertamento a causa del suo carattere fortemente ipotetico. Tutto ciò dovrebbe suggerire un uso particolarmente cauto di tale nozione, per il pericolo di trasformare in dolo una responsabilità sostanzialmente colposa.

 

…Conclusioni su dolo eventuale e colpa cosciente

La disamina di alcuni casi difficili affrontati da questa Corte rende chiaro, ben oltre qualsiasi disquisizione teoretica, che la giurisprudenza, quando il contesto è davvero controverso, predilige l’approccio volontaristico e si dedica con grande attenzione alla lettura dei dettagli fattuali che possono orientare alla lettura del moto interiore che sorregge la condotta. Anche in forza di tale considerazione riassuntiva è ora possibile tentare di tirare le fila. Un dato testuale desunto dall’art. 43 è sicuramente decisivo per discernere tra dolo e colpa: l’essere o non essere della volontà. Noi non sappiamo esattamente cosa sia la volontà: la psicologia e le neuroscienze hanno fino ad ora ha fornito informazioni e valutazioni incerte, discusse, allusive.

Tuttavia, la comune esperienza interiore ci indica in modo sicuro che nella nostra vita quotidiana sviluppiamo continuamente processi decisionali, spesso essenziali per la soluzione di cruciali contingenze esistenziali: il pensiero elaborante, motivato da un obiettivo, che si risolve in intenzione, volontà. Sappiamo pure che tali processi hanno un andamento assai variabile: a volte brevi ed impulsivi; a volte lunghi, complessi, segnati dalla ponderazione di diversi elementi spesso di segno opposto, di informazioni di vario genere. Tale andamento culmina in un ineffabile momento decisorio in cui ci si determina ad agire o meno in vista di un determinato conseguimento. L’esperienza interiore ci insegna inoltre che i fattori di tale processo sono eterogenei, multiformi, alcuni maggiormente connotati in chiave emotiva, altri frutto di analisi razionale.

Tale andamento si conclama nel dolo intenzionale, diretto verso uno scopo. Qui solitamente la condotta mostra la volontà finalistica senza incertezze e nessuna speciale indagine è richiesta. Diversa la situazione nel dolo diretto: il momento cognitivo in ordine agli elementi di fattispecie ed alle conseguenze del proprio agire è talmente netto che dal solo fatto di tenere una certa condotta sulla base di alcune informazioni sullo sviluppo degli accadimenti si inferisce, normalmente, una determinazione nel senso dell’offesa del bene giuridico protetto.

Come si vede, si è in presenza di una sfera dell’agire umano dominata dalla rappresentazione. Il dolo, id est la volontà, è documentato dalla conoscenza delle conseguenze, dalla rappresentazione appunto. Si delinea così una figura giuridica distinta dal punto di vista strutturale, cui correttamente dottrina e giurisprudenza hanno riconosciuto, con sforzo analitico, una identità propria. Assai più complessa ed oscura è la contingenza che si designa come dolo eventuale, caratterizzata, come si è visto dall’accettazione delle possibili conseguenze collaterali, accessorie delle proprie condotte.

Qui il momento rappresentativo riguarda un evento dal coefficiente probabilistico non tanto significativo da risolvere il dubbio sull’essere o meno dell’atteggiamento doloso. Né vi sono segni tangibili, significativi, che consentano di inferire subitaneamente e chiaramente la direzione della volontà, l’andamento del processo decisionale, l’atteggiamento psichico rispetto all’evento illecito non direttamente voluto ma costituente conseguenza concretamente possibile della propria condotta.

Tale evento collaterale non è propriamente oggetto di volizione. Il quadro è senza dubbio aperto all’incertezza e richiede di definire quale sia, in tali contingenze, l’atteggiamento psichico rispetto all’evento collaterale che possa essere considerato equivalente della volontà, ad essa assimilabile; in modo che, come è stato suggestivamente suggerito, si riveli una diversa declinazione del concetto di volontà entro un unitario nucleo di senso capace di conservare a ciascuna delle configurazioni del dolo un "analogo concetto di volontà".

Il dolo eventuale deve dunque essere configurato in guisa tale che possa esser letto sensatamente e senza forzature come una forma di colpevolezza dolosa; in ossequio al fondante principio di legalità. Senza dubbio l’istituto è fortemente modellato dalle esigenze del diritto ed è dunque più normativo di altri. Esso, come si è già accennato, costituisce una costante criminologica, corrisponde a storiche ed immutate istanze di punizione di comportamenti che, per l’adesione che comportano alla prospettiva della verificazione dell’evento, sono comunemente ritenuti riprovevoli e meritevoli di giuridica sanzione.

D’altra parte, come pure si e accennato, il dolo eventuale è nato per corrispondere ad esigenze analitiche, garantiste; per sottrarre la fenomenologia di cui ci si occupa all’oscuro maneggio di risalenti istituti dai contorni deliberatamente offuscati, indefiniti, funzionali ad una pronta e sommaria azione punitiva, come il dolus generalis ed il dolus índirectus. Tale sforzo analitico deve essere rammentato ed attualizzato.

Diverse istanze pertinenti ai livelli più alti e fondanti della scienza penalistica impongono di prendere atto della necessità di tale pur incerta figura; ed al contempo di definirla, circoscriverla entro confini ristretti e chiari, in modo che sicura e prevedibile ne sia l’applicazione. Su ciò si tornerà. Uno dei modi classici per segnare i tratti ed i confini del dolo eventuale è quello di confrontarlo con le figure ad esso più vicine: il dolo diretto e la colpa cosciente.

La prima distinzione è teoricamente chiara; anche se, come si è visto non risulta unanimemente definito il livello di probabilità dell’evento dal quale si possa inferire immediatamente il dolo. Di ciò si è detto. Qui occorre considerare che in ogni caso il coefficiente probabilistico assai spesso non è misurabile; o non è talmente elevato da potersene inferire in modo tranquillante il dolo. Perciò, quanto più ci si avventura in ambiti incerti, tanto più penetrante ha da essere la valutazione coordinata di tutte le contingenze del caso alla ricerca del tratto volontaristico che contrassegna la colpevolezza dolosa. Ben più complessa è l’individuazione della linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente.

Anticipando le conclusioni, per conferire chiarezza al discorso occorre subito dire che, posto in tali termini, il problema potrebbe generare qualche fraintendimento. L’idea di un tratto di confine potrebbe infatti indurre a pensare erroneamente che tra l’una e l’altra figura vi sia, in linea di principio, una sfumata continuità. In realtà non è proprio così. Dolo e colpa sono forme di colpevolezza radicalmente diverse, per certi versi antitetiche. Alla luce di tale diversità va pure letta la distinzione di cui si discute. Si vuoi dire che le due figure, il dolo eventuale e colpa cosciente, appartengono a due distinti universi e da tale radicale diversità delle categorie al cui interno si collocano traggono gli elementi che le caratterizzano e le distinguono.

Tanto per chiarire subito ciò che si intende dire e sottrarre la disamina ai fumi dell’astrattezza: la struttura della previsione è diversa; diverso è l’evento; diverso è lo scenario dell’agire umano; diverso infine è l’animus. Su ciò si tornerà diffusamente più avanti. Tali preliminari enunciazioni aiutano a spiegare le molteplici ragioni critiche che inficiano la pur accreditata ed autorevole dottrina, spesso recepita dalla giurisprudenza, che individua nella colpa cosciente una previsione seguita da una controprevisione, cioè da una previsione negativa circa la verificazione dell’evento; e nel dolo eventuale, per conseguenza, un dubbio irrisolto. Di alcune diffuse e condivise ragioni si è già detto.

È sufficiente rammentare che il Codice parla, a proposito della colpa cosciente, di reale previsione dell’evento e non fa per nulla cenno al processo di negazione dell’accadimento elaborato dall’indirizzo che si critica. Inoltre, la teoria sottende una non realistica semplificazione ed idealizzazione della realtà: un agente che lucidamente analizza, discerne e si persuade nel senso della negazione dell’evento. Si tratta di una visione delle cose molto lontana dalla varietà delle contingenze che si verificano nella vita. Essa è certamente valida nel caso di scuola del lanciatore di coltelli, ma non nelle mille sfumate irripetibili contingenze del reale; tanto più nel mondo spesso buio, opaco, subliminale della colpa. Qui la sconsideratezza, la superficialità, l’irragionevolezza accreditano forme di previsione sommarie ed irrisolte, buone per la colpa ma non per il dolo.

Le cose non mutano guardandole nella prospettiva del dolo eventuale: secondo la teoria in esame esso si configurerebbe tutte quante volte l’agente si determini in presenza di un dubbio irrisolto circa la verificazione dell’evento e quindi in presenza della mera percezione di una situazione rischiosa. Una tale soluzione interpretativa svuota tale imputazione soggettiva di ogni reale contenuto volitivo che coinvolga la relazione tra condotta ed evento; la allontana in modo inaccettabile dalla categoria del dolo come atto di volontà; dà luogo ad una sorta di presunzione. Certamente il dubbio accredita l’ipotesi di un agire che implichi una qualche adesione all’evento, ma si tratta appunto solo di un’ipotesi che deve confrontarsi con tutte le altre contingenze del caso concreto.

Tale principio, del resto, è stato già espresso dalle Sezioni unite (SU, Nocera) e da diverse pronunzie di legittimità. Si è affermato che il dubbio descrive una situazione irrisolta, di incertezza, che appare difficilmente compatibile con una presa di posizione volontaristica in favore dell’illecito, con una decisione per l’illecito; ma ove concretamente superato, avendo l’agente optato per la condotta anche a costo di cagionare l’evento, volitivamente accettandolo quindi nella sua prospettata verificazione, lascia sussistere il dolo eventuale (Sez. 1, 30472/2011; Sez. 4, 36399/2013).

