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Art. 61 - Circostanze aggravanti comuni

1. Aggravano il reato quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, le circostanze seguenti:

1) l’avere agito per motivi abietti o futili;

2) l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato;

3) l’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento;

4) l’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone;

5) l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa (1);

6) l’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato;

7) l’avere, nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità;

8) l’avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso (2);

9) l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto;

10) l’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio;

11) l’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità (2);

11-bis) l’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale (3);

11-ter) l’aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione (4);

11-quater) l’avere il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad una misura alternativa alla detenzione in carcere (5);

11-quinquies) l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale e contro la libertà personale, (6) commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza (7).

11-sexies) l’avere, nei delitti non colposi, commesso il fatto in danno di persone ricoverate presso strutture sanitarie o presso strutture sociosanitarie residenziali o semiresidenziali, pubbliche o private, ovvero presso strutture socio-educative. (8)

11-septies) l’avere commesso il fatto in occasione o a causa di manifestazioni sportive o durante i trasferimenti da o verso i luoghi in cui si svolgono dette manifestazioni. (9)

11-octies) l'avere agito, nei delitti commessi con violenza o minaccia, in danno degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nonché di chiunque svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso, funzionali allo svolgimento di dette professioni, a causa o nell'esercizio di tali professioni o attività. (10)

(1) Numero così sostituito dal comma 7 dell’art. 1, L. 94/2009.

(2) Vedi l’art. 6, DL 8/1991, in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e la protezione di coloro che collaborano con la giustizia.

(3) Numero aggiunto dalla lettera f) del comma 1 dell’art. 1, DL 92/2008, convertito in legge, con modificazioni, con L. 125/2008. Successivamente, la Corte costituzionale, con sentenza 5-8 luglio 2010, n. 249, ha dichiarato: a) l’illegittimità dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale; b) in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità dell’art. 1, comma 1, della legge 94/2009; c) in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, limitatamente alle parole «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, numero 11-bis), del medesimo codice».

(4) Numero aggiunto dal comma 20 dell’art. 3, L. 94/2009.

(5) Numero aggiunto dal comma 1 dell’art. 3, L. 199/2010.

(6) Comma modificato dall’art. 9 della Legge n. 69/2019 che ha sostituito l’espressione "e contro la libertà personale" a quella precedente "contro la li­bertà personale nonché del delitto di cui al­ l’articolo 572".

(7) Numero aggiunto dall’art. 1, comma 1, DL 93/2013 convertito in L. 119/2013.

(8) Numero aggiunto dall’art. 14 L. 3/2018.

(9) Numero aggiunto dall’art. 16, comma 1, lettera a), DL 53/2019.

(10) Numero aggiunto dall’art. 5, comma 1, L. 14 agosto 2020, n. 113,

Rassegna di giurisprudenza

Motivi abietti o futili

La circostanza aggravante dei futili motivi sussiste ove la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l'azione criminosa e da potersi considerare, più che una causa determinante dell'evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento (Sez. 1, 24961/2022).

I motivi abietti e futili coesistono allorché il delitto sia, contemporaneamente, espressione di un impulso sproporzionato alla causa scatenante e tale da costituire un mero pretesto di uno sfogo violento e di una ragione spregevole (Sez. 5, 40090/2018).

L’aggravante dei motivi futili sussiste solo ove la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento (Sez. 5, 38377/2017).

I motivi abietti e futili coesistono allorché il delitto sia, contemporaneamente, espressione di un impulso sproporzionato alla causa scatenante e tale da costituire un mero pretesto di uno sfogo violento e di una ragione spregevole (Sez. 5, 40090/2018).

Allorché siano contestate, in relazione al medesimo reato, le circostanze aggravanti di aver agito sia al fine di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, sia per motivi abietti, le due circostanze concorrono se quella comune, nei termini fattuali della contestazione e dell’accertamento giudiziale, risulta autonomamente caratterizzata da un quid pluris rispetto alla finalità di consolidamento del prestigio e del predominio sul territorio del gruppo malavitoso (SU, 337/2009, ripresa da Sez. 1, 56411/2018).

Il giudizio sui motivi abietti o futili, che integrano la circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 1, non può essere riferito ad un comportamento medio, attesa la difficoltà di definire i contorni di un simile astratto modello di agire, ma va ancorato agli elementi concreti, tenendo conto delle connotazioni culturali del soggetto giudicato, del contesto sociale, del particolare momento e delle condizioni in cui il fatto si è verificato, nonché dei fattori ambientali che possono avere condizionato la condotta criminosa.

Per valutare la futilità del motivo, pertanto, deve tenersi conto non solo della coscienza collettiva, ma anche dell’ambiente in cui il reo vive ed opera, dovendosi indagare se, in relazione all’una ed all’altro, il movente possa considerarsi come un pretesto per lo sfogo degli istinti delittuosi o sia tale da realizzare, invece, una sufficiente spinta al reato (Sez. 5, 36892/2017).

Connessione teleologica

In via generale e salvo a verificarne la congruenza in relazione alla concreta fattispecie - non sussiste, pur dopo la modifica incisiva del reato continuato introdotta dalla novella di cui alla L. 220/1974, un’incompatibilità logico-giuridica tra la continuazione e la circostanza aggravante del nesso teleologico, agendo, la prima, sul piano della riconducibilità di più reati ad un comune programma criminoso ed essendo, la seconda, connotata dall’accertamento della strumentalità di un reato rispetto ad un altro (Sez. 1, 27126/2016).

