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Art. 280-bis - Atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi (1)

1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque per finalità di terrorismo compie qualsiasi atto diretto a danneggiare cose mobili o immobili altrui, mediante l’uso di dispositivi esplosivi o comunque micidiali, è punito con la reclusione da due a cinque anni.

2. Ai fini del presente articolo, per dispositivi esplosivi o comunque micidiali si intendono le armi e le materie ad esse assimilate indicate nell’articolo 585 e idonee a causare importanti danni materiali.

3. Se il fatto è diretto contro la sede della Presidenza della Repubblica, delle Assemblee legislative, della Corte costituzionale, di organi del Governo o comunque di organi previsti dalla Costituzione o da leggi costituzionali, la pena è aumentata fino alla metà.

4. Se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità pubblica ovvero un grave danno per l’economia nazionale, si applica la reclusione da cinque a dieci anni.

5. Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114, concorrenti con le aggravanti di cui al terzo e al quarto comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti.

(1) Articolo aggiunto dall’art. 3, L. 34/2003.

Rassegna di giurisprudenza

Nel dibattito (anche giurisprudenziale) sulla identificazione della «finalità di terrorismo», per lungo tempo circoscritto essenzialmente dal riferimento alternativo allo spargimento del «terrore» ed all’eversione dell’ordine costituzionale, l’introduzione nel codice penale dell’art. 270-sexies (operata con la L. 155/2005) ha segnato indubbiamente una cesura.

La novella è valsa ad adeguare l’ordinamento interno alle indicazioni della decisione quadro 2002/475/GAI (oltre che alla Convenzione del Consiglio europeo sulla prevenzione del terrorismo, adottata dal Comitato dei ministri e sottoscritta dall’Italia il 14/06/2005), ed è stata preceduta dalla ratifica, con clausola di esecuzione, di numerose convenzioni internazionali in materia, tra le quali rileva in modo particolare la Convenzione sul finanziamento degli atti di terrorismo fatta a New York nel 1999 e ratificata in Italia con la legge n. 7/2003. La norma dell’art. 270-sexies presenta una struttura complessa, nella quale, pur essendo la norma stessa dedicata alla descrizione di una finalità, sono certamente compresi elementi di carattere obiettivo, quali misuratori della specifica offensività dei fatti contemplati, e quali garanzie d’un ordinamento che, per necessità costituzionale, deve rimanere distante dai modelli del diritto penale dell’intenzione e del tipo d’autore. A livello soggettivo, sul piano della rappresentazione e della volizione, l’agente opera in una duplice direzione.

In primo luogo vuole un «grave danno per un Paese od una organizzazione internazionale», o almeno vuole creare condizioni che seriamente conducano in quella direzione. In secondo luogo, persegue un fine alternativo, fra i tre indicati dalla norma: intimidire la popolazione, destabilizzare o distruggere strutture politiche fondamentali, o infine costringere il potere pubblico o una organizzazione internazionale a compiere o a non compiere un qualsiasi atto. Subito si evidenzia la particolare struttura del dolo. Salva ogni osservazione in punto di idoneità dell’azione al fine, quale profilo strutturale dei casi di dolo specifico, la prima parte della norma descrive un evento di pericolo, che deve concretamente profilarsi e che, nei riflessi soggettivi, deve pienamente riprodursi. La legge non si limita ad esigere il fine di produrre un «grave danno», ma esige l’obiettivo compimento di condotte che possono determinare quel danno (e dunque sono idonee in quel senso). Il punto è centrale, e merita di essere ribadito. Già il tenore letterale della norma implica che non basta l’intenzione del danno, posto che la condotta deve creare la possibilità che si verifichi.

Un evento di pericolo concreto, dunque, da valutare secondo l’ordinario paradigma della prognosi postuma. Un segnale particolarmente rilevante in questo senso viene anche dal riferimento alla «natura o contesto» della condotta, quali elementi indefettibili della valutazione in punto di pericolosità. La previsione svolge certamente quel ruolo di «allargamento» che le viene assegnato nel provvedimento impugnato, e che d’altronde è indispensabile per il ragionevole bilanciamento tra principio di personalità della responsabilità penale ed efficienza dell’azione repressiva (e preventiva) nei confronti di gravi fatti illeciti. Quando la caratteristica di tali fatti risieda proprio (ed anche) nella macro-dimensione dell’evento temuto, è consentito al legislatore il ricorso esplicito a segnali che valorizzino il contributo individuale alla produzione, effettiva o potenziale, dell’evento medesimo, per evitare che tale contributo resti annullato dalla serie coordinata di forze che, nei fatti, è necessaria per esplicare concretamente l’effetto.

