Art. 452-bis - Inquinamento ambientale (1)
1. È punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.000 a euro 100.000 chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili:
1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo;
2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.
2. Quando l’inquinamento è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata.
(1) Articolo inserito dall’art. 1, comma 1, L. 68/2015.
Rassegna di giurisprudenza
I fenomeni di grave inquinamento ambientale sono stati tradizionalmente affrontati in giurisprudenza, recuperandoli all’ambito di applicabilità dell’art. 434 e facendo ricorso alla disposizione, in particolare, del disastro cd. innominato. Valorizzando la portata “inespressa” della norma regolatrice, la sua collocazione sistematica (tra i delitti contro la pubblica incolumità) e il contenuto lessicale del concetto descrittivo di “disastro” si è apprestata, attraverso la sua applicazione, tutela anche al “paesaggio” (e, dunque, all’ambiente), bene giuridico-materiale oggetto di presidio costituzionale (art. 9 Cost.).
L’art. 434, norma di chiusura e residuale, ha generalmente presentato più d’un aspetto problematico nel regime della sua applicazione. Il modello legale, in sintesi estrema, ha permesso di delimitarne il piano operativo, innanzitutto, nei casi in cui non ricorresse alcuno dei disastri nominati. Un primo requisito di tipicità è stato enucleato proprio “in negativo” valorizzando il contenuto del disastro ed enucleando, tra gli “eventi”, quelli che non sarebbero rientrati nell’ambito di tutela della disposizione, in quanto già recuperati alla tipicità penale dalle norme che precedevano l’incriminazione.
L’insolita tecnica normativa, che incentrava sul concetto di alterità del disastro, la connotazione dell’ambito di obiettivizzazione della condotta, ha indubbiamente stimolato il fronte delle critiche, sul piano del rigore descrittivo e della tassatività. In realtà la lamentata mancanza di una puntuale descrizione normativa del fatto è stata esclusa (Corte costituzionale, sentenza 327/2008) proprio in ragione del rinvio alla nozione di “disastro” desumibile dalle analoghe disposizioni incriminatrici, che caratterizzano il titolo VI del Libro II del codice penale, categoria idonea ad essere recuperata a unità concettuale e di cui l’art. 434 costituisce norma di chiusura. Un recupero di tipicità, dunque, che ha essenzialmente ritratto il suo fondamento dalla definizione unitaria e allargata del concetto penalistico di “disastro”, entro cui si è inscritto quello ambientale.
Esso risultava, invero, connotato dalla specificità tipologica del bene aggredito e delle caratteristiche lesive e si coordinava e inseriva nel paradigma legale di quello incriminato come “altro disastro doloso”, anche assurto nel linguaggio applicativo ad una definizione tipizzante, attraverso il ricorso all’attributo di innominato. In questa logica, dunque, la delimitazione delle coordinate strutturali del nucleo essenziale di tipicità è stata individuata proprio nel carattere “dimensionale” e “offensivo” del fatto. Occorreva, cioè, un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi (o un atto diretto a ...).
Ancora si sarebbe dovuto realizzare un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, senza che, peraltro, fosse richiesta l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti. Al delitto – rivolto a proteggere la pubblica incolumità, considerata nel suo complesso, e non l’integrità fisica del singolo individuo – è stata ascritta la forma tipica del reato di pericolo, nel suo primo comma.
Ai sensi del secondo comma dello stesso art. 434 la verificazione del disastro determina un aggravamento di pena. La giurisprudenza ha ritenuto configurabile il delitto di cui all’art. 434 anche con riferimento a casi di inquinamento e contaminazione progressivi e talvolta lungo-latenti, non caratterizzati dalla sussistenza di un evento di forte impatto traumatico sulla realtà, né innescati da una causa di tipo violento.
Si è, ancora, osservato che, per la configurazione del disastro ambientale, è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente un numero indeterminato di persone e si è giunti ad isolare alcuni requisiti che caratterizzano la nozione di disastro specificamente nella potenza espansiva del nocumento stesso e nell’attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità. Il legislatore con l’inserimento nel Libro II del codice penale del Titolo VI bis, “dei delitti contro l’ambiente” ha, tra l’altro, introdotto la fattispecie di cui all’art. 452-quater con cui ha riscritto il modello del disastro ambientale.