La compatibilità tra l’istituto della continuazione e la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 2 rinviene la sua base logico-giuridica nella considerazione che, mentre la continuazione appresta uno strumento equilibratore della pena attraverso la previsione del cumulo giuridico nei termini previsti dall’art. 81 esigendo la verifica della riconducibilità di più reati ad un medesimo programma criminoso, la circostanza aggravante del nesso teleologico è caratterizzata dal legame di strumentalità di un reato rispetto ad un altro ed è dall’ordinamento finalizzata ad aggravare la pena, in quanto la sua sussistenza è dalla legge ritenuta idonea a connotare il reato di più intensa gravità, essendo esso espressione di una maggiore pericolosità del colpevole; sicché il reato aggravato dal nesso teleologico può rientrare, nonostante la differente funzione dei due istituti, nel programma criminoso elaborato da un solo agente o da più concorrenti nel reato.

Pertanto, sia quando si verta in tema di nesso teleologico in senso proprio (ossia di commissione del reato per eseguirne un altro), sia (e vieppiù) quando si verta in tema di nesso consequenziale (di ordine paratattico, ossia per assicurare a sé o ad altri il prodotto, il profitto o il prezzo di un altro reato, oppure di ordine ipotattico, ossia per occultare un altro reato o conseguire l’impunità dopo la sua commissione), la distinzione logico-giuridica fra circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 2, e l’istituto della continuazione di cui all’art. 81, secondo comma, resta nitida.

È poi, questione di fatto verificare se, nella singola fattispecie, ricorra la sola continuazione, senza l’evenienza dei presupposti per la circostanza aggravante, o viceversa i reati risultino avvinti dal medesimo disegno criminoso, ma nessuno di essi sia aggravato dal nesso teleologico o consequenziale, oppure  come ha stabilito in questo caso il giudice di merito  concorrano la circostanza aggravante e la continuazione (Sez. 1, 16881/2018).

Per aversi medesimo disegno criminoso deve esistere collegamento (o cd. connessione di natura sostanziale) tra i fatti. Le diverse condotte si devono saldare in un programma unitario e devono aggregarsi in un progetto coeso ab initio, che risulti delineato almeno nei tratti generali. Pur senza addentrarsi in questa sede nella definizione della sua natura, che oscilla tra il carattere intellettivo o psichico e la consistenza obiettiva, è necessario che le singole condotte siano espressione di un piano concepito unitariamente e non risultino frutto di determinazioni estemporanee e finalisticamente slegate.

Si comprende, pertanto, come spesso possa risultare difficoltoso accertare se le realizzazioni esteriori siano o meno espressione di un conato unico, giacché obiettivi intimistici dell’agente, non di rado, possono segnare la fase commissiva pur senza lasciare in immediato trasparire con chiarezza dalle condotte stesse l’unità finalistica che indirizza il volere dell’agente. Soprattutto, allorquando il progetto unificante si diluisca nel tempo, può sfumare nella spinta a delinquere la percettibilità della genesi aggregante unitaria e non rivelarsi all’interprete, ex re, il fine ultimo che rende meritevole (e conforme alla ratio dell’istituto) l’applicazione di una sanzione unitaria.

Si comprende, allora, come l’essenza del medesimo disegno criminoso possa non emergere nella sua consistenza e possa sfuggire o, egualmente, divenire frutto di valutazioni fallaci, là dove l’interprete si tenga discosto dal ricercare proprio l’anzidetto fine ultimo, cui protende ab initio l’agente. Al contrario e in ragione di quest’obiettivo unificante il legislatore guarda con minore rigore la pluralità delittuosa.

Ciò accade perché la spinta a delinquere e l’atteggiamento antidoveroso del volere si indirizzano verso uno scopo prefissato, contenendo la portata lesiva entro margini ben definiti, in un perimetro entro cui la pericolosità sociale dell’autore si autolimita, per effetto della scelta di cedere al delitto, programmando, indubbiamente, una reità plurima, al fine, tuttavia, di conseguire un risultato illecito "unico".

A fronte di ratio siffatta il sistema riconosce un beneficio in punto di trattamento penale. Recupera, dunque, la reiterazione illecita obiettivamente programmata e finalisticamente orientata all’unico risultato, alla regola di favor, scritta nell’art. 81. Contrariamente, l’azione non connotata dai crismi anzidetti risulterebbe suscettibile di essere ripetuta in occasioni indefinite ed a prescindere dal conseguimento di un fine ultimo prefigurato.

Ciò, pertanto, spiega la ragione per la quale in casi ben determinati la connessione sostanziale (di tipo cd teleologico, consequenziale o in vincolo di subordinazione tra fatti) che prescinde da un fine unitario possa rilevare come aggravante del singolo reato, legittimandone un aumento di pena (ex art. 61 n. 2) e diversificarsi concettualmente e in punto di trattamento sanzionatorio dalla programmazione illecita che caratterizza la pluralità di fatti presente nel reato continuato.

Poste queste premesse l’analisi del requisito del medesimo disegno criminoso deve articolarsi su tre distinti momenti, nella consapevolezza che si tratta di un giudizio che resta, comunque, unitario e che è volto ad accertare il fine ultimo che caratterizza l’agire dell’autore. Quel fine non può essere autonomamente fissato dal giudice ovvero da costui selezionato, tra una serie di possibili ed astratte eventualità prospettate in forma ipotetica dall’istante. Non si ha difficoltà ad intendere come, ammessa soluzione siffatta, si finirebbe per ragionare attraverso mere congetture, staccando la valutazione del fatto dai crismi di certezza che, di converso, devono contraddistinguerlo.

Piuttosto, chi invoca la continuazione ha obbligo di indicare esattamente l’obiettivo cui ab origine tendeva l’agire stesso e deve indicare in che termini la pluralità illecita fosse protesa a conseguire l’attuazione di un medesimo disegno criminoso. Ciò vale viepiù là dove si versi al cospetto di fatti decisamente risalenti nel tempo, ipotesi che impone l’indicazione anche dell’eventuale ragione che abbia indotto a temporeggiare sulla presentazione della domanda d’accertamento del vincolo della continuazione (dal cui riconoscimento discenderebbero indiscutibili effetti sostanziali di natura costitutivo-modificativa della pena e dei sui effetti). Il giudice, infatti, in un primo momento deve verificare la "credibilità razionale" dell’obiettivo indicatogli come elemento aggregante la pluralità delle azioni.