Non v’e dubbio che, nel caso in esame, il riferimento al «contesto» serva appunto ad evidenziare come la possibilità dell’evento dannoso posto sullo sfondo della fattispecie rilevi anche quando non dipenda in via esclusiva dall’azione considerata, ma sia piuttosto il frutto dell’innesto del contributo in una più ampia serie causale, non necessariamente controllata dall’agente. Si tratta del resto d’una applicazione delle regole comuni in materia di causalità e concorso di persone (artt. 41 e 110), ove vige il principio dell’equivalenza, anche tra condizioni riferibili a comportamenti umani, con il limite esclusivo delle cause «da sole» sufficienti a produrre l’evento.

È però altrettanto chiaro  sempre in applicazione dei principi generali  che l’interazione tra condotta individuale e contesto deve segnare il momento rappresentativo e quello volitivo nella determinazione dell’agente. In particolare, se la possibilità dell’evento dannoso grave dipende da tale interazione, è ovvio che l’agente dovrà rappresentarsi gli elementi della congerie causale che conferiscono alla sua personale condotta l’efficienza peculiare sanzionata dalla norma, e dovrà volerne l’influsso sulla serie nella quale il suo comportamento confluisce. Una implicazione ovvia, dell’ovvio principio, è che il «contesto» non può essere ricostruito tenendo conto di condotte ed avvenimenti successivi al comportamento del reo, non potendo questi farne oggetto di rappresentazione e di pianificazione.

A meno che, naturalmente, non si riscontri la pertinenza del fatto ad una programmazione che comprenda ab initio futuri elementi di contesto utili ad interagire con l’azione commessa. Si tratta per altro, a questo punto, d’una mera questione di prova e motivazione. Dunque, un dolo generico comprendente il pericolo d’un grave danno per un Paese od una organizzazione internazionale. Tuttavia, l’azione deve essere anche finalizzata ad uno di tre ulteriori eventi, che non deve necessariamente verificarsi, secondo lo schema tipico del dolo specifico. Nella sede presente interessa l’evento di «costrizione» del potere pubblico a fare o non fare qualcosa. Ma non va trascurata, naturalmente, la «qualità» dei due fatti ulteriori, poiché l’accostamento dei tre eventi e la loro parificazione a fini di trattamento sanzionatorio costituisce un fattore irrinunciabile per l’esatta ricostruzione delle rispettive fisionomie.

Ecco dunque che alla «costrizione» si affianca, in primo luogo, lo scopo terroristico «classico» («intimidire la popolazione»), cioè portare nella società un turbamento profondo e perdurante, tale che la collettività, nel suo complesso, senta menomata la propria aspettativa di vita in condizioni di libertà e sicurezza. Questa Corte ha già identificato una sostanziale continuità, sotto questo limitato profilo, tra la nozione di «spargimento del panico tra la popolazione» individuata dalla giurisprudenza più risalente (SU, 2110/1995) e quella di grave intimidazione nei confronti della popolazione, fissata nell’art. 1, comma 1, della Decisione quadro n. 2002/475/GAI, sostanzialmente ripresa con l’art. 15 del DL 144/2005 e, dunque, con l’art. 270-sexies: «[...] è comunque presente la connotazione tipica degli atti di terrorismo individuata dalla più autorevole dottrina nella "depersonalizzazione della vittima" in ragione del normale anonimato delle persone colpite dalle azioni violente, il cui vero obiettivo è costituito dal fine di seminare indiscriminata paura nella collettività e di costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un determinato atto» (Sez. 1, 1072/2006).

In secondo luogo rilevano la destabilizzazione o la distruzione delle strutture istituzionali fondamentali di un Paese o di una organizzazione internazionale: una finalità più prossima allo scopo tradizionale dell’eversione dell’ordine costituzionale e democratico, spinta fino alla «destabilizzazione» delle istituzioni più essenziali dal punto di vista politico, costituzionale, economico o sociale.

