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Art. 9 - Sanzioni amministrative

1. Le sanzioni per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato sono:

a) la sanzione pecuniaria;

b) le sanzioni interdittive;

c) la confisca;

d) la pubblicazione della sentenza.

2. Le sanzioni interdittive sono:

a) l’interdizione dall’esercizio dell’attività;

b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;

c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;

d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;

e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Stralcio della relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. 231/2001

5. Il sistema sanzionatorio nella legge-delega.

La sezione II dello schema di decreto detta la disciplina generale delle sanzioni amministrative applicabili agli enti. La legge delega individua, in proposito, un sistema essenzialmente binario, che prevede l’irrogazione di sanzioni pecuniarie e di sanzioni interdittive. Tuttavia, mentre le prime sono indefettibili, le seconde vanno previste - come recita la lettera l) del comma 1 dell’articolo 11 - solo “nei casi di particolare gravità”.

Sul piano strutturale, l’ammontare minimo della sanzione pecuniaria non deve essere inferiore a lire cinquanta milioni di lire, mentre l’ammontare massimo non deve oltrepassare i tre miliardi di lire (lettera g)) del comma 1 dell’articolo 11). Sul versante commisurativo, si stabilisce che il giudice deve tenere conto anche “dell’ammontare dei proventi del reato e delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente”.

La delega prevede poi due ipotesi di riduzione della sanzione pecuniaria: la prima (lettera g) concerne i casi di particolare tenuità del fatto, nel cui ambito la sanzione pecuniaria da irrogare non dovrà essere superiore a duecento milioni di lire né inferiore a venti milioni; la seconda si lega alla realizzazione della efficace riparazione o reintegrazione dell’offesa realizzata (lettera n)).

La delega stabilisce infine il divieto del pagamento della sanzione pecuniaria in misura ridotta.

Quanto alle sanzioni interdittive, riservate, come si è detto, ai casi di particolare gravità, la legge delega ne enumera ben sei: la chiusura anche temporanea dello stabilimento o della sede commerciale, la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito, l’interdizione anche temporanea dall’esercizio dell’attività, il divieto anche temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione, l’esclusione temporanea da agevolazioni, finanziamenti o contributi e l’eventuale revoca di quelli già concessi e, infine, il divieto anche temporaneo di pubblicizzare beni o servizi.

La delega (lett. n) dell’articolo 11) prevede poi una causa di inapplicabilità di una o più delle citate sanzioni interdittive in presenza di condotte di efficace riparazione o reintegrazione dell’offesa.

L’arsenale sanzionatorio è, infine, corredato dalle sanzioni della confisca e della pubblicazione della sentenza di condanna: per quanto concerne la prima, in particolare, la legge-delega (v. lett. i) dell’articolo 11) stabilisce che essa debba avere ad oggetto il prezzo o il profitto del reato e che possa essere adottata anche nella forma “per equivalente”.

Per quanto riguarda, invece, la seconda, questa viene affiancata alle sanzioni di natura interdittiva, anche se è fuor di dubbio che non ne condivide la natura, così che nel decreto riceve un’autonoma disciplina.

La lettera p) dell’articolo 11 delega inoltre il Governo ad introdurre un’ipotesi di reato e di responsabilità amministrativa dell’ente per le violazioni delle sanzioni interdittive, anche se applicate in via cautelare nel corso del procedimento.

Il quadro appena delineato restituisce l’immagine di un arsenale sanzionatorio particolarmente ampio e, in alcuni casi (si pensi al numero delle sanzioni interdittive), persino pletorico.

Sul piano sistematico, la legge delega coniuga “il passato” e “il presente” delle sanzioni amministrative.

Accosta infatti alla tradizionale sanzione pecuniaria (derivata dal paradigma fiscale e incentrata sulla monetizzazione dell’illecito, specie nel contesto del diritto economico-sociale) numerose sanzioni interdittive, dal contenuto incapacitante, che, oltre a tradire un vistoso pendolarismo con il sistema punitivo “penale”, hanno conosciuto una consistente e significativa diffusione nell’ultimo decennio.

Ancora relegate in posizione di retroguardia nel contesto del modello di illecito amministrativo “parapenale” codificato dalla legge 689/1981, le sanzioni interdittive si sono via via fatte largo nella tutela delle attività economiche, fino a trovare una definitiva consacrazione nella recente depenalizzazione avvenuta con il d. lgs. 507/1999, in cui costituiscono l’architrave dell’impianto sanzionatorio in alcuni importanti settori (si pensi agli alimenti, alla circolazione stradale, agli assegni, ecc.).

Si rafforza, così, anche sul versante della disciplina delle sanzioni, l’idea che il sistema di responsabilità disegnato dalla legge delega sfoci in un “diritto sanzionatorio tout court” che, nella materia economica, ha sempre avuto una doppia anima: penale-criminale e penale-amministrativa, con ricorrenti migrazioni delle materie da uno all’altro settore punitivo.

Un diritto sanzionatorio “punitivo”, dunque, che sfrutta l’incisività della sanzione amministrativa, ma che, proprio perché più pervasivo (si pensi all’incidenza delle sanzioni interdittive), reclama una sfera di garanzie superiori rispetto a quelle apprestate nella legge n. 689 del 1981.