È un accertamento che, al di là dei criteri formali della razionalità logica, deve confrontarsi con le massime di esperienza e con i singoli elementi che emergono nel dipanarsi concreto dei fatti. In un secondo momento il decidente deve appurare se sul piano oggettivo le condotte ed il fine iniziale e unitario prospettatogli sia in nesso di coerenza con gli scopi segnalati e la tipologia illecita realizzata. L’ultimo aspetto della verifica riguarda l’accertamento sul se, acquisita la credibilità della prospettazione del fine unitario e la oggettiva coerenza dei delitti e delle azioni con il conseguimento di quel fine, i singoli reati si possano realisticamente intendere come posti in essere in diversi momenti storici, così attuando un programma illecito unitario, ma diluito nel tempo. In questa fase dell’indagine non può trascurarsi la presenza di particolari di fatto o di dati storici obiettivamente incompatibili con l’ipotesi del progetto unitario.

Si può, pertanto, ribadire il principio secondo cui: "L’indagine che si impone alla riflessione del giudice chiamato a delibare un’istanza di applicazione della disciplina della continuazione deve concentrarsi su tre essenziali problemi: dapprima, verificare la credibilità intrinseca, sotto i profili della logica e della congruità, dell’asserita esistenza di un unico, originario programma delittuoso; indi, analizzare i singoli comportamenti incriminati per individuare le particolari, specifiche finalità che appaiono perseguite dall’agente; infine, verificare se detti comportamenti criminosi, per le loro particolari modalità, per le circostanze in cui si sono manifestati, per lo spirito che li ha informati, per le finalità che li ha contraddistinti, possano considerarsi, valutata anche la natura dei beni aggrediti, come l’esecuzione, diluita nel tempo, del prospettato, originario unico disegno criminoso (Sez. 1, 30702/2018).

Per ritenere configurata la connessione teleologica di cui all’art. 12 lett. c), idonea a determinare uno spostamento di competenza, dovrà essere individuato, in concreto, un effettivo legame finalistico fra i reati commessi da soggetti diversi, con conseguente necessità di verificare che chi ha commesso un reato abbia avuto presente l’oggettiva finalizzazione della sua condotta (espressa dalla preposizione "per", che grammaticalmente introduce un complemento di fine e che precede la formula "eseguire od occultare gli altri") alla commissione di un altro reato oppure all’occultamento di un reato precedente. La spia di tale finalizzazione ben può essere ricercata, ma non solo, nella contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 2, nelle ipotesi di connessione sovrapponibili a quelle di cui all’art. 12, lett. c) (SU, 53390/2017).

Se la violenza esercitata per assicurarsi il possesso della cosa oggetto del reato di rapina o l’impunità eccede il fatto di percosse e volontariamente provoca delle lesioni personali, si determina il concorso tra il delitto di rapina e quello di lesioni, e per quest’ultimo sussiste l’aggravante della connessione teleologica, a nulla rilevando che reato mezzo e reato fine siano integrati nella stessa condotta materiale (Sez. 2, 26435/2005).

Il delitto di resistenza a pubblico ufficiale assorbe soltanto quel minimo di violenza che si concreta nelle percosse, non già quegli atti che, esorbitando da tali limiti, siano causa di lesioni personali in danno dell’interessato, sicché, in quest’ultima ipotesi, il delitto di lesioni concorre con quello di resistenza a pubblico ufficiale e se l’atto di violenza, con il quale l’agente ha consapevolmente prodotto le lesioni, non risulta fine a se stesso, ma è stato posto in essere allo scopo di resistere al pubblico ufficiale, si realizza il presupposto per ritenere la sussistenza della circostanza aggravante della connessione teleologica di cui all’art. 61, n. 2, (Sez. 6, 27703/2008).

Colpa con previsione dell’evento

In tema di elemento soggettivo del reato ricorre la colpa cosciente quando la volontà dell'agente non è diretta verso l'evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l'evento illecito, si astiene dall'agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo (Sez. 4, 12351/2020).

Ricorre la colpa cosciente quando l’agente, pur rappresentandosi l’astratta possibilità della realizzazione del fatto costituente reato, abbia agito nella convinzione o nella sicura fiducia che l’evento, in considerazione di tutte le circostanze del caso concreto, non si sarebbe verificato (tra le più recenti, Sez. 4, 48081/2017).

Quanto alla differenza dal dolo eventuale, si è affermato e va ribadito che il primo si differenzia dalla colpa cosciente in quanto consiste nella rappresentazione della concreta possibilità della realizzazione del fatto, con accettazione del rischio (e, quindi, volizione) di esso, mentre la seconda consiste nella astratta possibilità della realizzazione del fatto, accompagnata dalla sicura fiducia che in concreto esso non si realizzerà (quindi, non-volizione); l’indagine sulla sussistenza dell’uno o dell’altra postula un accertamento ed una valutazione di merito sulla ricorrenza o meno dei distinti presupposti soggettivi che caratterizzano ciascuno di essi (Sez. 4, 28231/2009).

In altre parole, la colpa cosciente ricorre quando la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo (Sez. 40717/2018).

I concetti di dolo eventuale e colpa cosciente, in quasi tutte le fattispecie giunte all’esame di legittimità, sono stati ricostruiti sempre nell’ottica del tradizionale orientamento secondo il quale il dolo eventuale e la colpa cosciente hanno in comune l’elemento rappresentativo, costituito dalla previsione dell’evento, distinguendosi nell’elemento volitivo poiché, mentre nel caso del dolo eventuale l’agente opera accettando il rischio di cagionare un evento accessorio rispetto alla propria condotta, per cui l’evento stesso finisce con l’essere attratto nell’orbita della sua volontà, nel caso della colpa cosciente il soggetto esclude che l’evento astrattamente previsto si verificherà nella situazione concreta, confidando nella presenza di specifiche circostanze impeditive quali la propria abilità, l’adozione di contromisure, ovvero l’intervento di fattori esterni, anche dipendenti dalla condotta altrui, che egli ritiene ragionevolmente idonee ad impedire il verificarsi dell’evento.