L’identificazione dell’evento «costrizione», che costituisce il principale elemento di novità della nozione vigente di finalità terroristica, rappresenta l’aspetto più delicato della regiudicanda. È appena il caso di notare come l’essenza della politica, e della stessa forma democratica dello Stato (artt. 1, comma 2, e 49 Cost.), consista nel dispiegamento di forze individuali e sociali al fine di orientare e, in certo senso, di imporre le scelte rimesse agli organi del potere pubblico, interagendo con essi anche attraverso la partecipazione dei cittadini ad attività sviluppate fuori dalle istituzioni rappresentative (partiti, associazioni, movimenti, di carattere politico, sindacale, culturale). Il fine di condizionamento politico è quindi del tutto inidoneo a selezionare le condotte con finalità terroristiche.

E la possibilità di interferenza rende conto, senza inutili spiegazioni, della delicatezza estrema dell’operazione cui la legge chiama gli interpreti e gli operatori giudiziari. Un primo elemento per l’actio finium regundorum, necessario ma non certo sufficiente, consiste nella «scala» della decisione potenzialmente imposta al potere pubblico. Dovrà trattarsi di un affare particolarmente rilevante, capace di influenzare le condizioni della vita associata, per il suo oggetto o per l’implicazione che ne deriva in punto di «tenuta» delle attribuzioni costituzionali.

Non sono solo il buon senso, ed il valore semantico e storico delle parole, ad escludere che possa e debba parlarsi di terrorismo per qualunque pressione esercitata su di un pubblico ufficiale, sia pure mediante la commissione di un reato. Se la «costrizione» è evento paragonabile al dissesto delle istituzioni od alla intimidazione della popolazione nel suo insieme, se la «costrizione» è comunque perseguita dall’agente nella consapevolezza e nella volontà di provocare il rischio di un «grave danno» per il Paese intero, allora detta «costrizione» non potrà che avere ad oggetto una decisione che incida significativamente su una scala sociale ed istituzionale corrispondente.

L’interferenza tra «costrizione» e «grave danno» pone poi in evidenza un secondo elemento di delimitazione della fattispecie, capace di imporre una «macro-dimensione» del fenomeno, ma a sua volta insufficiente, da solo, per una delimitazione del fatto che risulti compatibile con il principio di determinatezza (e con le implicazioni da questo sortite in punto di colpevolezza). I commentatori hanno posto in luce la scarsa capacità descrittiva della parola «grave», ma la stessa nozione di «danno», quando si parla di obiettivi politicamente qualificati, può risultare opinabile. Ciò che una parte può considerare dannoso per il Paese, altra parte può considerare conveniente. Il discrimine in proposito non può derivare (solo) da un terzo elemento definitorio, essenziale per quanto implicito, e cioè la illegittimità del metodo utilizzato per perseguire il fine di «costrizione». Se ottenuta mediante comportamenti leciti, massime attraverso il libero dispiegarsi del dibattito sociale e del conflitto politico, anche la più pressante influenza sul procedimento di formazione della volontà delle istituzioni pubbliche non può assumere rilevanza.

Lo stesso ricorso al termine «costrizione», del resto, evoca in qualche modo l’idea di una pressione indebita e nel contempo capace (almeno nelle intenzioni dell’agente) di alterare le regole ordinarie del procedimento decisionale. Non v’è dubbio insomma che la costrizione debba essere attuata «indebitamente», anche se la norma nazionale non ha ripreso la specifica qualificazione che segna invece il suo corrispondente nella Decisione quadro ormai più volte citata. Sennonché il fine di «costrizione» non può assumere dimensione terroristica per il sol fatto che la condotta strumentale contrasta con un precetto penalmente sanzionato. Si guardi alla categoria dei reati «politici» (secondo la definizione giuridicamente rilevante che discende dal comma 3 dell’art. 8): non ogni atto penalmente illecito, che sia politicamente orientato in senso obiettivo o soggettivo, può integrare la nuova nozione di terrorismo.

Ancora una volta, la soluzione è suggerita anzitutto dal senso delle parole e dalla valenza «sociale» del concetto di terrorismo (dunque dalla portata tipizzante della sua evocazione). Una ipotetica deriva dell’ordinamento verso la qualificazione «terroristica» di ogni reato politicamente motivato sarebbe inammissibile, in virtù di ragioni troppo evidenti, ancora una volta, per richiedere una particolare illustrazione.