Dunque, ciò che risulta dirimente è, infine, un atteggiamento psichico che indichi una qualche adesione all’evento per il caso che esso si verifichi quale conseguenza non direttamente voluta della propria condotta. Il contrario avviso trascura, come è stato considerato dalla più attenta dottrina, che chi agisce dubitando a volte si determina in condizioni di irrazionalità motivazionale, oppure versa in uno stato di opacità che rapporta il rimprovero giuridico alla sfera della colpa. In breve, la previsione dell’evento può essere ben diversa nel dolo eventuale e nella colpa cosciente; e ciò costituisce il riflesso della diversità di fondo tra colpevolezza dolosa e colpevolezza colposa.

Nel dolo si è in presenza dell’agire umano ordinato, organizzato, finalistico. Un processo intellettuale che, lungamente elaborato o subitaneamente sviluppatosi e concluso, sfocia pur sempre in una consapevole decisione che determina la condotta antigiuridica. Qui il rimprovero giuridico coglie la scelta d’azione, o d’omissione, che si dirige nel senso della offesa del bene giuridico protetto. Il dolo, come si è già accennato, esprime la più intensa adesione interiore al fatto, costituisce la forma fondamentale, generale ed originaria di colpevolezza; la più diretta contrapposizione all’imperativo della legge.

Tale atteggiamento di contrapposizione alla legge giustifica, conviene rammentarlo, un trattamento sanzionatorio ben più severo di quello riservato ai comportamenti meramente colposi. Se così è, ne consegue che nel dolo non può mancare la puntuale, chiara conoscenza di tutti gli elementi del fatto storico propri del modello legale descritto dalla norma incriminatrice. In particolare, le istanze di garanzia in ordine al rimprovero caratteristico della colpevolezza dolosa richiedono che l’evento oggetto della rappresentazione appartenga al mondo del reale, costituisca una prospettiva sufficientemente concreta, sia caratterizzato da un apprezzabile livello di probabilità.

Solo in riferimento ad un evento così definito e tratteggiato si può istituire la relazione di adesione interiore che consente di configurare l’imputazione soggettiva. In breve, l’evento deve essere descritto in modo caratterizzante e come tale deve essere oggetto, di chiara, lucida rappresentazione; quale presupposto cognitivo perché possa, rispetto ad esso, configurarsi l’atteggiamento di scelta d’azione antigiuridica tipica di tale forma d’imputazione soggettiva. La colpevolezza colposa è tutt’altra cosa. Tale figura, per vero, è entrata nel mondo governato dal principio di colpevolezza da un tempo relativamente breve, quale frutto di una complessa speculazione teoretica cui la Suprema Corte ha nel complesso prestato adesione. Essa rimane, però, figura accentuatamente normativa ed assai ben distinta, sotto ogni riguardo, rispetto al dolo.

Ne è testimonianza lo storico fallimento dei tentativi di configurare un concetto unitario di colpevolezza su base psicologica: nella colpa tale base solitamente manca o è insignificante. La figura è opaca, umbratile, fatta più di pieni che di vuoti, caratterizzata immancabilmente, al fondo, da qualcosa che è mancato; bisognosa di eterointegrazione, generata da regole cautelari o da conoscenze scientifiche o tecniche. È pur vero che il codificatore ha ritenuto di configurare nella colpa, accanto all’istanza di prevedibilità dell’evento, implicitamente postulata da tale istituto, anche la situazione di concreta previsione dell’esito antigiuridico che caratterizza la colpa cosciente. Orbene, come è stato del resto mostrato da acuta dottrina, è chiaro che si è in presenza di una situazione distinta e più grave rispetto a quella della colpa incosciente.

Tuttavia è necessario che tale previsione sia letta traendo ispirazione dall’essenza della colpa, al cui interno deve restare saldamente insediata; per evitare confondimenti con i distinti e già indicati connotati della colpevolezza dolosa. Occorre allora partire dalla già evocata connessione tra regola cautelare ed evento. L’evento, si è visto, deve costituire concretizzazione del rischio che la cautela era chiamata a governare. Dal punto di vista soggettivo per la configurabilità del rimprovero è sufficiente che tale connessione tra la violazione delle prescrizioni recate delle norme cautelari e l’evento sia percepibile, riconoscibile dal soggetto chiamato a governare la situazione rischiosa.

Nella colpa cosciente si verifica una situazione più definita: la verificazione dell’illecito da prospettiva teorica diviene evenienza concretamente presente nella mente dell’agente; e mostra per così dire in azione l’istanza cautelare. L’agente ha concretamente presente la connessione causale rischiosa; il nesso tra cautela ed evento. L’evento diviene oggetto di una considerazione che disvela tale istanza cautelare, ne fa acquisire consapevolezza soggettiva.

Di qui il più grave rimprovero nei confronti di chi, pur consapevole della concreta temperie rischiosa in atto, si astenga dalle condotte doverose volte a presidiare quel rischio. In questa mancanza, in questa trascuratezza, è il nucleo della colpevolezza colposa contrassegnata dalla previsione dell’evento: si è, consapevolmente, entro una situazione rischiosa e per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altra biasimevole ragione ci si astiene dall’agire doverosamente. Tale situazione è tutt’affatto diversa da quella prima delineata a proposito della puntuale conoscenza del fatto quale fondamento del rimprovero doloso, basato, lo si rammenta ancora, sulla positiva adesione all’evento collaterale che, ancor prima che accettato, è chiaramente rappresentato. D’altra parte tale connotazione della consapevolezza colposa allontana ulteriormente l’idea irrealistica costituita dal processo di previsione e controprevisione o previsione negativa.

Non è per nulla escluso che tale situazione possa in qualche caso verificarsi, ma essa non è un tratto fondante, immancabile, della previsione dell’evento che caratterizza l’aggravante. Tale differenza di contesto e di senso giustifica da un lato una diversa descrizione dell’evento e dall’altro forme di consapevolezza della sfera fattuale diverse e più sfumate rispetto a quella propria dell’ambito doloso. È sufficiente che l’evento esprima la concretizzazione del rischio cautelato dalla norma prevenzionistica. Rispetto a tale evento la rappresentazione, nella colpa, occorre ribadirlo, può ben essere vaga ed alquanto sfumata, pur preservando i tratti essenziali che connettono causalmente la violazione cautelare con l’evento medesimo. Le più volte ripetute sottolineature delle differenze tra dolo eventuale e colpa cosciente consentono di rimarcare ulteriormente la fallacia dell’opinione che identifica il dolo eventuale con l’accettazione del rischio. L’espressione è tra le più abusate, ambigue, non chiare, dell’armamentario concettuale e lessicale nella materia in esame. La si vede utilizzata in giurisprudenza in forma retorica quale espressione di maniera, per coprire le soluzioni più diverse. In primo luogo trovarsi in una situazione di rischio, avere consapevolezza di tale contingenza e pur tuttavia regolarsi in modo malaccorto, trascurato, irrazionale, senza cautelare il pericolo, è tipico della colpa che, come si è visto, è malgoverno di una situazione di rischio e perciò costituisce un distinto atteggiamento colpevole, rimproverabile.

Inoltre, il Codice stabilisce nel dolo una essenziale relazione tra la volontà e la causazione dell’evento: qui è il nucleo sacramentale dell’istituto. Un atteggiamento interno in qualche guisa ad esso assimilabile va rinvenuto pure nel dolo eventuale. In tale figura, come si è accennato, non vi è finalismo, non vi è rappresentazione di un esito immancabile o altamente probabile, in breve, traspare poco della sfera interna, non vi è volontà in azione, esteriorizzata.

Si tratta allora di andare alla ricerca della volontà o meglio di qualcosa ad essa equivalente nella considerazione umana, in modo che possa essere sensatamente mosso il rimprovero doloso e la colpevolezza quindi si concretizzi. Tale essenziale atteggiamento difetta assolutamente nella mera accettazione del rischio, che trascura l’essenziale relazione tra condotta volontaria ed evento; e, come è stato osservato, finisce col trasformare gli illeciti di evento in reati di pericolo.

Risulta del tutto chiaro a questo punto che la dottrina e la giurisprudenza che valorizzano la rilevanza della volontà e della sua ricerca anche nell’ambito della figura di cui si discute colgono nel segno; e che il momento dell’accertamento, pur essendo analiticamente distinto dalla struttura e dall’oggetto della fattispecie, tende a compenetrarvisi e ad assumere un ruolo in concreto cruciale. Si vuol dire che tutto ciò che si è sin qui esposto risulterebbe una pura esercitazione verbale se non si riuscisse a dire chiaramente cosa esattamente sia l’evocato atteggiamento psichico e come esso possa essere accertato.

Muovendosi nella sfera interiore è chiaro che entra in campo il paradigma indiziario. In breve si cercano sulla scena i segni dai quali inferire la sicura accettazione degli effetti collaterali della propria condotta. Sovviene a tale riguardo quanto sin qui esposto sui processi decisionali, nei quali agiscono diversi fattori emotivi e razionali. Si tratterà, nei limiti del possibile, di tentare di spiegare l’accaduto, di ricostruire l’iter decisionale, di intendere i motivi che vi hanno agito, di cogliere, insomma, perché ci si è determinati in una direzione.