La colpa con previsione, in altri termini, ricorre quando l’agente prevede, in concreto che la sua condotta possa cagionare l’evento, ma si rappresenta di essere in grado di evitarlo (Sez. 4, 24612/2014, in un caso in cui la Corte, in relazione all’evento mortale causato da un incidente stradale, ha censurato la decisione del giudice di merito nella parte in cui riconosceva la ricorrenza della circostanza aggravante della colpa cosciente o con previsione, di cui all’art. 61 n. 3, per omessa indicazione degli elementi sintomatici da cui andava desunta non la prevedibilità in astratto bensì la previsione in concreto da parte dell’imputato del decesso della vittima, non evincibile dalla gravità della violazione in sé considerata).

Il giudice che valuta la responsabilità, pertanto, deve indicare analiticamente gli elementi sintomatici da cui desume non la prevedibilità in astratto, bensì la previsione dell’evento, in concreto, da parte dell’imputato, non evincibile ex se dalla gravità della violazione in sé considerata. Non basta, come nel caso, un generico riferimento alla prossimità di abitazioni risultante dalle fotografie allegate.

Ancora di recente si è affermato che, perché sussista l’aggravante di cui all’art. 61 n. 3, occorre, in altri termini, che l’agente si rappresenti l’astratta possibilità della realizzazione del fatto costituente reato, ma agisca nella convinzione o nella sicura fiducia che l’evento, in considerazione di tutte le circostanze del caso concreto, non si sarebbe verificato (Sez. 4, 48081/2017, che ha annullato la sentenza che aveva riconosciuto la colpa cosciente nella condotta dell’automobilista che aveva investito uno degli agenti presenti ad un posto di blocco, ritenendo che le condizioni materiali  ridotta distanza di presumibile avvistamento, velocità sostenuta, inserimento di anabbaglianti in orario notturno e movimento della vittima  fossero incompatibili con la definizione del momento rappresentativo nella mente dell’imputato, sì da consentirgli di adeguare o modificare il proprio agire) (Sez. 4, 32221/2018).

L’aggravante della colpa con previsione ricorre ove l’agente, pur rappresentandosi l’astratta possibilità della realizzazione del fatto costituente reato, abbia agito nella convinzione o nella sicura fiducia che esso non si sarebbe verificato. Non è dunque sufficiente la mera prevedibilità dell’evento, che costituisce requisito generale della colpa, ma occorre la prova della sua effettiva previsione, accompagnata dal convincimento che l’evento, in considerazione di tutte le circostanze del caso concreto, non accadrà. Si pensi ai classici casi del giocoliere che lanci dei coltelli intorno ad una persona o dell’automobilista che, confidando nella propria abilità nella guida, effettui slalom spericolati tra altre auto.

Quest’atteggiamento psicologico, in sostanza, si traduce nel passaggio da una rappresentazione generica in ordine alla idoneità di un comportamento, come quello tenuto dall’agente, a sfociare in astratto in un reato, ad una previsione concreta, che, per particolari circostanze, quel fatto non si verificherà. Nel quadro di tale impostazione, pertanto, la colpa cosciente è connotata da una previsione astratta che si evolve nel superamento del dubbio e si risolve in una previsione negativa in merito al verificarsi dell’evento, in quanto nella colpa cosciente il verificarsi dell’evento rimane un’ipotesi teorica, che, nella coscienza del soggetto, non viene percepita come suscettibile di effettiva concretizzazione. E si è sottolineato, in giurisprudenza, come la colpa cosciente sia caratterizzata dal tratto tipico della colpa, che è la controvolontà dell’evento, che invece non è presente nel dolo eventuale.

In quest’ottica, le Sezioni unite (SU, 38343/2014) hanno affermato che ricorre la colpa cosciente allorché la volontà non sia diretta verso l’evento e l’agente, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astenga dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo. L’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l’iter e l’esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori, quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) il grado di probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore, in caso di sua verificazione ; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione; i) la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (cosiddetta prima formula di Frank) (Sez. 4, 36726/2018).

Sevizie e crudeltà

L’aggravante dell’aver agito con crudeltà e sevizie sussiste nella condotta di chi infierisce lungamente e rabbiosamente sulla vittima sino a massacrarla, eccedendo nei limiti della normalità causale essendo irrilevante che la vittima abbia potuto o meno percepire la natura afflittiva degli atti di crudeltà. Più volte si è evidenziato come la circostanza aggravante in questione, caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole, deve essere accertata alla stregua delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti al dolo (Sez. 1, 20185/2018).

Nella circostanza aggravante di cui all’art. 61, primo comma, n. 4, per "sevizie" deve intendersi una condotta studiata e specificamente finalizzata a cagionare sofferenze ulteriori e gratuite, rispetto alla "normalità causale" del delitto perpetrato; si ha invece "crudeltà" quando l’inflizione di un male aggiuntivo, che denota la spietatezza della volontà illecita manifestata dall’agente, non è frutto di una sua scelta operativa preordinata (SU, 40516/2016).

Il dolo d’impeto, designando un dato meramente cronologico consistente nella repentina esecuzione di un proposito criminoso improvvisamente insorto, è incompatibile con la circostanza aggravante della crudeltà di cui all’art. 61, primo comma, n. 4 (SU, 40516/2016).