La giurisprudenza di legittimità si è occupata del tema principalmente allo scopo di distinguere tra «sovversione» e «terrorismo», ma ha comunque chiarito «che non qualsiasi azione violenta può farsi rientrare nel concetto di eversione, previsto dal codice penale, ma solo quella che miri al sovvertimento dei principi fondamentali, che formano il nucleo intangibile dell’assetto ordinamentale», aggiungendo che, quando praticata a scopi eversivi, la «violenza terroristica» provoca un più intenso allarme sociale ed un maggior rischio istituzionale, il che legittima la sua più severa punizione (art. 270-bis in relazione all’art. 270: Sez. 5, 12252/2012 ed altre;).

In altri casi, pare che la distinzione tra finalità eversiva (come stigmatizzata dall’art. 1, comma 1, DL 625/1979) e finalità terroristica (l’unica che segna le fattispecie degli artt. 280 e 280-bis) non abbia rivestito particolare importanza ai fini del decidere: ma anche in fattispecie del genere (ove si è confermata la qualificazione ex art. 280-bis per un attentato definito «dimostrativo») mai è venuta meno, naturalmente, l’esigenza di una particolare conformazione del finalismo politico sottostante alla condotta (Sez. 1, 8069/2010).

Insomma, l’equiparazione tra condotta illecita politicamente motivata e terrorismo è improponibile. Ed allora la soluzione del problema interpretativo, necessariamente orientata verso una riduzione degli spazi di indeterminatezza della fattispecie, in armonia con l’assetto costituzionale dei valori in gioco, possa essere trovata nel collegamento tra i vari elementi evocati dalla norma. Un collegamento utile ad assicurare, tra l’altro, la conformità della scelta legislativa ai termini essenziali del dibattito sull’offensività nei delitti di attentato, che ha largamente interessato anche la definizione giuridica del concetto di terrorismo (interno). Esiste anzitutto un finalismo tipico dell’azione, secondo lo schema del dolo eventuale, e dunque costruito su eventi che risiedono fuori della fattispecie. Come detto, qui interessa la «costrizione» del potere pubblico a tenere od omettere un determinato comportamento, ma lo stesso discorso potrebbe valere per i due scopi alternativi, come delineati dalla legge.

Al tempo stesso, poiché è avvertita la necessità, da più parti evidenziata, di assicurare la specifica offensività dei comportamenti terroristici, escludendo dalla previsione progettazioni deliranti o palesemente inadeguate, è fissato un evento di pericolo, cioè il rischio di un «grave danno» per il Paese. Può e deve guardarsi a quell’evento come alla definizione sintetica del rischio che tipicamente (e concretamente) il «terrorista» produce coltivando, con una qualunque azione delittuosa, una delle tre finalità indicate nel prosieguo della norma.

Al tempo stesso, la motivazione individuale qualifica il fatto come terroristico proprio in quanto suscettibile di creare il rischio di una grave lesione degli interessi presi di mira (il sereno svolgimento della vita pubblica, il fisiologico esercizio del potere pubblico, la stabilità e l’esistenza stessa delle istituzioni di una società pluralistica e democratica). Privata del riferimento ai fini tipici del terrorismo, la nozione di danno, da riferire oltretutto ad ogni genere di possibile comportamento criminoso, resterebbe priva di adeguata parametrazione: non v’è nozione giuridicamente accettabile di «danno» sanzionabile se non rispetto ad un interesse giuridicamente protetto.

Sennonché il soggetto passivo del «danno» viene dalla legge indicato nel Paese, lasciando intendere l’irrilevanza dei patrimoni privati in quanto tali, e nel contempo definito «grave», assumendo quindi una dimensione di scala, la quale per un verso non potrebbe che essere enorme (finendo paradossalmente per restringere l’ambito della tutela), e per altro verso sembra incompatibile con la fisionomia patrimoniale dell’offesa, per la sua entità e per la stessa sua natura. È dunque il collegamento con il carattere lato sensu politico - istituzionale del finalismo terroristico a qualificare e rendere accettabilmente determinato il «grave danno per il Paese» che la condotta di volta in volta considerata deve rendere possibile.