Occorrerà comprendere se l’agente si sia lucidamente raffigurata la realistica prospettiva della possibile verificazione dell’evento concreto costituente effetto collaterale della sua condotta, si sia per così dire confrontato con esso e infine, dopo aver tutto soppesato, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia consapevolmente determinato ad agire comunque, ad accettare l’eventualità della causazione dell’offesa. Naturalmente, tale ordine di idee può essere espresso in molti, sfumati modi e le teorie volontaristiche di cui si è sopra dato conto, al fondo, non differiscono molto tra loro se guardate con l’occhio della giurisprudenza, attenta più alle questioni di fondo che alle pur sapienti ed accurate varianti stilistiche.

Ciò che è di decisivo rilievo è che si faccia riferimento ad un reale atteggiamento psichico che, sulla base di una chiara visione delle cose e delle prospettive della propria condotta, esprima una scelta razionale; e, soprattutto, che esso sia rapportato allo specifico evento lesivo ed implichi ponderata, consapevole adesione ad esso, per il caso che abbia a realizzarsi. Non rilevano invece, in quanto tali, gli atteggiamenti della sfera emotiva, gli stati d’animo. L’ottimismo ed il pessimismo, la speranza, naturalmente, non hanno un ruolo significativo nell’indagine sull’atteggiamento interno in rapporto alla direzione della condotta verso l’offesa del bene giuridico. Risulta però spesso interessante comprendere le ragioni che hanno determinato la speranza o altro atteggiamento emotivo.

E dunque non può neppure dirsi che la considerazione della sfera emotiva sia del tutto estranea al nostro tema. Di ciò ci si occuperà nel prosieguo. Lo stesso stato di dubbio irrisolto, conviene ripeterlo, non risolve il problema del dolo eventuale: indica un indizio, ma è pur sempre necessario dimostrare che lo stato d’incertezza sia accompagnato dalla già evocata, positiva adesione all’evento; dalla scelta di agire a costo di ledere l’interesse protetto dalla legge.

Ciò che è di decisivo rilievo è che nella scelta d’azione sia ravvisabile una consapevole presa di posizione di adesione all’evento, che consenta di scorgervi un atteggiamento ragionevolmente assimilabile alla volontà, sebbene da essa distinto: una volontà indiretta o per analogia, si potrebbe dire. In questo risiede propriamente la rimproverabilità, la colpevolezza dell’atteggiamento interno che si denomina dolo eventuale.

Il Collegio ha la consapevolezza che, sebbene nelle enunciazioni che precedono vi sia una presa di posizione ed una risposta di principio alle questioni sul tappeto, sovente le formule della teoria vengono distorte più o meno consapevolmente nella prassi: è il lato oscuro del diritto penale. Vi è quindi necessità di affrontare analiticamente il tema della prova del dolo eventuale, anche alla luce dei casi topici che, a tal fine, sono stati esposti in precedenza con qualche ricchezza di dettaglio.

 

… Gli indizi o indicatori del dolo eventuale

Dovendosi indagare la sfera interiore, l’indagine sul dolo eventuale si colloca sul piano indiziario. Va subito aggiunto, però, che tali indizi o indicatori non incarnano la colpevolezza, ma servono a ricostruire il processo decisionale ed i suoi motivi e particolarmente il suo culmine che, come si è visto, si realizza con l’adozione di una condotta che si basa sulla nitida, ponderata consapevolezza della concreta prospettiva dell’evento collaterale; e si traduce in adesione a tale eventualità, quale prezzo o contropartita accettabile in relazione alle finalità primarie. Gli indizi, insomma, sono al servizio del giudizio che si risolve nel peculiare rimprovero doloso di cui ci si occupa. Per sottrarre l’argomentazione al rischio dell’astrattezza conviene analizzare alcuni indicatori, anche in rapporto alla loro utilizzazione in ambito giurisprudenziale.

La condotta che caratterizza l’illecito ha un determinante rilievo negli illeciti di sangue, che costituiscono il classico paradigma della fattispecie. Se ne è vista una rassegna giurisprudenziale: le caratteristiche dell’arma, la ripetizione dei colpi, le parti prese di mira e quelle colpite, sono importanti, nella prospettiva del dolo eventuale, quando non si è in presenza della elevata probabilità di verificazione dell’evento che contrassegna il dolo diretto. Ma si tratta della parte più nota e meno interessante del nostro tema. Rileva pure, negli ambiti governati da discipline cautelari, la lontananza della condotta standard. Quanto più grave ed estrema è la colpa tanto più si apre la strada ad una cauta considerazione della prospettiva dolosa. Si tratta della situazione che caratterizza la più recente esperienza giuridica di cui si è dato sopra conto. Emblematico il contesto della circolazione stradale.

Qui è naturale pensare allo schema normativo della colpa cosciente; e questa è stata infine la soluzione accreditata dalla giurisprudenza della Suprema Corte. L’opposta soluzione nel senso del dolo eventuale ha preso corpo in alcuni casi davvero peculiari nei quali l’agente ha mostrato una determinazione estrema, la volontà di correre, per diverse ragioni, rischi altissimi senza porre in essere alcuna misura per tentare di governare tale eventualità; in breve ha realmente, tangibilmente accettato l’eventualità della verificazione dell’evento illecito.

La personalità, la storia e le precedenti esperienze talvolta indiziano la piena, vissuta consapevolezza delle conseguenze lesive che possono derivare dalla condotta; e la conseguente accettazione dell’evento. Nel caso della donna che aveva trasmesso il virus HIV al partner, vi era l’esperienza di un evento analogo che aveva colpito il precedente compagno, conducendolo alla morte. Il peso di una così drammatica circostanza è con tutta evidenza capace di orientare la lettura in chiave dolosa dei ripetuti, successivi contatti sessuali. Ma l’esperienza può assumere significato in senso contrario.

Il lanciatore di coltelli, forte della consumata abilità comprovata da mille prove, non mette in conto di colpire il bersaglio umano. Parimenti il pilota d’auto temprato da molte gare affronta fiducioso rischi maggiori di un conducente ordinario: confida che l’abilità acquisita lo aiuterà in eventuali contingenze critiche.

La personalità, esaminata in concreto e senza categorizzazioni moralistiche, può mostrare le caratteristiche dell’agente, la sua cultura, l’intelligenza, la conoscenza del contesto nel quale sono maturati i fatti; e quindi l’acquisita consapevolezza degli esiti collaterali possibili. Insomma, essa ha un peso indiscutibile, soprattutto nell’ambito del profilo conoscitivo del dolo. Nel caso, cui si è già fatto cenno, dell’uomo che trasmette alla moglie il virus HIV, il dolo è stato infine escluso facendo leva sul basso livello culturale e sull’incompleta comprensione delle drammatiche conseguenze delle sue azioni. Parimenti la personalità immatura del giovane che furoreggia in moto è più verosimilmente compatibile con la colpa che col dolo eventuale.

 

La durata e la ripetizione della condotta

Un comportamento repentino, impulsivo, accredita l’ipotesi di un’insufficiente ponderazione di certe conseguenze illecite. In generale la bravata e l’atto compiuto d’impulso in uno stato emotivo alterato indiziano un atteggiamento di grave imprudenza piuttosto che la volontaria accettazione della possibilità che si verifichino eventi sinistri. Per contro, una condotta lungamente protratta, studiata, ponderata, basata su una completa ed esatta conoscenza e comprensione dei fatti, apre realisticamente alla concreta ipotesi che vi sia stata previsione ed accettazione delle conseguenze lesive.

Sempre a proposito del contagio del virus HIV, la frequenza dei rapporti sessuali non solo incrementa le probabilità, ma mostra solitamente un atteggiamento risoluto, determinato. Lo si è visto nella giurisprudenza esaminata: nel caso di rapporti lungamente protratti con la partner tale significativo dato indiziario aveva inizialmente condotto all’affermazione di responsabilità per dolo eventuale. Tale dato, lungi dall’essere svalutato nel prosieguo del giudizio, è stato ritenuto sopravanzato da carenze culturali e da altre discusse contingenze cui si è qui sopra fatto cenno. Si tratta di uno dei casi più controversi dell’esperienza giuridica in materia.

La condotta successiva al fatto. La fattiva e spontanea opera soccorritrice può aver peso nell’accreditare un atteggiamento riconducibile alla colpa e non al dolo eventuale. Per contro, l’estremo tentativo di fuga del ladro, pur dopo il disastroso urto mortale, mostra appieno la estrema determinazione del tentativo di sottrarsi a qualunque costo all’intervento di polizia; e dunque l’adesione alla drammatica prospettiva poi realizzatasi. All’opposto, lo stupore del giovane che si avvede di aver investito i ciclomotoristi mostra in modo alquanto pregnante l’assenza di previsione ed accettazione di quell’esito estremo. Il fine della condotta, la sua motivazione di fondo; e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali, cioè la congruenza del "prezzo" connesso all’evento non direttamente voluto rispetto al progetto d’azione.

La probabilità di verificazione dell’evento. Si è visto che la certezza o l’elevata probabilità dell’esito antigiuridico accreditano il dolo diretto. Ma, come si è già esposto, nei contesti della giurisprudenza il coefficiente probabilistico non è quasi mai misurabile. Si compiono valutazioni di massima. Allora, se è lecito riferirsi alla probabilità dell’evento come ad un indicatore significativo, un approccio sensato al problema induce senz’altro ad affermare che, quanto più ci si allontana dall’umana certezza sui sentieri incerti della probabilità, tanto più il giudice attento a cogliere le movenze dell’animo umano deve investigare profondamente lo scenario complessivo per scorgervi i segni di un atteggiamento riconducibile alla sfera del volere. Mai dimenticando che la probabilità non va considerata in astratto, ma sogguardata dal punto di vista dell’agente, della percezione che questi ne ha avuta.