In tema di omicidio, l’aggravante di aver agito con crudeltà non può ravvisarsi nella mera reiterazione di colpi di coltello inferti alla vittima, se tale azione, che è connessa alla natura del mezzo usato per conseguire l’effetto delittuoso, non eccede i limiti della normalità causale e non trasmoda in una manifestazione di efferatezza (Sez. 1, 33021/2012).

La circostanza aggravante prevista per il delitto di omicidio dall’art. 577, comma primo, n. 4, nella forma dell’aver adoperato sevizie o agito con crudeltà verso le persone, ha natura soggettiva e ricorre quando le modalità della condotta ‘esecutiva del reato evidenzino la volontà di infliggere alla vittima patimenti esuberanti il normale processo causale di produzione dell’evento ed estrinsechino un "quid pluris" rispetto all’attività richiesta per la consumazione del reato stesso; in tali casi la punizione in termini più severi trova giustificazione nella particolare riprovevolezza del contegno del soggetto agente, improntato a malvagità ed a provocare patimenti gratuiti e superflui rispetto a quanto richiesto per cagionare la morte, nonché rivelatore dell’assenza di qualsiasi pietà umana (Sez. 1, 30285/2011).

Vanno ricomprese nel concetto di crudeltà tutte le manifestazioni che denotano, durante l’iter criminoso, l’ansia dell’agente di appagare la propria volontà di arrecare dolore (Sez. 1, 1894/1996).

L’azione crudele, essendo qualificata dalla particolare intensità del dolo e dall’assenza di sentimenti di pietà verso gli altri, sfugge a qualsiasi automatismo che pretenda di ravvisarla in ogni caso in cui sia inferto un numero predeterminato in astratto di colpi; deve, al contrario, riconoscersi dalle modalità operative e dal concreto comportamento dell’agente, che risulti sul piano volitivo ed effettuale spietato ed insensibile, secondo la testuale formulazione della norma (Sez. 1, 2960/1997).

Minorata difesa

Ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante della c. d. “minorata difesa”, prevista dall’art. 61, primo comma, n. 5, le circostanze di tempo, di luogo o di persona, di cui l’agente ha profittato in modo tale da ostacolare la predetta difesa, devono essere accertate alla stregua di concreti e concludenti elementi di fatto atti a dimostrare la particolare situazione di vulnerabilità – oggetto di profittamento – in cui versava il soggetto passivo, essendo necessaria, ma non sufficiente, l’idoneità astratta delle predette condizioni a favorire la commissione del reato. La commissione del reato “in tempo di notte” può configurare la circostanza aggravante in esame, sempre che sia raggiunta la prova che la pubblica o privata difesa ne siano rimaste in concreto ostacolate e che non ricorrano circostanze ulteriori, di natura diversa, idonee a neutralizzare il predetto effetto (SU, 40725/2021).

Ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante della c.d. “minorata difesa”, prevista dall’art. 61 primo comma n. 5, le circostanze di tempo, di luogo o di persona, di cui l’agente ha profittato in modo tale da ostacolare la predetta difesa, devono essere accertate alla stregua di concreti e concludenti elementi di fatto atti a dimostrare la particolare situazione di vulnerabilità - oggetto di profittamento - in cui versava il soggetto passivo, essendo necessaria, ma non sufficiente, l’idoneità astratta delle predette condizioni a favorire la commissione del reato; la commissione del reato “in tempo di notte” può configurare la circostanza aggravante in esame, sempre che sia raggiunta la prova che la pubblica o privata difesa ne siano rimaste in concreto ostacolate e che non ricorrano circostanze ulteriori, di natura diversa, idonee a neutralizzare il predetto effetto (Fattispecie nella quale la corte di appello aveva riconosciuto l’applicazione della circostanza aggravante della minorata difesa rilevando che l’imputato aveva commesso la rapina in orario notturno ed in assenza di qualsivoglia forma di potenziale controllo. La Corte, in applicazione del principio enunciato, ha annullato la sentenza impugnata limitatamente all’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 e alla determinazione della pena, con rinvio alla corte di appello competente per nuovo giudizio) (Sez. 2, 990/2022).

La commissione del reato in tempo di notte può configurare la circostanza aggravante della minorata difesa, sempre che sia raggiunta la prova che la pubblica o privata difesa ne siano rimaste in concreto ostacolate e che non ricorrano circostanze ulteriori, di natura diversa, idonee a neutralizzare il predetto effetto. Laddove esista un sistema di vigilanza del sito, ciò potrà condurre ad escludere la circostanza aggravante in parola laddove l’impianto di videoripresa sia collegato alla centrale operativa di polizia o di un istituto di vigilanza privata, sì da consentire il tempestivo accorrere di soccorsi (Sez. 5, 42216/2021).

In tema di minorata difesa, non rileva di per sé l'idoneità astratta di una situazione, quale il tempo di notte, ai fini dell'integrazione dell'aggravante in questione, ma è necessario accertare, in concreto, se le circostanze in cui si è verificato il fatto abbiano effettivamente diminuito la capacità di difesa, sia pubblica che privata, e favorito la commissione del reato. Il tempo di notte ha, dunque, rilievo qualora concorrano ulteriori condizioni che abbiano effettivamente annullato o sminuito i poteri di difesa pubblica o privata, atteso che il fondamento della predetta aggravante va ravvisato, in ossequio al principio di offensività, nel maggior disvalore della condotta, laddove l'agente approfitti delle possibilità di facilitazione dell'azione delittuosa offerte dal particolare contesto in cui l'azione viene a svolgersi (Sez. 5, 15466/2021).

Riguardo alla sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 5, l’accertamento dell’aggravante della minorata difesa richiede la valutazione in concreto del complesso delle condizioni che hanno facilitato l’azione criminosa, non rilevando l’idoneità astratta di una situazione quale il tempo di notte (Sez. 5, 13806/2020).