Una conferma della necessità di una relazione tipica ed attendibile tra finalismo dell’azione ed oggetto del danno viene dalla considerazione degli strumenti internazionali che regolano il contrasto ai fenomeni terroristici e che esplicano effetti diretti nell’ordinamento nazionale. La convenzione fatta a New York nel 1999 per la repressione del finanziamento del terrorismo, che contiene un vasto apparato definitorio, è stata resa esecutiva in Italia con la L. 7/2004. Appartiene al diritto UE, al quale l’ordinamento interno deve conformarsi, la Decisione quadro n. 2002/475/GAI, per la cui attuazione l’art. 270-sexies è stato appositamente introdotto nel codice penale. E d’altra parte proprio quest’ultima norma nazionale contiene una clausola di chiusura, estendendo la nozione di terrorismo alle altre «condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia».

Se appare chiaro come la clausola sia stata appunto concepita in chiave estensiva, altrettanto ovvia sembra la sua funzione di orientamento nell’interpretazione complessiva della fattispecie, sia per l’esigenza di una ermeneusi che assicuri coerenza interna alla disciplina, sia per evitare il rischio d’un disallineamento tra la nozione «nazionale» di terrorismo e quella internazionalmente accolta, la cui prevenzione costituisce uno degli scopi essenziali della normativa pattizia. Ora, la norma eurounitaria presenta una struttura ancora più complessa di quella interna, visto che  ferma restando la potenzialità di danno per un paese o un’organizzazione internazionale  il fine alternativo di intimidire, costringere o destabilizzare rileva solo se perseguito mediante specifiche tipologie di condotte criminose. La relativa disamina evidenzia un criterio misto di selezione.

Dagli attentati alla vita od alla libertà delle persone al sequestro di mezzi collettivi di trasporto ed alla disponibilità di armi pericolose, sono state in primo luogo individuate condotte storicamente proprie del terrorismo, a livello nazionale ed internazionale, e strutturalmente idonee a generare intimidazione a livello individuale e collettivo. In secondo luogo, ed avuto particolare riguardo al danneggiamento di cose, sono stati individuati solo comportamenti capaci di provocare conseguenze disastrose, e dunque, nuovamente, idonei nella stessa direzione sopra indicata («distruzioni di vasta portata», «diffusione di sostanze pericolose», «cagionare incendi, inondazioni, esplosioni», «manomissione o interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse naturali»). Il legislatore europeo, cioè, ha tarato l’offesa con un criterio misto di descrizione dell’evento di pericolo e di indicazione delle condotte in astratto idonee a provocarlo, confermando la gravità del fatto terroristico e la sua tipicità: terrore indiscriminato, costrizione («indebita») di un potere pubblico; destabilizzazione («grave») delle istituzioni.

È stato anche osservato come un ulteriore tratto comune fra le condotte indicate sia costituito dalla potenzialità lesiva per i beni primari dell’incolumità e della libertà personale: le ipotesi concernenti attacchi alle cose sarebbero conformate in guisa da creare tipicamente rischio per le persone, non foss’altro che per la scala dell’aggressione portata ai beni strumentali. Questa era del resto la cifra della Convenzione Onu del 1999, che costituisce per esplicito una delle matrici dalle quali è nata la Decisione del Consiglio europeo ed ha orientato le legislazioni nazionali e le relative interpretazioni (compresa quella della giurisprudenza italiana) prima del 2002 (anno della Direttiva) e del 2005 (anno della relativa trasposizione).

Ebbene, la tecnica definitoria adottata nella sede ONU è ben nota. Da un lato si era fatto ricorso alle definizioni contenute in una lunga serie di convenzioni e trattati aventi ad oggetto il terrorismo, elencati nell’allegato alla stessa Convenzione. Per altro verso, era dettata la norma di chiusura, che varrebbe ad illuminare il contenuto più essenziale della nozione comunemente accolta di terrorismo: «ogni altro atto destinato ad uccidere o a ferire gravemente un civile o ogni altra persona che non partecipa direttamente alle ostilità in una situazione di conflitto armato quando, per sua natura o contesto, tale atto sia finalizzato ad intimidire una popolazione o a costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere, un atto qualsiasi» (art. 2, comma 1, lettera a) della Convenzione).