Le conseguenze negative o lesive anche per l’agente in caso di verificazione dell’evento. Si tratta di un tema ricorrente nell’infortunistica stradale, che accredita fortemente l’ipotesi colposa. Tale indirizzo è stato ribaltato, come si è visto solo in situazioni estreme, in presenza di concrete emergenze che conducevano a ritenere che le motivazioni dell’elevata velocità e le peculiarità della condotta di guida implicavano l’accettazione dell’eventualità di subire conseguenze personali negative, dando così consistenza dolosa all’azione.

Il contesto lecito o illecito. Una situazione illecita di base indizia più gravemente il dolo, mentre un contesto lecito solitamente mostra un insieme di regole cautelari ed apre la plausibile prospettiva dell’errore commesso da un agente non disposto ad accettare fino in fondo conseguenze che lo collocano in uno stato di radicale antagonismo rispetto all’imperativo della legge, tipico del dolo. Naturalmente tale criterio, al pari del resto di tutti gli altri cui si è fatto riferimento, va utilizzato con cautela, ed in accordo con le altre emergenze del caso concreto. Qui si tratta, in particolare, di evitare che il giudizio sulla colpevolezza per il fatto concreto possa nascondere un giudizio sul tipo d’autore.

Il controfattuale. Resta da dire del più importante e discusso indicatore del dolo eventuale che si configura quando, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, è possibile ritenere che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento. Esso, come si è visto, è stato utilizzato dalle Sezioni Unite in tema di ricettazione ed è evocato in diverse pronunzie di legittimità. Si è sopra esposto che l’autorevole dottrina che maggiormente ha rimarcato la necessità di cogliere il momento volitivo pure nel dolo eventuale ha ritenuto che tale strumento sia l’unico risolutivo. L’enunciazione è per certi versi condivisibile, poiché tale giudizio controfattuale riconduce virtualmente l’atteggiamento dell’agente a quello proprio del dolo diretto e dunque riduce ma definisce nitidamente l’area occupata dalla figura soggettiva in esame. D’altra parte, alcune delle critiche mosse a tale approccio appaiono poco convincenti. In effetti si è in presenza di un giudizio ipotetico, ma ciò non è per nulla estraneo allo strumentario della scienza penalistica che, appunto, da valutazioni congetturali è pervasa.

L’importante è che si sia in possesso di informazioni altamente affidabili che consentano di esperire il controfattuale e di rispondere con sicurezza alla domanda su ciò che l’agente avrebbe fatto se avesse conseguito la previsione della sicura verificazione dell’evento illecito collaterale. Occorre però realisticamente prendere atto che tale situazione non sempre si verifica. In molte situazioni il dubbio rimane irrisolto. Vi sono casi in cui neppure l’interessato saprebbe rispondere ad una domanda del genere. Allora, guardando le cose con il consueto, sensato realismo della giurisprudenza, occorre ritenere che la formula in questione costituisca un indicatore importante ed anzi sostanzialmente risolutivo quando si abbia modo di esperire in modo affidabile e concludente il relativo controfattuale.

L’accertamento del dolo eventuale, tuttavia, non può essere affidato solo a tale strumento euristico; ma deve avvalersi di tutti i possibili, alternativi strumenti d’indagine. L’esposizione che precede indica solo alcuni degli indizi. Il catalogo è aperto e ciascuna fattispecie concreta, analizzata profondamente, può mostrare plurimi segni peculiari in grado di orientare la delicata indagine giudiziaria sul dolo eventuale. Va aggiunto che, come per tutte le valutazioni indiziarie, quanto più alta è la affidabilità, la coerenza e la consonanza dei segni tanto maggiore risulta la forza del finale giudizio.

Anche qui l’indagine demandata al giudice richiede uno estremo, disinteressato sforzo di analisi e comprensione dei dettagli; un atteggiamento, cioè, immune dalla tentazione di farsi protagonista di scelte politico-criminali che non gli competono ed al contempo attivamente interessato alla comprensione dei fatti, anche quelli psichici, alieno dall’applicazione pigra di meccanismi presuntivi.

Non può certo nascondersi che un tale itinerario non è per nulla facile, non solo e non tanto per l’affinato talento critico che richiede, ma anche perché spesso il materiale probatorio è povero, non consente quella completa lettura di scenario dalla quale soltanto può scaturire un persuasivo giudizio di colpevolezza per dolo eventuale. Tutto ciò deve indurre a speciale cautela. La figura di cui ci si occupa è peculiare, marginale, di difficile accertamento. In conseguenza, in tutte le situazioni probatorie irrisolte alla stregua della regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, occorre attenersi al principio di favore per l’imputato e rinunziare all’imputazione soggettiva più grave a favore di quella colposa, se prevista dalla legge. Di certo, infine, il tema dell’accertamento del dolo eventuale mette in campo la figura del giudice.

Questi potrà affrontare un’indagine tanto delicata e difficile come quella cui si è sin qui fatto cenno solo se abbia matura consapevolezza del proprio ruolo di professionista della decisione; e sia determinato a coltivare ed esercitare i talenti che tale ruolo richiedono: assiduo impegno a ricercare, con le parti, i fatti fin nei più minuti dettagli; e ad analizzarli, soprattutto, con un atteggiamento di disinteresse, cioè di purezza intellettuale che consenta di accogliere, accettare senza pregiudizi il senso delle cose; di rifuggire da interpretazioni precostituite, di maniera; di vagliare e ponderare tutte le acquisizioni con equanimità.

Uno sguardo alla giurisprudenza più recente, come si è accennato, consente di affermare che l’inflessione volontaristica del dolo eventuale è dominante nei casi più delicati; e che non manca, solitamente, una acuta attenzione a sceverare per quanto possibile gli atteggiamenti interni. Tale indirizzo deve essere valorizzato ed irrobustito; anche per contrastare ricorrenti tensioni verso forzature della realtà e del senso delle cose, per rendersi protagonisti di scelte criminologiche che trascendono la sfera giudiziaria. In ogni caso va ribadito, quale estrema garanzia del giudizio, che nei casi incerti il principio del favor rei dovrebbe sempre orientare a configurare la colpa cosciente, affinché non si disperda il tratto fondante del dolo, costituito dalla connessione tra l’atteggiamento interiore e l’evento.

 

…La giurisprudenza storica sul dolo riassunta in SU, 38343/2014

Anche in giurisprudenza il dolo intenzionale, viene caratterizzato dal suo connotato finalistico, che non è escluso dalla previsione dell’evento come meramente possibile, poiché l’incertezza sulla sua verificazione può derivare dal carattere indiretto dei mezzi usati, che non incide sull’intenzione effettivamente perseguita (Sez. 1, 2269/1991). Quanto al dolo diretto ed alla sua distinzione rispetto a quello eventuale vi è copiosa giurisprudenza di legittimità, purtroppo focalizzata quasi esclusivamente sulle problematiche della volontà omicida e del suo accertamento. Il tema è analizzato in modo puntuale in una pronunzia delle Sezioni unite che propone una completa messa a punto della definizione dell’area di confine tra le diverse forme di dolo.

La sentenza parte dalla critica dell’orientamento giurisprudenziale che tende a ridurre il dolo diretto al solo dolo intenzionale, inteso come volontà specificamente mirata a realizzare l’evento tipico, in diretta attuazione del movente; e che al contempo estende eccessivamente la categoria del dolo eventuale, comprendendovi tutti gli atteggiamenti psichici caratterizzati dalla volontà dell’evento, certo o altamente probabile, ed escludendo la sola intenzione di perseguire l’evento. Tale indirizzo  si osserva  tende ad utilizzare il dolo eventuale come scappatoia per evitare difficoltà nell’accertamento e nella motivazione della volontà omicida.

L’osservazione della realtà psicologica sottesa all’amplissima casistica giurisprudenziale consente di individuare e classificare livelli crescenti di intensità della volontà dolosa. Il dolo eventuale è caratterizzato dalla consapevolezza che l’evento, non direttamente voluto, ha la probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione, nonché dall’accettazione volontaristica di tale rischio. Nel caso di accettazione del rischio dell’evento si richiede all’autore una adesione di volontà, maggiore o minore, a seconda che egli consideri maggiore o minore la probabilità di verificazione dell’evento. Quando, invece, l’evento è ritenuto dall’agente altamente probabile o certo l’autore non si limita ad accettarne il rischio, ma accetta l’evento stesso, cioè lo vuole e con un’intensità evidentemente maggiore che nel dolo eventuale. In tale caso si ha dolo diretto.

Se l’evento, oltre che accettato, è perseguito, la volontà si colloca in un ulteriore livello di gravità e potrà distinguersi fra un evento voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale e un evento perseguito come scopo finale. Si tratta del dolo specifico. Nei casi ricorrenti di uso delle armi per sottrarsi alla reazione della vittima ovvero per sfuggire all’inseguimento della polizia, il tipo di arma, la reiterazione e la direzione dei colpi, la zona del corpo attinta, fanno ritenere certo o altamente probabile il verificarsi di eventi lesivi o mortali, accanto a quello primariamente perseguito dell’intimidazione del soggetto reagente ovvero accanto a quello di costringere l’inseguitore a fermarsi o a desistere.