L’aggravante della minorata difesa si fonda su una valutazione, in concreto, delle condizioni che hanno consentito di facilitare l’azione criminosa non rilevando l’idoneità astratta di una situazione, quale il tempo di notte. Il tempo di notte avrà rilievo, secondo questa impostazione interpretativa, qualora concorrano ulteriori condizioni che abbiano effettivamente annullato o sminuito i poteri di difesa pubblica o privata. L’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 ha natura oggettiva nel senso che essa è configurabile anche quando la minorata difesa sia insorta indipendentemente dalla volontà dell’agente, il quale si sia limitato a trarne vantaggio. La circostanza aggravante in questione, in altri termini, è integrata per il sol fatto, oggettivamente considerato, della ricorrenza di condizioni utili a facilitare il compimento dell’azione criminosa, a nulla rilevando che dette condizioni siano maturate occasionalmente o indipendentemente dall’azione del reo. È necessaria, tuttavia, anche la consapevolezza, da parte dell’agente, della sussistenza di tale minorata difesa (Sez. 4, 10060/2019).

La circostanza aggravante di aver approfittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, a seguito della modifica normativa introdotta dalla L. 94/2009, deve essere specificamente valutata anche in riferimento all’età senile e alla debolezza fisica della persona offesa, avendo voluto il legislatore assegnare rilevanza ad una serie di situazioni che denotano nel soggetto passivo una particolare vulnerabilità della quale l’agente possa trarre consapevolmente vantaggio. E, dunque, alla luce della modifica testuale della disposizione normativa, l’età avanzata della vittima del reato rileva in misura maggiore attribuendo al giudice di verificare, allorché il reato sia commesso in danno di persona anziana, se la condotta criminosa posta in essere sia stata agevolata dalla scarsa lucidità o incapacità di orientarsi da parte della vittima nella comprensione degli eventi secondo criteri di normalità (Sez. 1, 43809/2018).

Le circostanze di persona che, ai sensi dell’art. 61 n. 5, aggravano il reato quando l’agente ne approfitti possono consistere in uno stato di debolezza fisica o psichica in cui la vittima del reato si trovi per qualsiasi motivo; ne consegue che esse devono essere conosciute dall’agente e tali da ostacolare, in relazione alla situazione fattuale concretamente esistente, la reazione dell’Autorità pubblica o delle persone offese, agevolando la commissione del reato (Sez. 2, 13933/2015).

La commissione del furto in ora notturna integra di per sé gli estremi dell’aggravante di minorata difesa (Sez. 5, 20480/2018).

Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della minorata difesa, se il tempo di notte, di per sé solo, non realizza automaticamente tale aggravante, con esso possono concorrere altre condizioni che consentono, attraverso una complessiva valutazione, di ritenere in concreto realizzata una diminuita capacità di difesa sia pubblica che privata, non essendo necessario che tale difesa si presenti impossibile ed essendo sufficiente che essa sia stata soltanto ostacolata (Sez. 4, 53343/2016).

In senso contrario:  ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della minorata difesa, se il tempo di notte, di per sé solo, non realizza automaticamente tale aggravante, con tale situazione dovendo concorrere altre condizioni che consentono, attraverso una complessiva valutazione, di ritenere in concreto realizzata una diminuita capacità di difesa sia pubblica che privata, pur precisando che è non evidentemente necessario che tale difesa si presenti impossibile ed essendo sufficiente che essa sia stata soltanto ostacolata (Sez. 4. 53470/2017).

La giurisprudenza è ormai consolidata nel senso che sussista l’aggravante della minorata difesa, con riferimento alle circostanze di luogo, note all’autore del reato e delle quali egli, ai sensi dell’art. 61, n. 5, abbia approfittato, nell’ipotesi di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti "on-line", poiché, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta ( Sez. 6, 17937/2017).

L’aggressione unilaterale avvenuta in ora notturna, in luogo poco illuminato e in assenza di estranei che possano intervenire in aiuto integra gli estremi della circostanza aggravante della minorata difesa (Sez. 1, 50405/2018).

La commissione del reato in ora notturna integra, di per sé, gli estremi dell’aggravante della minorata difesa, a causa della ridotta vigilanza pubblica che, in tali ore, viene esercitata. Si tratta dell’orientamento di legittimità che tiene conto delle minori possibilità, per i privati, di sorveglianza, a meno che particolari circostanze non contribuiscano ad accentuare, comunque, le difese del soggetto passivo (Sez. 5, 32244/2015).

Ai fini della sussistenza dell’aggravante della minorata difesa, non è necessario che tale difesa si presenti impossibile, ma è sufficiente che essa sia stata anche soltanto ostacolata (Sez. 4, 53343/2016).

La valutazione della sussistenza della circostanza aggravante della minorata difesa per approfittamento delle condizioni del soggetto passivo va operata dal giudice valorizzando situazioni che, nel singolo caso, abbiano ridotto o comunque ostacolato la capacità di difesa della parte lesa, agevolando in concreto la commissione del reato. E va rammentato che, a questi fini, non è necessario che le circostanze di tempo, di luogo o di persona, previste dall’art. 61, numero 5), abbiano impedito o reso impossibile la difesa privata, essendo sufficiente che la stessa sia soltanto ostacolata (Sez. 1, 50699/2017).

Stato di latitanza

Non è configurabile la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 6 nella condotta del latitante che commette il reato di resistenza a pubblico ufficiale per opporsi all’esecuzione della misura cautelare (Sez. 5, 2803/2006).

L’aggravante ex art. 61 n. 6 richiede lo stato soggettivo di latitante ed un vincolo di strumentalità tra tale stato ed il reato, considerato aggravato proprio a cagione di tale stato tipizzato dalla norma nel fine di sottrarsi all’arresto ovvero alla cattura (Sez. 1, 43918/2018).