Anche da questi rilievi, e senza trarre conclusioni radicali (che qui non sono necessarie) sulla rilevanza terroristica di attentati portati esclusivamente a beni materiali, si deduce agevolmente come detta rilevanza non possa che essere subordinata, comunque, alla capacità di determinare l’effetto di intimidazione o costrizione che normalmente si connette alla minaccia di pregiudizio per i beni più essenziali della persona e dunque della comunità civile. In definitiva, la norma in commento ha esplicitato come il finalismo terroristico non sia un fenomeno esclusivamente psicologico, ma si debba materializzare in un’azione seriamente capace di realizzare i fini tipici descritti nella norma medesima. In ogni caso  data la pressante esigenza di delimitare il fatto tipico evitando un effetto di dilatazione della nozione di terrorismo tale da includere ogni reato politicamente motivato, quale che sia la «scala» degli interessi in gioco  il legislatore ha espressamente introdotto la previsione di un evento di pericolo, di portata tale («grave») da incidere sugli interessi dell’intero Paese, e di natura corrispondente alla realizzazione del fine perseguito dall’agente.

Passando alle caratteristiche oggettive e soggettive dei delitti di attentato, conviene anticipare come, a parere della Corte, gli stessi siano segnati sul piano materiale dalla univoca direzione degli atti verso un evento determinato e dalla idoneità degli atti medesimi a produrre la relativa lesione, con la conseguenza che la loro integrazione, sul piano del dolo, resta esclusa nel caso di mera accettazione del rischio che il bene giuridico subisca l’offesa. In giurisprudenza, le questioni in esame sono state affrontate soprattutto con riguardo alla materia del tentativo.

Anche l’incriminazione del delitto non compiuto, in effetti, risponde ad una logica di avanzamento della tutela dei beni giuridici, fino a situazioni di mera creazione del rischio d’una lesione dei beni medesimi. Per il tentativo, in verità, la compatibilità con i principi di offensività e legalità è assicurata, già sul piano letterale, attraverso l’interazione tra le disposizioni degli artt. 56 e 49. Il carattere concreto ed effettivo del rischio, in particolare, è richiesto attraverso il parametro della idoneità, che la giurisprudenza definisce ancor oggi con qualche dissonanza, ma sempre cura di connettere alle caratteristiche del caso di specie, analizzato secondo un criterio ex ante ed in base alle circostanze conosciute dall’agente o conoscibili mediante l’esercizio di diligenza e competenza ordinarie (Sez. 1, 32851/2013).

Può escludersi certo la necessità che l’evento perseguito risulti all’analisi fortemente probabile, ma è sicuramente esigibile una seria esposizione a pericolo del bene. Il requisito di idoneità concorre anche a circoscrivere il fatto punibile secondo il principio di tassatività, poiché in sostanza inserisce nella previsione di legge il divieto di creare situazioni pericolose per un determinato interesse. Ma per lo stesso scopo è indispensabile che il criterio concorrente dell’univocità sia inteso quale essenza del fatto criminoso, e non semplicemente quale tema di prova o caratteristica dell’elemento psicologico.

Occorre cioè, sul piano obiettivo, che le condizioni in cui matura l’azione denuncino univocamente l’orientamento causale della condotta verso un evento dato, tipicamente previsto dalla legge penale e diverso da ogni altro. Solo a queste condizioni la tecnica di tipizzazione del tentativo si accosta ad altre, fondate appunto sull’orientamento e non sulla descrizione (è il caso ad esempio del reato concorsuale ex art. 110), e con esse condivide, secondo l’opinione ampiamente maggioritaria, uno status di compatibilità con l’art. 25 della Costituzione. La giurisprudenza conferma il cd. criterio di essenza sia quando ne desume la rilevanza dei soli atti esecutivi (Sez. 1, 9411/2010), sia quando nega l’efficacia della distinzione tra preparazione ed esecuzione, ma esige, appunto, che il fatto risulti oggettivamente diretto alla produzione di un evento dato (Sez. 2, 18196/2010).