In tali casi, che maggiormente evidenziano l’esigenza repressiva, sarebbe ingenuo parlare di mera accettazione del rischio e di dolo eventuale, essendo evidenti gli estremi dell’accettazione di eventi certi o altamente probabili e quindi della volontà di essi, ovvero gli estremi della volontà, sia pure strumentalmente ad un fine ulteriore, di perseguire l’evento che connotano il dolo diretto in entrambi i casi (SU, 748/1993).

Dunque, dalla pronunzia emergono alcune indicazioni di qualche interesse. In primo luogo, nel dolo eventuale occorre una situazione di probabilità dell’evento, che  tuttavia  deve essere riguardata sotto il profilo soggettivo, del modo cioè in cui il concreto agente ha ravvisato la possibilità di verificazione di un risultato della condotta. Oltre a tale probabilità per così dire soggettiva, occorre altresì un profilo deliberativo, costituito dalla «accettazione volontaristica del rischio». Tale profilo volontaristico, tuttavia, riguarda non l’evento, ma il rischio dell’evento. Invece, nei casi in cui l’evento è certo o altamente probabile, sempre nella prospettiva soggettiva dell’agente, vi è l’accettazione dell’evento medesimo e quindi la sua volizione. Qui non occorre  secondo la Corte  andare alla ricerca dell’atto deliberativo nel quale si estrinseca la direzione della volontà.

La presenza del profilo volitivo del dolo è implicata dalla stessa elevata probabilità, sia pure sogguardata nella prospettiva dell’agente. Infine, la volontà di cui si parla va accertata sulla base di indicatori obiettivi connessi precipuamente alle modalità del fatto. Le indicate enunciazioni si rinvengono, sia pure con qualche lieve variante, in altre pronunzie delle Sezioni unite, tutte focalizzate sulla volontà omicida (SU, 3428/1992). L’indirizzo in questione, che tende ad estendere l’area del dolo diretto legandola essenzialmente alla presenza di una rilevante, elevata probabilità di verificazione dell’evento, guardata dal punto di vista dell’agente, è presente in numerose altre pronunzie (tra le tante, Sez. 1, 3277/1996; Sez. 1, 3337/1997; Sez. 1, 10795/2000; Sez. 1, 1367/2007; Sez. 1, 12954/2008). Rispetto a tali orientamenti riferiti a contesti classici, appare di particolare interesse la pronunzia delle Sezioni Unite in tema di ricettazione (SU, 12433/2010).

La sentenza reca alcune notazioni e propone una soluzione che trovano la loro radice nelle peculiarità del reato cui si riferisce: quello di ricettazione in raffronto con la contigua fattispecie di incauto acquisto. In proposito si considera che il dolo eventuale non forma oggetto di una testuale previsione legislativa: la sua costruzione è rimessa all’interprete ed è ben possibile che per particolari reati assuma caratteristiche specifiche. Si è in effetti in un contesto inusuale nella giurisprudenza: non si tratta del classico reato di evento lesivo, ma di una fattispecie nella quale rileva anche il presupposto della condotta costituito dalla provenienza della cosa da delitto.

La Corte chiarisce che la componente rappresentativa del dolo deve investire il fatto nel suo complesso, non solo l’evento ma tutti gli elementi della fattispecie. Inoltre, la peculiarità del contesto normativo, la necessità di una nitida linea di demarcazione tra le fattispecie induce a ritenere che il dolo eventuale richiede, nel reato di ricettazione, circostanze più consistenti di quelle che danno semplicemente motivo di sospettare che la cosa provenga da delitto, sicché un ragionevole convincimento che l’agente ha consapevolmente accettato il rischio della provenienza delittuosa può trarsi solo dalla presenza di dati di fatto inequivoci, che rendano palese la concreta possibilità di una tale provenienza.

In termini soggettivi ciò vuol dire che il dolo eventuale nella ricettazione richiede un atteggiamento psicologico che, pur non attingendo il livello della certezza, si colloca su un gradino immediatamente più alto di quello del mero sospetto, configurandosi in termini di rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto. Insomma perché possa ravvisarsi il dolo eventuale non basta un semplice dubbio, ma si richiede una situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all’agente una scelta consapevole tra l’agire, accettando l’eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire.

Perciò, richiamando un criterio elaborato in dottrina per descrivere il dolo eventuale, può ragionevolmente concludersi che questo, rispetto alla ricettazione, è ravvisabile quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuta la certezza. La soluzione adottata evoca un antico suggerimento metodologico cui si è già fatto cenno in precedenza. Il tema sarà ripreso anche più avanti.

Qui, indipendentemente dalle dispute sulla possibilità di applicazione estensiva della formula anche al di fuori della specifica incriminazione in esame, preme rimarcare che dalla pronunzia esce rafforzata la valorizzazione della componente psicologica, volitiva, del dolo eventuale: il tratto di scelta consapevole. Occorre infine aggiungere che il dolo eventuale non è configurabile in tutte le fattispecie.

La Corte suprema ha avuto occasione di escludere la compatibilità di tale figura con alcuni reati. Ad esempio, in tema di calunnia, ai fini dell’integrazione dell’elemento psicologico non assume alcun rilievo la forma del dolo eventuale, in quanto la formula normativa «taluno che egli sa innocente» risulta particolarmente pregnante e indicativa della consapevolezza certa dell’innocenza dell’incolpato (Sez. 6, 2750/2009; Sez. 6, 16645/2010).

 

…La giurisprudenza storica su dolo eventuale e colpa cosciente riassunta in SU, 38343/2014

A proposito del controverso confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, si rinvengono in giurisprudenza diverse sfumature che, in modo più o meno marcato, ripetono quelle presenti in dottrina. In alcune pronunzie la linea di demarcazione è individuata nel diverso atteggiamento psicologico dell’agente che, nel primo caso accetta il rischio che si realizzi un evento diverso non direttamente voluto, mentre nel secondo, nonostante l’identità di prospettazione, respinge il rischio, confidando nella propria capacità di controllare l’azione, sicché esso non è voluto e non è accettato per il caso che si verifichi.

Comune è, pertanto, la previsione dell’evento diverso da quello voluto, mentre ciò che diverge è l’accettazione o l’esclusione del rischio relativo. Si tratta di atteggiamenti psicologici che vanno ricostruiti affidandosi agli elementi sintomatici evidenziati dal comportamento del soggetto (Sez. 4, 11024/1997). È in sostanza la consapevole accettazione di tale possibilità che trasferisce nella volontà ciò che era nella previsione (Sez. 1, 12/11/1987).

In altre pronunzie, invece, la linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente è più orientata verso il profilo rappresentativo: nel primo la verificazione dell’evento si presenta come una concreta possibilità e l’agente, attraverso la volizione dell’azione, ne accetta il rischio; mentre nell’altra la verificabilità dell’evento rimane un’ipotesi astratta che nella coscienza dell’agente non viene concepita come concretamente realizzabile e pertanto non è in alcun modo voluta. Si tratta della trasposizione puntuale della dottrina che distingue tra la previsione astratta della colpa cosciente e la previsione concreta del dolo eventuale (Sez. 1, 2192/1988; Sez. 1, 7382/1993; Sez. 1, 4583/1994; Sez. 1, 832/1996).

Nella colpa cosciente compare, quindi, una controvolontà che invece non è presente nel dolo eventuale (Sez. 1, 13260/1987; Sez. 1, 8211/1987). Il dolo eventuale si ha quando gli esiti previsti siano probabili e anche solo possibili se, malgrado ciò, perseverando nella sua azione, l’agente ne accetta il rischio, così dando un’adesione di volontà al loro verificarsi e pur se egli speri il contrario. Il limite del dolo eventuale è dato dalla certezza del non verificarsi degli eventi possibili rappresentati (Sez. 1, 5786/1980). In tale imputazione non vi è una finzione giuridica, bensì una realtà psicologica che assimila al dolo diretto l’atteggiamento di chi agisce accettando il rischio della verificazione dell’evento, così trasferendo nel raggio della volontà ciò che era solo nella previsione (Sez. 1, 9699/1980).

Incerta appare in giurisprudenza la possibile rilevanza dell’atteggiamento interiore a sfondo emotivo costituito dalla speranza, cui si è fatto ampio riferimento, come si è visto, nella pronunzia in esame. In qualche sentenza la si ammette: la rappresentazione delle conseguenze delle proprie azioni probabili o solo possibili in modo apprezzabile configurano il dolo eventuale, a meno che l’agente abbia agito nel ragionevole convincimento o almeno nella speranza di una sua mancata realizzazione (tra le tante, Sez. 1, 1264/1984; Sez. 4, 27/1988; Sez. 1, 4916/1989).

In una pronunzia, tuttavia, si afferma che in presenza della concreta rappresentazione della probabilità di verificazione dell’evento, quando malgrado ciò si persevera nell’azione, accettandosene il rischio e dando così adesione di volontà al verificarsi dell’evento, il dolo eventuale non è escluso dalla speranza che il risultato non abbia luogo (Sez. 5, 27/04/1984). In altra giurisprudenza la speranza è stata ritenuta rilevante quando presenti il carattere della ragionevolezza. Si è infatti affermato che sussiste il dolo eventuale e non la colpa aggravata dalla previsione dell’evento se l’agente, pur non volendo l’evento, ne accetta il rischio di verificazione come risultato della sua condotta, anche a costo di determinarlo.