La fattispecie è costruita come reato di evento e non di pericolo (almeno nei modelli di incriminazione descrittivi di cui al comma 2 nn. 1 e 2). È caratterizzata da un incremento sanzionatorio (punisce, con una pena da 5 a 15 anni di reclusione, rispetto ai 3 anni di pena minima e ai 12 di massima dell’art. 434) e dalla condotta di colui che abusivamente cagioni uno dei tre distinti macro-eventi di disastro ambientale, cui si riferisce la tutela penale. Il primo consiste in una alterazione dell’equilibrio dell’ecosistema di carattere «irreversibile» (n. 1); il secondo in un evento «la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali» (n. 2). Il terzo incrimina, infine, come macroevento: “l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo”.
La natura della figura di cui al n. 3 non è di agevole definizione. Limitandosi ad una verifica formale potrebbe essere ricondotta, piuttosto, che al delitto con evento di danno in senso stretto, all’ipotesi dell’incriminazione del fatto di pericolo concreto.
Ciò almeno nella ipotesi in cui sia l’indicatore alternativo del numero di persone esposte a pericolo a dare conto della lesione/offesa all’incolumità pubblica, lesione da intendere non solo come distruzione del bene protetto, ma come concreta esposizione di esso al pericolo della sua verificazione. La costruzione della fattispecie come causalmente orientata, secondo il modello descrittivo base di cui all’art. 452-quater comma 1 e l’intendimento dell’offesa alla pubblica incolumità come evento giuridico potrebbero anche essere di conforto in questa lettura della disposizione.
Si tratta, tuttavia, di un tema marginale, in definitiva, ai fini che qui interessano e che non appare utile approfondire non risultando rilevante in funzione di alcuna delle questioni prospettate. Piuttosto, l’incriminazione in esame è sussidiaria ai casi di «compromissione e deterioramento significativi e misurabili» dell’ecosistema (“inquinamento ambientale” ex art. 452-bis).
Non interessa qui trattenersi sui criteri distintivi tra le due ipotesi di alterazione dell’ecosistema, di cui ai nn. 1) e 2) del nuovo art. 452-quater, né su quelli che potrebbero segnare il distinguo concettuale tra l’alterazione non irreversibile dell’ecosistema, di cui al n. 2) cit. e la mera compromissione, che dà luogo all’ipotesi delittuosa di inquinamento ex art. 452-bis. In questa logica dovrebbe essere centrale l’interpretazione dei riferimenti alla “particolare onerosità” e alla “eccezionalità dei provvedimenti” necessari per l’eliminazione del danno.
Ciò che va, piuttosto, analizzato è l’assetto dei rapporti che intercorrono tra le figure delittuose, in ragione, in particolare, di una riflessione sulla clausola di riserva che il legislatore ha ritenuto di inserire nella descrizione della condotta tipica del nuovo disastro ambientale («fuori dai casi previsti dall’art. 434»). Lo scopo, in generale delle clausole di riserva è quello di delimitare i rapporti tra le due figure criminis e, soprattutto, nel caso di specie e nei limiti del possibile, di garantire le sorti dei processi già avviati con l’accusa di disastro innominato ex art. 434.
Gli stessi lavori preparatori della riforma ne danno, d’altro canto, conto. Si deve osservare che difficilmente si sarebbe potuto ritenere, in ragione della formulazione delle norme e dei rapporti tra le fattispecie, alla luce di quanto aveva avuto modo di definire la giurisprudenza nella applicazione dell’art. 434, che il nuovo art. 452-quater avesse abrogato la precedente incriminazione sottraendo all’area di rilevanza penale il “precedente” disastro ambientale, punibile ai sensi dell’art. 434. Già per ciò solo si sarebbe esclusa la possibilità di un recupero dello statuto normativo della cd. nuova incriminazione in materia di successione di leggi penali del tempo, così optando per l’applicazione dell’art. 2 comma 1.