Dal punto di vista pratico, del resto, la corrispondenza tra il fine concreto di un determinato agire e la congruenza allo scopo degli atti compiuti, secondo un criterio di comune apprezzamento, rappresenta la modalità di gran lunga più frequente di accertamento del dolo punibile. Se la univocità «obiettiva» è elemento costitutivo della fattispecie, l’atteggiamento della volontà non può che conformarsi sulla medesima. A maggior ragione, l’unidirezionalità del momento volitivo risulta indefettibile qualora il requisito dell’univocità venga invece concepito in termini essenzialmente soggettivi. È per queste ragioni che tutta la giurisprudenza recente, superando orientamenti più risalenti, ravvisa incompatibilità tra il delitto tentato ed il dolo eventuale (Sez. 6, 14342/2012).

E conviene subito mettere in evidenza il rilievo particolare che l’enunciato è destinato ad assumere nella prospettiva di un superamento della tradizionale nozione di dolo eventuale quale mera «accettazione del rischio». In particolare, nel "dolo eventuale", che costituisce la figura di margine della fattispecie dolosa, un atteggiamento interiore assimilabile alla volizione dell’evento e quindi rimproverabile, si configura solo se l’agente prevede chiaramente la concreta, significativa possibilità di verificazione dell’evento e, ciò non ostante, si determina ad agire, aderendo a esso, per il caso in cui si verifichi. Occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta.

A tal fine è richiesto al giudice di cogliere e valutare analiticamente le caratteristiche della fattispecie, le peculiarità del fatto, lo sviluppo della condotta illecita al fine di ricostruire l’iter e l’esito del processo decisionale (SU, 24/4/2014). Si deve dunque ritenere che la categoria dei delitti di attentato proponga questioni del tutto analoghe a quelle che hanno dovuto essere affrontate e risolte in materia di tentativo. Tale categoria è segnata dalla tecnica normativa utilizzata per anticipare la soglia di tutela del bene preso in considerazione, punendo appunto condotte che mettano anche solo in pericolo il bene medesimo. La tecnica consiste nell’indicazione dell’evento posto sullo sfondo delle singole fattispecie, e nel rinvio a tutte le condotte «dirette a» provocarlo. Talvolta, si registra addirittura un ricorso diretto (ed ancor meno stringente) alla definizione di sintesi del modello («chiunque attenta»).

Nei delitti di attentato manca, in realtà, il riferimento esplicito a quei fattori tipizzanti che invece caratterizzano la previsione dell’art. 56, cioè l’idoneità e l’univocità degli atti. Se si guarda per altro al panorama dottrinale recente, è comune l’opinione che si tratti di requisiti necessari anche per le figure in questione. L’assunto, talvolta motivato in base ad una pretesa sovrapponibilità fra tentativo e attentato, è oggi generalmente giustificato quale implicazione essenziale del principio di offensività, e comunque quale condizione necessaria per la tassatività delle fattispecie. Anche in giurisprudenza, poi, si è affermata stabilmente l’esigenza che la condotta di attentato presenti un connotato di idoneità, anche se le variazioni dovute alla pluralità delle fattispecie ed al correre del tempo varrebbero ad evidenziare, in esito ad un esame approfondito, concezioni non del tutto omogenee del relativo concetto.

Il principio è stato affermato anche con specifico riguardo al delitto di cui all’art. 280: «trattasi di condotta che pone in essere un reato di pericolo attraverso una complessità di atti predisposti al fine, sicché il risultato è la conseguenza di una più o meno lunga serie di concatenate azioni umane, ognuna delle quali, se suffragata dall’indispensabile elemento soggettivo, concorre alla realizzazione della condotta tipica di attentato, pur se trattasi di un anello iniziale, sempreché l’azione nel suo complesso risulti idonea, giusta i principi generali sanciti nell’art. 49 cod. pen., da valutare diversamente rispetto ai reati di danno appunto perché si tratta di reato di pericolo e quindi tenendo conto - ai fini della idoneità - anche del concorso di fattori eventuali, atteso il fine della norma, mirata a prevenire non solo il danno bensì l’insorgenza di una semplice situazione di pericolo» (Sez. 1, 10233/1988).