La Corte ha precisato che l’agente risponde, invece, a titolo di colpa con previsione se, pur rappresentandosi l’evento come possibile risultato della sua condotta, agisce nella ragionevole speranza che esso non si verifichi (Sez. 1, 4912/1989; Sez. 5, 13274/1987; Sez. F, 40878/2008). Occorre prendere atto che le formule giurisprudenziali di cui si è doverosamente dato conto risultano scarsamente significative nella loro astrattezza. Per comprendere realmente quale sia la configurazione giurisprudenziale del dolo eventuale è indispensabile riferirsi ai casi più problematici ed alle soluzioni concretamente adottate.

 

Responsabilità colposa (i passaggi inseriti in questo paragrafo sono tutti tratti da SU, 38343/2014)

…L’evento prevedibile

Affermata la necessità di fare riferimento all’evento ai fini del giudizio di prevedibilità che fonda la colpa, occorre determinare il criterio in base al quale individuare le particolarità dell’evento nella sua complessità che vengono selezionate ai fini della sua definizione. Si tratta, appunto, del problema della descrizione dell’evento prevedibile, che con grande frequenza compare nei casi giudiziari per illeciti colposi di evento, anche se viene affrontato in modo intuitivo. Al riguardo sono astrattamente possibili due approcci: uno che descrive l’evento così come si è storicamente verificato, con tutti i suoi contingenti dettagli; l’altro che, invece, coglie lo stesso evento in senso generalizzante, come un evento del genere di quello prodotto.

Sono evidenti le diverse conclusioni applicative cui conducono le due opposte soluzioni: l’una restringe a dismisura l’area del prevedibile, giacché esisterà sempre una descrizione abbastanza ricca da cogliere la irripetibilità ed unicità di ciascun evento che verrà così sottratto ad ogni possibilità di ripetizione; l’altra la amplia, in relazione alle diverse modalità con le quali si conduce la selezione degli aspetti del fatto considerati ai fini della costruzione in senso generalizzante della tipologia o classe di evento. La scelta attinge ad una matrice logica.

È stato osservato che il giudizio di prevedibilità altro non è che il giudizio circa la possibilità di previsione di eventi simili e, dunque, di eventi che hanno in comune con il risultato concreto prodottosi determinate caratteristiche. Appurare se un evento è prevedibile implica allora l’elaborazione di una generalizzazione, una descrizione nella quale siano incluse certe particolarità del caso e non altre. Così posto il problema, si delinea un ulteriore, importante passaggio afferente all’individuazione dei criteri in base ai quali procedere alla generalizzazione dell’evento, cioè delle modalità rilevanti. Un nodo non marginale, giacché l’esito del giudizio di prevedibilità è per lo più strettamente condizionato dal tipo di descrizione data dell’evento.

L’aspetto più problematico riguarda, l’inclusione nella descrizione dell’evento dello svolgimento causale. L’accoglimento della tesi che esclude la rilevanza dello sviluppo causale comporta una ingiustificata moltiplicazione delle ipotesi di responsabilità; e disperde la fondamentale istanza, già evocata, afferente alla congruenza tra ragioni della regola cautelare e cause dell’evento. In dottrina non si dubita che in materia di colpa la prevedibilità non debba essere accertata rispetto al solo evento finale, ma anche in relazione al decorso causale, almeno nelle sue linee essenziali.

Si tratta di porre a confronto il decorso causale che ha originato l’evento concreto conforme al tipo con la regola di diligenza violata; e di controllare se tale evento sia la realizzazione del pericolo in considerazione del quale il comportamento dell’agente è stato qualificato come contrario a diligenza. Si tratta quindi di verificare se lo svolgimento causale concreto fosse tra quelli presi in considerazione dalla regola violata. Peraltro, occorre ribadirlo, anche sotto il profilo causale la pur necessaria prevedibilità dell’evento non può riguardare la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più minute articolazioni, ma la classe di eventi in cui quello oggetto del processo si colloca.

 

…La causalità nella colpa

La formula legale della colpa espressa dall’art. 43, col richiamo alla negligenza, imprudenza ed imperizia ed alla violazione di leggi, regolamenti, ordini e discipline, delinea un primo e non controverso tratto distintivo di tale forma di imputazione soggettiva, di carattere oggettivo e normativo. Tale primo obiettivo profilo della colpa, incentrato sulla condotta posta in essere in violazione di una norma cautelare ha la funzione di orientare il comportamento dei consociati ed esprime l’esigenza di un livello minimo ed irrinunciabile di cautele nella vita sociale.

La dottrina che sul piano sistematico prospetta la doppia collocazione della colpa sia nel fatto che nella colpevolezza, colloca significativamente tale primo profilo dell’imputazione sul piano della tipicità, svolgendo esso un ruolo insostituibile nella configurazione delle singole fattispecie colpose. Accanto al profilo obiettivo ed impersonale ve ne è un altro di natura più squisitamente soggettiva, solo indirettamente adombrato dalla definizione legale, che sottolinea nella colpa la mancanza di volontà dell’evento.

Tale connotato negativo ha un significato inevitabilmente ristretto che si risolve essenzialmente sul piano definitorio, classificatorio: serve infatti a segnare la traccia per il confine con l’imputazione dolosa. In positivo, il profilo soggettivo e personale della colpa viene generalmente individuato nella capacità soggettiva dell’agente di osservare la regola cautelare, nella concreta possibilità di pretendere l’osservanza della regola stessa, in una parola nella esigibilità del comportamento dovuto.

Si tratta di un aspetto che può essere collocato nell’ambito della colpevolezza, in quanto esprime il rimprovero personale rivolto all’agente: un profilo della colpevolezza colposa cui la riflessione giuridica più recente ha dedicato molta attenzione, nel tentativo di rendere personalizzato il rimprovero personale attraverso l’introduzione di una doppia misura del dovere di diligenza, che tenga in conto non solo l’oggettiva violazione di norme cautelari, ma anche la concreta capacità dell’agente di uniformarsi alla regola, valutando le sue specifiche qualità personali.

Dunque, in breve, il rimprovero colposo riguarda la realizzazione di un fatto di reato che poteva essere evitato mediante l’esigibile osservanza delle norme cautelari violate. Tali accenni mostrano che, da qualunque punto di vista si guardi alla colpa, la prevedibilità ed evitabilità del fatto svolgono un articolato ruolo fondante: sono all’origine delle norme cautelari e sono inoltre alla base del giudizio di rimprovero personale. Limitando l’indagine al profilo della colpa che maggiormente interessa, quello cioè inerente all’evitabilità dell’evento, va segnalato che l’art. 43 reca una formula ricca di significato: il delitto è colposo quando l’evento non è voluto e «si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia». Viene così chiaramente in luce, e con forza, il profilo causale della colpa, che si estrinseca in diverse direzioni.

È da tempo chiaro che la responsabilità colposa non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione della norma, ma è limitata ai risultati che la norma stessa mira a prevenire. Tale esigenza conferma l’importante ruolo della prevedibilità e prevenibilità nell’individuazione delle norme cautelari alla cui stregua va compiuto il giudizio ai fini della configurazione del profilo oggettivo della colpa. Si tratta di identificare una norma specifica, avente natura cautelare, posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla base delle conoscenze che all’epoca della creazione della regola consentivano di porre la relazione causale tra condotte e risultati temuti; e di identificare misure atte a scongiurare o attenuare il rischio.

L’accadimento verificatosi deve cioè essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, deve costituire la concretizzazione del rischio. L’individuazione di tale nesso consente di sfuggire al pericolo di una connessione meramente oggettiva tra regola violata ed evento; di una configurazione dell’evento come condizione obiettiva di punibilità. Come si è sopra esposto, la valutazione in questione richiede di valutare gli anelli significativi della catena causale. Ma il profilo causale della colpa si mostra anche da un altro punto di vista che attiene all’indicato momento soggettivo, quello cioè più strettamente aderente al rimprovero personale.

Affermare, come afferma l’articolo 43, che per aversi colpa l’evento deve essere stato causato da una condotta soggettivamente riprovevole implica che l’indicato nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) non avrebbe comunque evitato l’evento. Si ritiene da più parti, condivisibilmente, che non sarebbe razionale pretendere, fondando poi su di esso un giudizio di rimproverabilità, un comportamento che sarebbe comunque inidoneo ad evitare il risultato antigiuridico.

Tale assunto rende evidente la forte connessione esistente in molti casi tra le problematiche sulla colpa e quelle sull’imputazione causale. Infatti, non di rado le valutazioni che riguardano lo sviluppo causale si riverberano sul giudizio di evitabilità in concreto. Qui, dando preliminarmente per scontato, ipoteticamente, che il nesso di causalità materiale sia stato già riscontrato, la causalità di cui qui si parla è appunto quella della colpa. Essa si configura non solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico, ma anche quando una condotta appropriata aveva apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno.

Su tale assunto la riflessione giuridica è sostanzialmente concorde, anche se non mancano diverse sfumature in ordine al livello di probabilità richiesto per ritenere l’evitabilità dell’evento. In ogni caso, non si dubita che sarebbe irrazionale rinunziare a muovere l’addebito colposo nel caso in cui l’agente abbia omesso di tenere una condotta osservante delle prescritte cautele che, sebbene non certamente risolutiva, avrebbe comunque significativamente diminuito il rischio di verificazione dell’evento o (per dirla in altri, equivalenti termini) avrebbe avuto significative, non trascurabili probabilità di salvare il bene protetto.