Né, e per altro verso, si sarebbe potuta prospettare la possibilità di applicare la nuova fattispecie, ai fatti precedentemente commessi, perché figura normativa più grave sul piano del trattamento sanzionatorio del disastro cd. innominato ex art. 434 cod. pen. Una lettura diversa avrebbe, infatti, determinato l’applicazione retroattiva – anche, cioè, ai processi in corso – con violazione dei principi generali in tema di successione di norme penali nel tempo, fissati dall’art. 2. Già queste premesse inducono la constatazione che, alla luce della presenza della clausola di riserva, il tema dei rapporti tra fattispecie sia stato risolto in radice dal legislatore escludendo interferenze tra le incriminazioni o problemi di successione in senso stretto. L’esatta delimitazione della portata operativa della clausola in questione non è di semplice definizione in ogni suo aspetto.
Tuttavia, sembra chiaro che essa non instilli dubbi, almeno sul piano della successione temporale tra norme, avendo chiarito secondo la voluntas legis che non si sia inteso abdicare alla tutela penale in materia di ambiente (specie in relazione ai giudizi in corso) e non si siano sottratte affatto all’intervento penale le condotte di disastro che la giurisprudenza aveva già enucleato in quelle caratteristiche di tipicità strutturale, rilevanti ai fini dell’incriminazione di cui all’art. 434. Non si tratta, pertanto, di una ipotesi cd. nuova incriminazione, d’un fatto prima non previsto dalla legge come reato, poiché il disastro ambientale, sia pur nel paradigma cd. innominato era già direttamente punito dall’art. 434 in funzione della tutela apprestata costituzionalmente al bene giuridico-materiale di presidio superprimario.
Si è, piuttosto, al cospetto di un trattamento penale modificativo, in cui il fatto lesivo permane nel suo nucleo essenziale e centrale di disvalore – che il legislatore ha rinnovato – e che risulta descritto, in maggiore aderenza al principio di tassatività, attraverso l’aggiunta di elementi ulteriori, con funzione e connotati specializzanti. Si tratta di elementi che non immutano, tuttavia, la portata offensiva della condotta e la lesione che la caratterizza nella sua dimensione ontologica e che, piuttosto, operano sul piano della tecnica normativa descrittiva dell’incriminazione e dei criteri da seguire nella strutturazione della fattispecie, in funzione della delimitazione del suo contenuto di tipicità.
Non è un caso che la “normativizzazione” della definizione del disastro ambientale sia passata attraverso le letture che la stessa giurisprudenza aveva già in passato avuto modo di operare di quel concetto lesivo, ritraendole dalle categorie omologhe, sia pur di ambiti diversi, cui il disastro innominato stesso si era rifatto, per “ritagliarsi”, nella dimensione legale, un margine di tipicità adeguato (evocando appunto e come detto il concetto di alterità che figura nell’art. 434).
Del resto, i criteri generalmente utilizzati per definire i rapporti tra l’abrogazione della precedente incriminazione, l’introduzione di una nuova fattispecie e la definizione d’un trattamento penale di mera modifica sono essenzialmente riconducibili al principio di continuità del tipo di illecito, alla regola di continenza tra fattispecie e a quello dei rapporti strutturali tra paradigmi normativi, alla luce delle rispettive collocazioni sistematiche. In ciascuno di essi si suole generalmente impiegare, ora con funzione d’integrazione, ora di pura delimitazione, il principio di specialità (art 15) regola cardine che governa la più ampia fenomenologia del concorso di norme e non la specifica materia della successione delle disposizioni penali nel tempo, rimessa allo statuto dell’art. 2. Ciascuna delle impostazioni enucleate, sia pur con i pregi che include, contiene nodi di criticità.