La notifica all’imputato dell’ordine di esecuzione della pena è irrilevante ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 67, essendo a tal fine sufficiente che egli sia consapevole di essere ricercato per un precedente reato (Sez. 5, 18983/2013).

Danno patrimoniale grave

Per l’applicabilità della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità può farsi riferimento alle condizioni economico-finanziarie della persona offesa solo qualora il danno sofferto, pur non essendo di entità oggettiva notevole, può essere qualificato tale in relazione alle particolari condizioni della vittima, che sono invece irrilevanti quando l’entità oggettiva del danno è tale da integrare di per sé un danno patrimoniale di rilevante gravità (Sez. 6, 12210/2019).

Nel caso di reato continuato, valendo, in mancanza di tassative esclusioni, il principio della unitarietà, la valutazione in ordine alla sussistenza o meno dell’aggravante del danno di rilevante gravità deve essere operata con riferimento non al danno cagionato da ogni singola violazione, ma a quello complessivo causato dalla somma delle violazioni (Sez. 5, 28598/2017).

Nel valutare l’applicabilità della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità, può farsi riferimento alle condizioni economico-finanziarie della persona offesa solo qualora il danno sofferto, pur non essendo di entità oggettiva notevole, può essere qualificato tale in relazione alle particolari condizioni della vittima, che sono invece irrilevanti quando l’entità oggettiva del danno è tale da integrare di per sé un danno patrimoniale di rilevante gravità (Sez. 2, 48734/2016).

Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità, l’entità oggettiva assume valore preminente, mentre la capacità economica del danneggiato costituisce parametro sussidiario di valutazione cui è possibile ricorrere soltanto nei casi in cui il danno sia di entità tale da rendere dubbia la sua oggettiva rilevanza (Sez. 4, 5908/2013).

La circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità può essere riconosciuta anche in ipotesi di delitto tentato (Sez. 2, 17424/2015). Ciò in quanto le modalità del fatto sono idonee a fornire concrete ed univoche indicazioni sull’entità del pregiudizio che si sarebbe determinato, laddove l’azione delittuosa fosse stata portata a compimento (Sez. 5, 36074/2018).

La circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all’art. 219, comma primo, LF è applicabile, con interpretazione estensiva, anche ai fatti di bancarotta "impropria", considerata l’integralità del richiamo contenuto nell’art. 223 LF alla fattispecie di cui all’art. 216 LF, da intendersi implicitamente riferito anche all’elemento accidentale della circostanza aggravante della rilevanza del danno, introdotto in detta fattispecie dal rinvio operato dall’art. 219, comma primo, LF (Sez. 5, 2903/2014). Occorre quindi affermare il principio secondo cui l’aggravante del danno di rilevante entità debba applicarsi anche alle ipotesi di bancarotta impropria ex art. 223, comma 2, LF, e non solo a quelle di bancarotta fraudolenta patrimoniale (Sez. 5, 18092/2018).

Abuso di poteri o violazione di doveri

È configurabile l’aggravante di cui all’art. 61, n. 9, in relazione alla condotta di reato commessa dal medico ospedaliero in occasione dello svolgimento dell’attività "intra moenia", trattandosi di soggetto che riveste la qualifica di pubblico ufficiale, in virtù del regime di convenzione che lo lega all’azienda sanitaria pubblica (Sez. 3, 36784/2017).

Condotta diretta contro soggetti muniti di particolari status

La circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma primo, n. 10, non è configurabile se il fatto è commesso in danno di un agente assicurativo, poiché la L. n. 990 del 1969 non ha modificato la natura giuridica delle compagnie di assicurazione, che resta eminentemente commerciale, anche se ad uno dei rami in cui tale attività si esplica (assicurazione della responsabilità civile connessa alla circolazione dei veicoli a motore) è collegato un interesse di carattere generale (Sez. 2, 39301/2009).

L’aggravante di cui all’art. 61, n. 10 (l’aver commesso il fatto contro un pubblico ufficiale) non è configurabile in relazione al delitto di lesioni personali volontarie commesso in concorso con il delitto di resistenza a pubblico ufficiale, atteso che il fatto in cui si sostanzia l’aggravante è elemento costitutivo del delitto di cui all’art. 337. Ne consegue che la medesima condotta non può essere posta a carico dell’imputato come integrativa sia del citato reato sia della circostanza aggravante (Sez. 2, 19669/2008).

Abuso di autorità, di relazioni domestiche etc.

La circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 11 attiene non solo a rapporti aventi ad oggetto prestazioni d’opera, ma più in generale ai rapporti negoziali improntati alla fiducia; infatti ciò che rileva ai fini della ricorrenza della citata aggravante, è l’esistenza di un rapporto anche di natura meramente fattuale che abbia rappresentato quantomeno, occasione, se non ragione giuridica, del possesso da parte dell’imputato e che abbia dunque consentito a quest’ultimo di commettere con maggiore facilità il reato, approfittando della particolare fiducia in lui riposta (Sez. 2, 3491/2019).

L’aggravante di abuso di relazioni domestiche prevista dall’art. 61 n. 11 è, di regola, incompatibile con l’aggravante dell’introduzione in luogo destinato ad abitazione prevista dall’art. 625 n. 1, giacché le relazioni domestiche presuppongono un rapporto in forza del quale l’agente ha libero accesso nel luogo abitato dalla parte offesa. Tuttavia le due aggravanti possono concorrere qualora l’accesso nell’abitazione, nella forma in cui si é realizzato, non sia stato consentito dalla parte offesa, ma sia stato agevolato dalle preesistenti relazioni domestiche di cui l’agente, appunto, ha abusato (Sez. 2, 3450/2019).

Ai fini della sussistenza dell’aggravante comune di aver commesso il fatto con abuso di ospitalità, deve considerarsi ospite anche chi è accolto occasionalmente, saltuariamente o momentaneamente, nella sfera domestica di altra persona o in luogo da questa destinato all’esplicazione delle attività della vita privata con il suo consenso (Sez. 1, 43809/2018).