Anche la giurisprudenza di legittimità ha in numerose occasioni sottolineato il ruolo fondante della prevedibilità ed evitabilità dell’evento. Per concludere, occorre infine segnalare che nell’ambito del profilo subiettivo della colpa di cui si parla l’esigenza della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento si pone in primo luogo e senza incertezze nella colpa generica, poiché in tale ambito la prevedibilità dell’evento ha un rilievo decisivo nella stessa individuazione della norma cautelare violata; ma anche nell’ambito della colpa specifica la prevedibilità vale non solo a definire in astratto la conformazione del rischio cautelato dalla norma, ma anche va ragguagliata alle diverse classi di agenti modello ed a tutte le specifiche contingenze del caso concreto.

Certamente tale spazio valutativo è pressoché nullo nell’ambito delle norme rigide la cui inosservanza dà luogo quasi automaticamente alla colpa; ma nell’ambito di norme elastiche che indicano un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, vi è spazio per il cauto apprezzamento in ordine alla concreta prevedibilità ed evitabilità dell’esito antigiuridico da parte dell’agente modello.

 

…Causalità della colpa nei reati commissivi mediante omissione

Nella causalità omissiva tutto diventa più complicato ed oscuro. Qui siamo infatti in presenza di un nulla, dal punto di vista naturalistico. Dobbiamo inserire nel controfattuale un comportamento (la condotta appropriata, diligente, prudente) che non esiste in natura, e che noi immaginiamo in modo idealizzato, astratto; e chiederci se tale comportamento avrebbe consentito di evitare l’evento con la ragionevole certezza richiesta dallo statuto della causalità condizionalistica.

Giungere ad una risposta positiva, spesso, come si è accennato, non è facile, specialmente in alcuni classici contesti particolarmente complicati come quelli della responsabilità medica e dell’esposizione lavorativa a sostanze dannose, caratterizzati dalla complessa interazione tra fattori di diverso segno. Ma ciò che interessa di più è che qui causalità e colpa tendono a sovrapporsi. I ragionamenti controfattuali che nella causalità commissiva erano ben distinti, qui si confondono, si sovrappongono.

L’indagine sull’evitabilità dell’evento è in primo luogo un’indagine di tipo causale e richiede quindi lo standard della certezza, che nei reati omissivi non è facilmente raggiungibile. Il problema proprio della colpa, che chiamiamo convenzionalmente "causalità della colpa" (cioè utilità del comportamento alternativo lecito), diventa al contempo un problema causale e si carica quindi del connotato di ragionevole certezza proprio della causalità. Di qui la comprensibile ma pur sempre criticabile confusione che regna in giurisprudenza tra causalità e colpa in tali contesti. 

Nei casi dubbi conviene aver preliminarmente chiaro se si sia in un ambito di causalità commissiva od omissiva: la guida, come si è accennato, sarà la considerazione degli aspetti più significativi e giuridicamente rilevanti della condotta, nonché l’eventuale introduzione di un distinto fattore di rischio. Collocata l’indagine nell’ambito della causalità commissiva, occorrerà individuare un’azione e dimostrarne il ruolo condizionalistico attraverso il giudizio controfattuale: se il terapeuta non avesse somministrato il farmaco l’evento non si sarebbe verificato nelle condizioni date. Si tratta, in breve, di compiere il giudizio controfattuale della causalità materiale.

Si è in presenza di operazione logica priva di risvolti problematici una volta che sia noto lo sviluppo degli accadimenti; e che non di rado non viene neppure espressamente sviluppata nell’argomentazione probatoria, tanto evidente è il suo andamento. Superato il problema della causalità materiale andrà quindi svolto il giudizio sulla colpa, individuando una condotta contraria ad una regola dell’arte che sarebbe valsa a scongiurare l’evento letale: ad esempio, testare il farmaco per scongiurare i rischi da allergia.

Qui, come si è ripetutamente chiarito, la causalità della colpa riguarda la constatazione della probabilistica evitabilità dell’evento per effetto del comportamento alternativo lecito. Ove, viceversa, si sia in ambito di causalità omissiva, l’indagine riguarderà in primo luogo il ruolo di garanzia nei termini che si sono sopra accennati. L’ulteriore passaggio logico sarà costituito dall’individuazione di una condotta appropriata ed omessa che avrebbe scongiurato l’esito avverso, sempre attraverso lo strumento logico del giudizio controfattuale.

Quest’indagine, come è stato dimostrato dalla dottrina che ha più profondamente investigato il tema, è ad un tempo propria della causalità e della colpa; e lo statuto condizionalistico della causalità richiede una risposta in termini di logica certezza circa l’esito fausto di una terapia appropriata, per restare al classico esempio dell’ambito medico.

Naturalmente, la sovrapposizione tra causalità e colpa non è completa. La colpa richiede, come si è tentato di mostrare sopra, anche un apprezzamento ulteriore, di contenuto squisitamente soggettivo che implica la considerazione delle peculiarità del caso concreto, della plausibile esigibilità della condotta nelle condizioni date.

È la dimensione più propriamente soggettiva della colpa, che rivela l’autonomia del profilo soggettivo del reato ed il suo fondamentale ed ancora non pienamente riconosciuto ruolo nell’ambito del giudizio di colpevolezza. Resta tuttavia il fatto che il controfattuale della causalità omissiva e quello della causalità della colpa (id est dell’evitabilità dell’evento) tendono in prima approssimazione a sovrapporsi, ad identificarsi. Ciò significa che, dovendosi risolvere in primo luogo un problema di causalità materiale, la regola di giudizio è quella della ragionevole certezza propria dell’imputazione oggettiva dell’evento; e non quella delle apprezzabili possibilità di successo che caratterizza la causalità della colpa.

 

Delitto preterintenzionale

L’elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva né dal dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 assorbe la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato. Pertanto, la valutazione relativa alla prevedibilità dell’evento da cui dipende l’esistenza del delitto "de quo" è nella stessa legge, essendo assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa.

Dunque, l’elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale è costituito unicamente dalla volontà di infliggere percosse o provocare lesioni, a condizione che la morte dell’aggredito sia causalmente conseguente alla condotta dell’agente, il quale, pertanto, risponde per fatto proprio, sia pure per un evento più grave di quello effettivamente voluto che, per esplicita previsione legislativa, aggrava il trattamento sanzionatorio.

Dunque, la valutazione relativa alla prevedibilità dell’evento da cui dipende l’esistenza del delitto de quo è insita nella stessa legge, che ritiene assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa; viene dunque in rilievo solo la volontà di infliggere percosse o provocare lesioni, a condizione che la morte dell’aggredito sia causalmente conseguente alla condotta dell’agente, il quale, pertanto, risponde per fatto proprio, sia pure per un evento più grave di quello effettivamente voluto. In effetti il legislatore è partito dalla considerazione, certamente condivisibile, che non raramente da atti diretti a ledere  percosse e lesioni  possa, naturalisticamente, ancorché involontariamente, sopravvenire la morte del soggetto passivo, data la delicatezza degli equilibri biologici, cosicché appariva necessario predisporre una difesa, per così dire, più avanzata del bene della vita.

Né è possibile accedere ad una rilettura "estensiva" in chiave costituzionalmente orientata dell’art. 586, in tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, operata dalle Sezioni unite, secondo la quale la morte della vittima è imputabile alla responsabilità dell’autore del reato sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma specificamente incriminatrice) e con prevedibilità ed evitabilità dell’evento, da valutarsi alla stregua della figura dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale (SU, 22676/2009).

Sul punto, va precisato che il delitto previsto dall’art. 586, che contempla la morte come conseguenza di un altro delitto, si differenzia dall’omicidio preterintenzionale perché nel primo delitto l’attività del colpevole è diretta a realizzare un delitto doloso diverso dalle percosse o dalle lesioni personali, mentre nel secondo l’attività è diretta a realizzare un evento che, ove non si verificasse la morte, costituirebbe reato di percosse o lesioni; nel delitto preterintenzionale, quindi la lesione si riferisce allo stesso genere di interessi giuridici (incolumità della persona) oggetto dell’azione aggressiva, mentre nell’ipotesi di cui all’art. 586 la morte o la lesione deve essere conseguenza di delitto doloso diverso dalle percosse o dalle lesioni e quindi del tutto eterogeneo.

Ne consegue che i principi della sentenza «Ronci» non sono suscettibili di estensione all’omicidio preterintenzionale, per la radicale disomogeneità fra le due fattispecie. Ciò esclude la necessità di ricondurre l’evento morte all’area della colpa, sia perché, sotto il profilo testuale, l’art. 586, a differenza dell’art. 583, richiama l’art.83 e implica dunque un preciso riferimento al titolo colposo e all’area della prevedibilità, sia perché e soprattutto, più sostanzialmente, nell’omicidio preterintenzionale l’evento non voluto realizza una lesione più grave dello stesso bene giuridico aggredito e la più severa punizione si giustifica in una ottica di "tutela avanzata della persona" nei confronti di atti lesivi o aggressivi che, secondo il legislatore, con valutazione espressa in termini generali, spesso possono sortire, come sopra osservato, conseguenze non volute e nefaste.

Il legislatore ha voluto che la violazione del principio del neminem laedere si estendesse fino a coprire gli eventuali sviluppi che l’aggressione alla sfera fisica della vittima possa aver cagionato. Ciò in quanto la lesione dell’integrità fisica altrui può comunque avere, nella prospettiva, appunto, della progressione criminosa e causale, uno sviluppo che porti addirittura alla morte della persona aggredita. In altre parole, è lo stesso legislatore che indica come prevedibile la morte della vittima, quando verso la stessa si sia indirizzata l’attività di aggressione fisica da parte dell’agente.