La teoria della continuità dell’illecito isolatamente applicata, incentrandosi sul solo bene giuridico e sulle modalità d’offesa si rimette a puri criteri di valore, per inferire l’abrogazione o meno a seconda dell’identità e/o della continuità del bene stesso, elemento che, escludendo il fenomeno abolitivo, attesterebbe, appunto, quello d’un trattamento di mera modifica. Il rapporto di continenza, ancora, postulando che la nuova legge contenga la precedente e introducendo elementi di specialità rispetto alla prima che avrebbe carattere generale, si limita a prevedere un meccanismo di funzionamento per specialità unilaterale, là dove rapporto di continenza può esistere anche allorquando la norma successiva, pur introducendo elementi di specialità su taluni dei temi, assuma, comunque, carattere generale su altri.
Il rapporto strutturale tra fattispecie si conforma, di converso, al trattamento di mera modifica, allorquando la norma successiva, speciale, è abrogata e si espande quella generale con l’introduzione di elementi tali da comprendere la condotta precedente, salve le ipotesi di espressa decriminalizzazione.
Infine / si verifica allorquando la nuova norma abroga la precedente a carattere generale e subentra con elementi di specialità, rispetto ai segmenti che mantengono rilevanza penale – in ragione della disposizione introdotta successivamente –. Vi sarebbe abrogazione, in senso stretto, in tutti i casi in cui l’eterogeneità tra fattispecie esclude la continuità tra figure criminis (art. 2 comma 1 e 2). Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di spiegare che in tema di successione di leggi penali, perché sia applicabile la regola del terzo comma dell’art. 2, occorre che il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora punibile secondo la nuova legge, mentre non sono più punibili i fatti commessi in precedenza e rimasti fuori del perimetro della nuova fattispecie.
Tale situazione va verificata in base al criterio di coincidenza strutturale tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo, senza che sia necessario, di regola, fare ricorso ai criteri valutativi del bene tutelato o delle modalità di offesa. L’art. 2, infatti, pone, nei commi che lo costituiscono, una sequenza di regole tra loro collegate in modo che si chiariscono a vicenda: perché operi la regola del terzo comma deve essere esclusa l’applicabilità del primo e del secondo comma. Ne consegue che un fatto è punibile se, astrattamente considerato e sulla base dei criteri enunciati, rientra nell’ambito normativo di disposizioni che si sono succedute nel tempo e, quando ciò accade e nei limiti in cui accade, non opera l’effetto abolitivo della disposizione successiva.
Questi principi che dettano i criteri generalmente valevoli perla risoluzione del rapporto tra fattispecie, postulano, tuttavia, che il Legislatore non abbia risolto il problema del coordinamento tra norme ab initio e al momento dell’intervento normativo di riforma. È, contrariamente, certo nella specie che l’intervento normativo ha inteso esattamente fare salvi i casi di applicazione dell’art. 434 cod. pen. e salvaguardare, dunque, e in primo luogo, i processi in corso, per fatti commessi nel vigore della disposizione indicata, proprio inserendo una espressa clausola di riserva, in ragione della indiscussa applicazione dell’art. 434.
Se, poi, la clausola abbia anche l’ulteriore funzione e conseguenza di riservare alla tutela di quella disposizione anzidetta fatti successivamente commessi, rispetto all’entrata in vigore della L. 68/2015 e che non rientrano nell’ambito di applicabilità dell’art. 452-quater., di nuova formulazione, non rileva in questa sede e ai fini dell’odierno decidere, proprio per quanto si è già avuto modo di dire e poiché dovrebbe trattarsi di fatti avvenuti dopo l’entrata in vigore della L. 68/2015.
È certo, piuttosto, che, per l’incidenza lessicale della clausola di riserva richiamata e per il tenore dei lavori preparatori, le condotte oggetto di esame si debbano, appunto, esaminare in relazione alla precedente disposizione escludendosi, in ragione del tempus commissi delicti e del quadro legislativo di riferimento, oltre che dell’assenza di un intervento normativo proteso a introdurre un effetto di abrogazione espressa o implicita, con introduzione di una nuova incriminazione, che norma regolatrice della fattispecie debba essere appunto l’art. 434. nella sua formulazione originaria.