Sussiste l’aggravante dell’abuso di relazioni di prestazione d’opera, di cui all’art. 61 n. 11 nel caso di reato commesso quando l’agente non sia più alle dipendenze della persona offesa ove si accerti che l’autore del reato abbia comunque tratto profitto dalle condizioni favorevoli create dal preesistente rapporto di lavoro (Sez. 2, 9730/2017).

È configurabile l’aggravante dell’abuso dei poteri o della violazione dei doveri inerenti alla qualità di ministro di un culto, non solo quando il reato sia commesso nella sfera tipica e ristretta delle funzioni e dei servizi propri del ministero, ma anche quando la posizione ricoperta abbia facilitato il reato stesso, essendo l’incarico religioso non limitato alle funzioni strettamente connesse al culto, ma comprensivo di tutte le attività prestate al servizio della comunità comunque riconducibili al mandato (Sez. 3, 1949/2017).

In tema di circostanze aggravanti comuni, in relazione all’ipotesi di cui all’art. 61, n.11, il termine «ufficio» cui fa riferimento la disposizione, va inteso tanto nel suo senso soggettivo, come esercizio di mansioni da parte dell’agente, quanto in senso oggettivo, come luogo in cui le stesse sono svolte. Ne consegue che le relazioni di ufficio possono consistere anche in rapporti di mero fatto, indipendentemente dalla qualificazione giuridica degli stessi (Sez. 2, 44868/2004).

Condotta tenuta durante l’esecuzione di una misura alternativa alla detenzione

La circostanza aggravante di cui all’art. 61, primo comma, n. 11-quater - consistente nel fatto che il soggetto ha commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad una misura alternativa alla detenzione - è stata prevista con la novella dell’art. 3 L. 199/2010 nell’ambito del programma per fronteggiare l’emergenza penitenziaria, attraverso il ricorso a misure di esecuzione della pena al di fuori delle strutture carcerarie.

Il fondamento dell’aggravamento è rinvenuto dalla dottrina nella maggior gravità del fatto commesso tradendo l’atto di fiducia dell’ordinamento, rappresentato dall’ammissione dell’imputato ad una misura alternativa alla detenzione al carcere, per l’esecuzione di una pena detentiva riportata in occasione della condanna per un precedente reato. Misura che postula una cooperazione da parte di chi subisce la pena e che questi immancabilmente frustra se commette un delitto non colposo durante il tempo in cui è ammesso a qualsivoglia misura alternativa (Sez. 6, 52545/2016).

Condotta tenuta in presenza o in danno di un minore o di una donna in stato di gravidanza

Deve rilevarsi che l’art. 656, comma 9, lett. a), CPP stabilisce che la sospensione dell’esecuzione di cui al comma 5 del predetto articolo non può essere disposta nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis Ord. pen. e negli altri casi indicati nello stesso comma, tra i quali è compresa la fattispecie ex ‘art. 572, comma secondo, consistente nei maltrattamenti in famiglia in danno di minori, risultando le condotte illecite ascrittegli commesse nei confronti dei propri figli di età inferiore ai quattordici anni. Questa fattispecie risulta formalmente abrogata dall’art. 1, comma 1-bis del DL 93/2013, convertito, con modificazioni, nella L. 119/2013. Deve, tuttavia, rilevarsi che, nel caso di specie, come correttamente evidenziato nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 2 del provvedimento impugnato, l’abolitio criminis è solo apparente perché il medesimo provvedimento legislativo che ha eliminato formalmente il secondo comma dell’art. 572 cod. pen. - mediante la previsione dell’art. 1, comma 1 - ha introdotto la previsione nell’art. 61, comma primo, n. 11-quinquies, aggiungendo l’ipotesi del minore ultraquattordicenne a quella del minore infraquattordicenne, rilevante nel caso in esame, per la quale vi è continuità normativa, come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, 22530/2015).

La circostanza aggravante dell'essere stato il delitto commesso alla presenza del minore nelle ipotesi previste dall'art. 61 n. 11-quinquies, è configurabile tutte le volte che il minore degli anni diciotto percepisca la commissione del reato, anche quando la sua presenza non sia visibile all'autore di questo, sempre che l'agente ne abbia la consapevolezza ovvero avrebbe dovuto averla usando l'ordinaria diligenza (Ribadito il suesposto principio di diritto, la Corte sostiene applicabile l’aggravante in questione nel caso in esame in considerazione del fatto che appare insostenibile che l’imputato si fosse avvicinato all'autovettura dal lato del conducente concentrandosi esclusivamente sulla figura della persona offesa del tentato omicidio, non potendosi tralasciare la circostanza che i finestrini delle autovetture sono trasparenti, cosicché permettono a chi si trova all'esterno del mezzo di vedere chi si trova al suo interno, soprattutto chi si trova accanto alla persona che guida) (Sez. 1, 25773/2022).

La circostanza aggravante dell’essere stato il delitto commesso alla presenza del minore nelle ipotesi previste dall’art. 61 n. 11-quinquies, è configurabile tutte le volte che il minore degli anni diciotto percepisca la commissione del reato, anche quando la sua presenza non sia visibile all’autore di questo, sempre che l’agente, tuttavia, ne abbia la consapevolezza ovvero avrebbe dovuto averla usando l’ordinaria diligenza (nella fattispecie la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione della Corte di merito che aveva ritenuto sussistente l’aggravante, in considerazione della accertata presenza del minore nel soggiorno attiguo e comunicante, mediante un’ampia porta rimasta aperta, con il locale ove era avvenuto l’omicidio, nonché dall’effettiva percezione del fatto da parte del medesimo che, oltre a piangere e urlare, aveva riferito alla vicina accorsa in aiuto che il padre aveva sparato alla madre (Sez. 1, 12328/2017).