Caratteristiche analoghe presenta il tema dell’univocità quale elemento essenziale del tipo nei reati in questione: «ai fini della configurabilità dei delitti di da rivelare in modo inequivoco nella sua oggettività l’intenzione dell’agente di raggiungere il fine che si è prefisso: in essi devono pertanto essere necessariamente presenti i requisiti di idoneità degli atti e di univocità della loro direzione teleologica» (così, in relazione al delitto di strage, Sez. 1, 3150/1991). Il concetto è stato espresso anche con specifico riguardo al delitto che direttamente interessa in questa sede: occorre che «gli atti, pur se meramente preparatori, siano tuttavia tali da dimostrarsi, in linea di fatto, come idonei ed inequivocabilmente diretti alla realizzazione di quello che, in assenza della specifica previsione, sarebbe il reato consumato» (Sez. 1, 11344/1993). Ciò detto, deve necessariamente concludersi, in armonia con l’opinione dottrinale più autorevole e prevalente, che la forma eventuale del dolo è incompatibile anche con i delitti di attentato.

Non si tratta di postulare una piena sovrapposizione tra tentativo ed attentato. Si è già visto come, in una prospettiva di apprezzamento «essenziale» dell’univocità, la forma del dolo non potrebbe che allinearsi sulla struttura oggettiva del fatto, e cioè sulla percezione e sulla volizione di una destinazione univoca del proprio agire verso la produzione di un evento dato.

A maggior ragione, lo stesso risultato si imporrebbe nel contesto d’una considerazione del requisito in termini essenzialmente soggettivi. Per l’integrazione dei reati puniti agli artt. 280 e 280-bis è necessario il compimento, per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (dunque costituzionale), di atti idonei diretti in modo non equivoco a provocare gli eventi posti sullo sfondo delle rispettive fattispecie, con un atteggiamento della volontà direttamente mirato alla produzione degli eventi medesimi.

In particolare, il delitto di attentato con finalità terroristiche o di eversione è segnato, sul piano soggettivo, da un doppio finalismo dell’agente. L’azione deve essere anzitutto ispirata dal fine di eversione dell’ordine democratico o da quello, qui rilevante, di terrorismo (che a sua volta si sostanzia nella consapevolezza di creare il rischio di un grave danno al Paese in conseguenza della possibile realizzazione di uno tra gli scopi tipici indicati nell’art. 270-sexies).

Al tempo stesso, l’azione deve mirare a provocare morte o lesioni in danno di una persona, quali avvenimenti strumentali allo scopo. La morte o le lesioni sono dunque gli eventi naturalistici verso i quali si orienta la condotta tipica. È rispetto a tali esiti che va misurata l’idoneità e la univocità degli atti compiuti dall’agente. Ed è rispetto a tali esiti, per tutto quanto si è detto, che deve direttamente (e non eventualmente) dirigersi la volontà dello stesso agente.

Analoghe considerazioni vanno svolte, mutatis mutandis, quanto al delitto previsto e punito dall’art. 280-bis, cioè l’attentato di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi. Qui l’evento che la condotta deve essere idonea a produrre, e verso il quale deve essere univocamente orientata, è il danneggiamento di cose mobili o immobili altrui. Sono infine necessarie alcune notazioni quanto al finalismo tipico dei fatti di detenzione e porto di armi ed esplosivi, previsti rispettivamente dagli artt. 21 e 29 L. 110/1975.

Tale finalismo coincide con quello delle altre fattispecie solo in rapporto allo scopo di eversione dell’ordinamento costituzionale, che non rileva nel caso di specie. Le norme sono state quindi evocate ed applicate nella parte in cui puniscono l’intento «di mettere in pericolo la vita delle persone o la sicurezza della collettività mediante la commissione di attentati».

L’espressione generica «attentati» è contrapposta, nel testo di legge, ad un elenco di reati la cui commissione integra «comunque» l’elemento soggettivo tipico: si tratta infatti dei delitti di comune pericolo mediante violenza (artt. 422 e ss.), nonché delle fattispecie di cui agli artt. 284 (insurrezione armata), 285 (devastazione, saccheggio, strage), 286 (guerra civile) e 306 (banda armata). Subito si pone, su di un piano astratto, il problema di un’adeguata delimitazione (anche in chiave di tassatività) del riferimento a quegli «attentati» che costituiscono un fine idoneo a determinare la peculiare e gravissima qualificazione dei fatti concernenti le armi.

Ma non si ritiene necessario affrontare il tema nei suoi termini generali. Sembra chiaro, infatti, come la contestazione dei delitti de quibus non possa prescindere dalla identificazione, in ciascun caso concreto, dei reati programmati dall’agente, almeno per tipologia, se non addirittura con riguardo ad un obiettivo determinato (Sez. 6, 28009/2014).