Né si ritiene possano mutare le conclusioni nella definizione del rapporto tra l’art. 452-bis e l’incriminazione del disastro cd. innominato. La norma neo-introdotta è in stretto rapporto di collegamento con l’art. 452-quater e si lega alla disposizione anzidetta attraverso un evidente vincolo di progressione lesiva. L’aggressione al bene giuridico e la conseguente tutela apprestata dal legislatore sono in nesso di continuità crescente nel senso che da una lesione di minore portata si passa ad una di consistenza maggiore che recupera la condotta al disastro, là dove l’alterazione assuma i caratteri dell’irreversibilità o della reversibilità, per così dire complessa, per oneri e interventi eccezionali comportamentali in funzione ripristinatoria.
Nella descrizione normativa della tipicità del delitto di cui all’art. 452-bis l’inquinamento ambientale è definito evocando concetti di indubbia valenza sostanziale che si è inteso ancorare ai referenti definitori della misurabilità e della significatività. Si tratta di elementi di specializzazione del risultato-evento (compromissione o deterioramento) che la condotta di inquinamento deve produrre e che, risulta chiaro, nell’espansione dell’offesa al massimo livello, induce le alterazioni irreversibili dell’art. 452 quater cod. pen.
Si intende, pertanto, come il rapporto che lega le due disposizioni poggi su un giudizio di valore che riserva l’intervento con il disastro ambientale ai casi di maggiore gravità, in cui la lesione risulta connotata da tratti di alterazione che producono modifiche irreversibili degli equilibri di sistema e che non permettono all’ambiente di reagire ripristinando lo status quo ante, secondo meccanismi naturali o che potrebbero indurre quel tipo di riduzione in pristino stato solo attraverso interventi etero-indotti eccezionali o di carattere particolarmente oneroso. Si comprende da questa premessa come la clausola di riserva che risulta inserita nell’art. 452-quater finisca per segnare anche l’ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 452-bis, là dove l’inquinamento si arresti ad una soglia lesiva che non è tale da indurre in senso stretto “disastro ambientale” punito dall’art. 452-quater.
Già questa premessa impone di ritenere che in via logica sia da escludere che possa prefigurarsi rispetto al disastro cd. innominato la sostituzione nei processi in corso con la fattispecie di cui all’art. 452-bis. A ciò deve, tuttavia, aggiungersi che tra le due fattispecie vi è un’indubbia diversità strutturale, evocando i fatti-reato nei rispettivi nuclei lesivi figure criminis sensibilmente diverse.
L’inquinamento ambientale si caratterizza per una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili delle matrici ambientali, degli ecosistemi o delle biodiversità. Il disastro innominato, specie nella forma aggravata, ha, contrariamente, carattere ben più ampio e meno limitato rispetto all’ambito di applicazione della condotta testé descritta e postula un fatto di proporzioni di ben più ampia gravità, che lo collocano in un grado di lesività ben più marcata al bene protetto. Pur potendo dunque, concettualmente, continuare ad ipotizzarsi l’evocata linea progressiva nell’offesa si tratta di delitti distinti rispetto ai quali, in ragione della diversità strutturale (e pur postulato non estensibile in chiave risolutiva l’effetto della clausola di riserva) non si pone, in concreto, un problema di successione tra norme penali.
Del resto la norma in esame contempla un fatto di aggressione al bene giuridico diverso nella sua tipicità descrittiva rispetto a quello incriminato dal primo e dal secondo comma dell’art. 434. Ricorre, infatti, nel comma 1 dell’articolo testé indicato un delitto di pericolo che, nella struttura, anticipa la punibilità secondo il modello del fatto tentato e dei fatti di attentato, creando l’insidia per il bene della pubblica incolumità. Nel secondo comma/ la norma incrimina, si è detto, l’evento aggravante della verificazione del disastro stesso.
È, tuttavia, la stessa definizione di disastro, ritratta dalle elaborazioni giurisprudenziali, a guidare l’interpretazione e a escludere che si possa recuperare al concetto di identità e continuità normativa i due delitti. I fatti, come anticipato, risultano diversi, né vi sono margini per ritenere che il criterio di specialità possa intervenire a risolvere ipotizzati problemi di coordinamento normativo nel fenomeno successorio, che al contrario vanno ritenuti non esistenti (Sez. 1, 58023/2017).