Ciò è tanto più vero, atteso che risponde di omicidio preterintenzionale, non solo chi ha causato la morte altrui a seguito di una condotta concretizzatasi nell’effettiva percossa o nella reale lesione, ma anche chi abbia tenuto una condotta semplicemente diretta a commettere uno dei delitti previsti dagli artt. 581 e 582. Vale a dire, in sintesi e conclusivamente, che la difesa dell’integrità fisica umana è talmente avanzata, per scelta del legislatore, che, data anche la astratta prevedibilità dell’evento più grave, si risponde della morte altrui (anche se non voluta), quando si siano poste in essere quelle condotte aggressive dalle quali l’evento più grave può essere causato, e di fatto, non raramente, è causato. L’agente che tiene una condotta aggressiva deve accettare, per scelta del legislatore, il rischio dell’evento letale della vittima, con tutte le conseguenze del caso (Sez.  5, 53729/2018).

L’art. 584 non esige affatto che l’evento più grave sia dovuto a negligenza, imperizia o imprudenza (atteso che la norma in questione prevede semplicemente che, con atti diretti a percuotere o ledere un soggetto, se ne causi la morte)»; ciò anche perché «sarebbe assurdo pretendere cautela (quanto alle conseguenze) da parte di chi, comunque, mette in atto un’aggressione fisica nei confronti di un terzo (Sez. 5, 17630/2016).

Il comma 1 dell’art. 27 della Carta fondamentale non contiene un tassativo divieto di responsabilità oggettiva, dal momento che esso si limita a postulare la colpevolezza dell’agente in ordine agli elementi più significativi della fattispecie. Detti elementi vanno individuati di volta in volta. Insomma, responsabilità oggettiva è concetto ben distinto da quello di responsabilità per fatto di terzi.

Orbene, poiché il delitto è preterintenzionale "quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dal soggetto" (art. 43), deve necessariamente giungersi alla conclusione che esso è caratterizzato dal verificarsi di un evento che, benché non sia perseguito dall’agente, è comunque conseguenza della sua condotta e, per questo, ne aggrava il trattamento sanzionatorio. In altre parole, l’agente risponde per fatto proprio, sia pure per un evento più grave di quello effettivamente voluto (Sez. 5, 13114/2002).

L’ipotesi prevista dal secondo comma dell’art. 116 non è applicabile all’omicidio preterintenzionale, in quanto trattasi di una forma attenuata di concorso configurabile solo nella ipotesi in cui il concorrente che si vuole anomalo abbia voluto un reato diverso da quello voluto dagli autori materiali e concretamente attuato. Nell’omicidio preterintenzionale, invece, l’evento mortale non è voluto da nessuno dei concorrenti; mentre tutti vogliono le lesioni o le percosse, onde tutti devono rispondere della morte che eventualmente consegua alla aggressione voluta (Sez. 5, 3349/1996).

 

Responsabilità obiettiva

La materiale impossibilità di provvedere al versamento della cauzione, causata da mancanza di disponibilità economiche evidentemente non preordinata o colposamente determinata, comporta non una forma di responsabilità oggettiva ma l’esenzione da responsabilità (Corte costituzionale, 218/1998).

La Corte costituzionale, già con la sentenza 42/1965, ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 116, in riferimento all’art. 27, comma primo, della Costituzione, affermando il principio secondo cui la responsabilità del compartecipe per fatto diverso o più grave di quello voluto, sancita dall’art. 116, si fonda non solo su un rapporto di causalità materiale, ma anche su di un rapporto di causalità psichica, nel senso che il reato diverso o più grave commesso del concorrente deve rappresentarsi alla psiche dell’agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto (infondatezza della questione recentemente confermata da Sez. 5, 44359/2015).

Alla luce di tale principio, che esclude l’imputazione al concorrente del reato diverso e più grave a titolo di "responsabilità oggettiva" per fatto altrui, va letta l’elaborazione interpretativa della giurisprudenza di legittimità, ormai stabilmente attestata nella ricostruzione della responsabilità del compartecipe per il fatto diverso o più grave rispetto a quello concordato, materialmente commesso da un altro concorrente, a titolo di concorso anomalo ex art. 116, quando l’agente, pur non avendo in concreto previsto e accettato il rischio della commissione del fatto diverso o più grave  in qual caso ne risponderà a titolo di concorso ordinario di persone nel reato ex art. 110 cod. pen.  avrebbe potuto rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell’azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza, dovendosi effettuare la prognosi postuma sulla prevedibilità del diverso reato commesso dal concorrente in concreto, valutando la personalità dell’imputato e le circostanze ambientali nelle quali si è svolta l’azione (Sez. 2, 49486/2014).

In questa condivisibile prospettiva la causalità psichica individuata dalla Corte Costituzionale come elemento costitutivo della responsabilità ex art. 116 va ricondotta al paradigma della colpa, di cui, come evidenziato dai contributi della dottrina, sussistono tutti i requisiti e, in particolare: 1) la mancanza di volontà del fatto diverso o più grave, che non deve essere voluto, nemmeno a titolo di dolo indiretto (indeterminato, alternativo o eventuale; 2) l’inosservanza di regole di prudenza, consistente in una culpa in eligendo o, comunque, nell’affidarsi, per l’esecuzione del reato, anche alla condotta altrui, che sfugge al proprio dominio finalistico e sulla quale non si può esercitare il controllo esercitabile sulla propria condotta, per evitare, almeno entro certi limiti, la causazione di fatti offensivi non voluti; 3) la prevedibilità ed evitabilità dell’evento, accertabili in concreto, tenuto conto di tutte le circostanze che accompagnano l’azione dei concorrenti e col parametro dell’homo eiusdem professionis et condicionis. Così configurata la responsabilità ex art. 116, comma primo, appare evidente che la responsabilità a titolo di colpa non può certo ritenersi una responsabilità per fatto altrui (Sez. 1, 49165/2016).

Il comma 1 dell’art. 27 della Carta fondamentale non contiene un tassativo divieto di responsabilità oggettiva, dal momento che esso si limita a postulare la colpevolezza dell’agente in ordine agli elementi più significativi della fattispecie. Detti elementi vanno individuati di volta in volta. Insomma, responsabilità oggettiva è concetto ben distinto da quello di responsabilità per fatto di terzi. Orbene, poiché il delitto è preterintenzionale "quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dal soggetto" (art. 43), deve necessariamente giungersi alla conclusione che esso è caratterizzato dal verificarsi di un evento che, benché non sia perseguito dall’agente, è comunque conseguenza della sua condotta e, per questo, ne aggrava il trattamento sanzionatorio. In altre parole, l’agente risponde per fatto proprio, sia pure per un evento più grave di quello effettivamente voluto (Sez. 5, 13114/2002).

 

Elemento psicologico nelle contravvenzioni

In materia contravvenzionale la buona fede del trasgressore può costituire causa di esclusione della responsabilità penale allorquando il comportamento antigiuridico sia stato determinato da un fatto positivo dell'autorità amministrativa, idoneo a produrre uno scusabile convincimento di liceità della condotta posta in essere (Sez. 3, 15216/2022).

Se è vero che, in tema di elemento soggettivo delle contravvenzioni, non è sufficiente la mera coscienza e volontà dell’azione o dell’omissione, in quanto l’art. 42, comma 4, non prevede una presunzione "iuris tantum" di colpevolezza ma impone che comunque si accertino il dolo o la colpa (Sez. 3, 4511/1997), è altrettanto vero, però, che a tal fine è sufficiente la verifica, comunque rigorosa, quantomeno della sussistenza della sola colpa quando l’accertamento del dolo non sia imposto dalla particolare connotazione strutturale della condotta tipica o non sia necessario a fini diversi (Sez. 3, 11481/2015).

 

Casistica

Il principio di affidamento trova applicazione anche in relazione ai reati colposi commessi a seguito di violazione di norme sulla circolazione stradale ed impone di valutare, ai fini della sussistenza della colpa se, nelle condizioni date, l'agente dovesse e potesse concretamente prevedere le altrui condotte irregolari (Sez. 4, 36538/2021).

In tema di colpa professionale medica, l'errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi (Sez. 4, 12968/2021).

La bancarotta semplice documentale è punibile anche a titolo di colpa, a ciò non ostando il tenore dell’art. 42 che esige la previsione espressa della punibilità di un delitto a titolo di colpa, in quanto la nozione di "previsione espressa" non equivale a quella di "previsione esplicita" e, nel caso della bancarotta semplice documentale, la previsione implicita è desumibile dalla definizione come dolosa della bancarotta fraudolenta documentale (Sez. 5, 38598/2009).

La dipendenza di un evento da una determinata condotta deve essere affermata anche quando le prove raccolte non chiariscano ogni passaggio della concatenazione causale e possano essere configurate sequenze alternative di produzione dell’evento, purché ciascuna tra esse sia riconducibile all’agente e possa essere esclusa l’incidenza di meccanismi eziologici indipendenti (Sez. 4, 22147/2016).

Lo stato di alterazione psichica in cui il soggetto venga a trovarsi a causa di una emozione o di una concitazione d’animo non importa la mancanza dell’elemento psicologico richiesto dall’art 42 per la giuridica esistenza del reato, sempreché non risulti rigorosamente dimostrato che dall’improvviso e forte turbamento dell’equilibrio psichico sia derivata una malattia di mente e quindi un’alterazione patologica tale da incidere sulla capacita di intendere e di volere del soggetto, profilo neppure dedotto, come già rilevato dalla corte di merito per l’espresso giudizio sulla imputabilità dell’agente (Sez. 7, 55618/2018).