L’art. 452-bis, introdotto con la L. 68/2015, punisce chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna. Quando l’inquinamento è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata.
L’art. 452-quinquies indica una pena minore per i fatti di inquinamento e disastro ambientale causati per colpa (ed una ulteriore diminuzione per le ipotesi in cui dalle condotte descritte al primo comma derivi il pericolo di inquinamento o disastro).
Sul reato di inquinamento ambientale e sugli elementi costitutivi dello stesso la giurisprudenza di legittimità si è ripetutamente pronunciata, affermando condivisibili principi rilevanti anche per la soluzione delle questioni qui esaminate. In particolare, sulla necessaria “abusività” della condotta, premessa una disamina delle precedenti pronunce che tale requisito avevano considerato con riferimento alla diversa fattispecie di cui all’art. 260 DLGS 152/2006, si è affermato che è abusiva non soltanto quella posta in essere in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali – ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale – ovvero di prescrizioni amministrative (tra le tante, Sez. 3, 46170/2016), ribadendo successivamente tale affermazione con la precisazione che, ai fini dell’integrazione del reato, non è necessario che sia autonomamente e penalmente sanzionata la condotta causante la compromissione o il deterioramento richiesti dalla norma (Sez. 3, 15865/2017).
Conseguentemente, richiamando i precedenti giurisprudenziali, la abusività della condotta è stata individuata nell’inosservanza delle prescrizioni imposte in un progetto di bonifica (Sez. 3, 52436/2017) e nell’esercizio di attività di pesca che, seppure non vietata, sia effettuata con mezzi non consentiti o da soggetti non abilitati (Sez. 3, 18934/2017).
Nel caso di specie, l’abusività della condotta viene ipotizzata in relazione all’art. 17 RD 1775/1933, il quale stabilisce, al primo comma, che “è vietato derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell’autorità competente” e, al terzo comma, che in caso di violazione l’amministrazione competente dispone la cessazione dell’utenza abusiva ed il contravventore, fatti salvi ogni altro adempimento o comminatoria previsti dalle leggi vigenti, è tenuto al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria e di una somma pari ai canoni non corrisposti.
È quindi del tutto evidente che la violazione della richiamata disposizione, la quale configura addirittura una violazione amministrativa, consente senz’altro di qualificare come abusiva la condotta posta in essere, ribadendo i principi dianzi richiamati con l’ulteriore precisazione che rientra tra le condotte “abusive” richieste per la configurabilità di alcuni delitti contro l’ambiente la captazione di acque pubbliche in assenza di autorizzazione o concessione in violazione dell’art. 17 RD 1775/1933.
Quanto alle ulteriori caratteristiche del delitto in esame, la giurisprudenza di ha specificato che la “compromissione” e il “deterioramento” consistono in un’alterazione, significativa e misurabile, della originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, caratterizzata, nel caso della “compromissione”, da una condizione di squilibrio funzionale, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice o dell’ecosistema medesimi e, nel caso del “deterioramento”, da una condizione di squilibrio “strutturale”, connesso al decadimento dello stato o della qualità degli stessi, chiarendo, peraltro, che non assume rilievo l’eventuale reversibilità del fenomeno inquinante, se non come uno degli elementi di distinzione tra il delitto in esame e quello, più severamente punito, del disastro ambientale di cui all’art. 452-quater (Sez. 3, 46170/2016).
La non necessaria sussistenza di una tendenziale irreversibilità del danno, ai fini della sussistenza del delitto di inquinamento ambientale è stata successivamente ribadita, precisando anche che fino a quando tale irreversibilità non si verifichi, le condotte poste in essere successivamente all’iniziale “deterioramento” o “compromissione” del bene non costituiscono “post factum” non punibile, ma integrano singoli atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione del reato.
Si è ulteriormente chiarito che il termine “significativo”, nella sua accezione letterale, denota senz’altro incisività e rilevanza, mentre “misurabile” può dirsi ciò che è quantitativamente apprezzabile o, comunque, oggettivamente rilevabile, escludendo, sulla base dell’assenza di espliciti riferimenti a limiti imposti da specifiche disposizioni o a particolari metodiche di analisi, l’esistenza di un vincolo assoluto per l’interprete correlato a parametri imposti dalla disciplina di settore, che pur rappresentano comunque un utile riferimento nel caso in cui possono fornire, considerando lo scostamento tra gli standard prefissati e la sua ripetitività, un elemento concreto di giudizio circa il fatto che la compromissione o il deterioramento causati siano effettivamente significativi come richiesto dalla legge, mentre tale condizione, ovviamente, non può farsi automaticamente derivare dal mero superamento dei limiti (da ultimo, Sez. 3 18934/2017).
Conseguentemente, l’evento di danno si è ritenuto perfezionato, ad esempio, nella ridotta utilizzazione di un corso d’acqua in conformità alla sua destinazione, quale diretta conseguenza della condotta di inquinamento (Sez. 3, 15865/2017), nella dispersione in acque marine di sedimenti contenenti sostanze inquinanti quali idrocarburi e metalli pesanti (Sez. 3, 46170/2016), nel depauperamento della fauna in una determinata zona con una drastica eliminazione degli esemplari ivi esistenti (Sez. 3, 18934/2017).
Sebbene non possa escludersi la necessità, in determinati casi, di verifiche tecniche volte ad accertare la sussistenza ed il grado di compromissione o deterioramento di singole matrici ambientali o di un intero ecosistema, possono senz’altro verificarsi situazioni nelle quali simili situazioni siano di macroscopica evidenza, come nel caso di distruzione di flora o fauna immediatamente percepibili, ovvero quando, una volta individuato un determinato contesto ambientale e le caratteristiche che lo contraddistinguono, possano poi direttamente apprezzarsi le conseguenze della condotta contestata.
Si tratta, senza dubbio, di indagini non sempre agevoli, da effettuare anche tenendo conto delle condivisibili preoccupazioni espresse dalla dottrina, allorquando viene fatto notare che, l’accertamento delle conseguenze della condotta potrebbe, in alcuni casi, comportare anche la necessità di un confronto con situazioni preesistenti, impossibile o, comunque, di difficile attuazione in zone industrializzate o fortemente antropizzate per le quali non siano disponibili dati di confronto, ma che non rendono certo indispensabile il ricorso a consulenze o perizie.
Ne consegue che, ai fini dell’accertamento del reato di inquinamento ambientale la verifica della sussistenza dei requisiti della compromissione o del deterioramento non richiede necessariamente l’espletamento di accertamenti tecnici specifici (Sez. 3, 28732/2018).
La compromissione e il deterioramento, di cui al delitto di inquinamento ambientale previsto dall’art. 452-bis, consistono in un’alterazione, significativa e misurabile, dell’originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, caratterizzata, nel caso della “compromissione”, da una condizione di squilibrio funzionale, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice o dell’ecosistema medesimi e, nel caso del “deterioramento”, da una condizione di squilibrio strutturale, connesso al decadimento dello stato o della qualità degli stessi (Sez. 3, 15865/2017).
La fattispecie di cui all’art. 452-quaterdecies richiede, oltre all’individuazione del dolo specifico di ingiusto profitto, la partecipazione ad un’attività continuativa ed organizzata di illecita gestione di rifiuti. Si differenzia pertanto dal delitto di inquinamento ambientale che postula invece una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili della matrice ambientale (Sez. 3, 48847/2018).
Il delitto di danno previsto dall’art. 452-bis (al quale è tendenzialmente estranea la protezione della salute pubblica) ha quale oggetto di tutela penale l’ambiente in quanto tale e postula l’accertamento di un concreto pregiudizio a questo arrecato, secondo i limiti di rilevanza determinati dalla nuova norma incriminatrice, che non richiedono la prova della contaminazione del sito nel senso indicato dagli artt. 240 e ss. DLGS 152/2006 (Sez. 3, 50018/2018).
Ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 452-bis non è richiesta la tendenziale irreversibilità del danno (Sez. 3, 10515/2017), essendo sufficiente un evento di danneggiamento della matrice ambientale che, nel caso del “deterioramento”, consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, una attività non agevole, mentre, nel caso della “compromissione”, consiste in uno squilibrio funzionale che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo e ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare (Sez. 3, 15865/2017).
Del resto, proprio perché è necessaria la tendenziale irreversibilità del danno - che, se sussistente e concernente l’equilibrio di un ecosistema, integra il più grave reato di disastro ambientale punito dall’art. 452-quater - fino a che tale irreversibilità non si verifica, le condotte poste in essere successivamente all’iniziale “deterioramento” o “compromissione” del bene non costituiscono post factum non punibile, ma integrano singoli atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione del reato. Sicché – indipendentemente dal fatto che l’inquinamento del sito sia dipeso anche da comportamenti precedenti all’introduzione nell’ordinamento della fattispecie di cui all’art. 452-bis – la prosecuzione della condotta illecita con aggravamento del danno rileva ai fini della sussistenza del reato (Sez. 3, 50018/2018).
La condotta “abusiva” di inquinamento ambientale, idonea ad integrare il delitto di cui all’art. 452-bis comprende non soltanto quella svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali – ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale – ovvero di prescrizioni amministrative (Sez. 3, 46170/2016).
Il delitto di inquinamento ambientale, di cui all’art. 452-bis è reato di danno, integrato da un evento di danneggiamento che, nel caso del “deterioramento”, consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile, il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, una attività non agevole, mentre, nel caso della “compromissione”, consiste in uno squilibrio funzionale che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo e ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare, e ai fini del sequestro preventivo (nel caso di depuratori) è sufficiente accertare il deterioramento significativo o la compromissione come altamente probabili, desunti dalla natura e dalla durata nel tempo degli scarichi abusivi (Sez. 3, 52436/2017).
La materia urbanistica non è affatto estranea al settore della tutela ambientale, in quanto, al contrario, l’abusivismo edilizio ha una sicura incidenza sul territorio, comportando la trasformazione del suo originario assetto, con conseguenze evidenti anche sull’ambiente e questo rende possibile la commissione del delitto di cui all’art. 452-bis anche con condotte di malgoverno urbanistico del territorio sempre che risulti dimostrata la loro idoneità inquinatrice (Sez. 3, 29901/2018).
La condotta di chi appicca il fuoco a rifiuti urbani e speciali pericolosi, carcasse parti di autovetture, pneumatici usati, eccetera, abbandonati in maniera incontrollata in precostituita discarica a cielo aperto non autorizzata, tra i quali matasse di cavi di varia tipologia, ricoperti di guaine contenenti rame di dubbia provenienza, così causando, lo sprigionamento di intensi fumi tossici di prorompente diffusione, particolarmente nocivi per la salute pubblica, pertanto compromettendo il regolare svolgimento delle attività umane e infine alterando il sistema atmosferico e contaminando la flora e fauna circostante è idonea a configurare tanto il reato di inquinamento ambientale che quello di illecita combustione di rifiuti previsto dall’art. 256 DLGS 152/2006 (Sez. 3, 10928/2019).
Il delitto di inquinamento ambientale presenta una differente e maggiore latitudine applicativa rispetto alla contravvenzione di cui all’art. 256 DLGD 152/2006, venendo in rilievi profili diversi e ulteriori tali da escludere la sovrapponibilità tra le due figure criminose, ove si consideri ad esempio che la fattispecie di cui all’art. 452-bis presuppone l’esistenza di un evento naturalistico, ovvero la compromissione o il deterioramento significativo e misurabile degli elementi ambientali indicati ai numeri 1 e 2 del comma 1, che postula un quid pluris rispetto al deposito incontrollato di rifiuti (Sez. 3, 6270/2019).