 

Rassegna di giurisprudenza

In generale

Il sistema sanzionatorio proposto dal D. Lgs. 231/2001 fuoriesce dagli schemi tradizionali del diritto penale - per così dire - “nucleare”, incentrati sulla distinzione tra pene e misure di sicurezza, tra pene principali e pene accessorie, ed è rapportato alle nuove costanti criminologiche delineate nel citato decreto.

Il sistema è “sfaccettato”, legittima distinzioni soltanto sul piano contenutistico, nel senso che rivela uno stretto rapporto funzionale tra la responsabilità accertata e la sanzione da applicare, opera certamente sul piano della deterrenza e persegue una massiccia finalità specialpreventiva.

La tipologia delle sanzioni, come si chiarisce nella relazione al decreto, si presta ad una distinzione binaria tra sanzione pecuniaria e sanzioni interdittive; al di fuori di tale perimetro, si collocano inoltre la confisca e la pubblicazione della sentenza (SU, 26654/2008).

Il principio di legalità subordina l’applicazione delle misure sanzionatorie ad una previsione legislativa espressa, sia in ordine all’illecito sia in relazione al tipo di sanzione, precisando che debba essere entrata in vigore prima della commissione del fatto. 

È la commissione del fatto che deve essere presa in considerazione al fine di accertare l’applicabilità della sanzione. È il momento consumativo del reato che rileva ai fini dell’applicazione delle sanzioni previste dal D. Lgs. 231/2001. Il momento di realizzazione del profitto è del tutto irrilevante a questi fini, in quanto esso costituisce solo l’oggetto della sanzione-confisca, che ha il suo presupposto nell’esistenza, appunto, del reato accertato con sentenza (Sez. 6, 14564/2011).

L’indulto, operando con riferimento alle pene detentive e pecuniarie, non è applicabile alle sanzioni di cui all’art. 9 in quanto sanzioni collegate a responsabilità di natura amministrativa e non penale, versandosi in tema di illeciti amministrativi e non di reati (Sez. 1, 21724/2018).

 

Le sanzioni interdittive

le sanzioni interdittive sono sanzioni “principali” e non “accessorie”, per cui, in caso di sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 CPP, queste ultime devono essere oggetto di un espresso accordo processuale tra le parti in ordine al tipo ed alla durata delle stesse e non possono essere applicate dal giudice in violazione dell’accordo medesimo (così, espressamente, Sez. 3, 45472/2016). Le natura di sanzioni “principali”, e non “accessorie”, delle sanzioni interdittive è, in particolare, desumibile dai contenuti della norma dell’art. 14 del d.lgs. n. 231 del 2001, che ne definisce le modalità di commisurazione e di scelta, richiamando il corrispondente art. 11 sulle sanzioni pecuniarie quanto all’individuazione dei criteri per la loro determinazione nel tipo e nella durata, tenendo conto dell’idoneità delle singole sanzioni a prevenire illeciti del tipo di quello commesso (Sez. 4, 14696/2021).

Nell’ipotesi in cui l’accesso alla definizione concordata della sanzione consegua al “patteggiamento” ovvero alla “patteggiabilità” del reato presupposto, qualora si tratti di un illecito amministrativo, per il quale va applicata, oltre alla pena pecuniaria, una sanzione interdittiva temporanea, anche quest’ultima deve formare oggetto dell’accordo delle parti, risultando riducibile la sua durata “fino a un terzo” a mente del combinato disposto degli artt. 63, comma 2 e 444, comma 1 CPP. Va quindi ribadito il principio, consolidato in materia di “patteggiamento”, e dunque valido anche nel corrispondente rito alternativo previsto, per la responsabilità amministrativa degli enti, dall’art. 63, secondo cui, nel procedimento di applicazione di pena su richiesta, le parti non possono vincolare il giudice con un accordo avente ad oggetto anche le pene accessorie, le misure di sicurezza o la confisca, essendo dette misure fuori dalla loro disponibilità; ne consegue che, nel caso in cui il consenso si riferisca anche ad esse, il giudice non è obbligato a recepire o non recepire per intero l’accordo, rimanendo vincolato soltanto ai punti concordati riguardanti elementi nella disponibilità delle parti (Sez. 2, 1934/2016). Pertanto, poiché le sanzioni interdittive sono “sanzioni principali”, non già “accessorie”, come altresì desumibile dall’art. 14, che ne definisce i criteri di commisurazione e di scelta, richiamando il corrispondente art. 11 sulle sanzioni pecuniarie, esse devono essere oggetto di un espresso accordo processuale tra le parti in ordine al “tipo” e alla “durata (Sez. 3, 45472/2016).

Ai fini della determinazione dell’entità della sanzione per la persona giuridica ritenuta responsabile ai sensi del D. lgs. 231/2001, si deve tener conto del profitto raggiunto, dell’incremento e del consolidamento della posizione dell’ente, anche nei confronti dei concorrenti, della reiterazione dei comportamenti, dell’inesistenza di attività volte ad attenuare le conseguenze degli illeciti e dell’omessa adozione del modello organizzativo e gestionale atto a prevenire reati (Tribunale di Pordenone, sentenza 308/2010).

 

Estensione degli effetti delle misure interdittive

Si domanda se gli effetti interdettivi si applichino anche ad attività per le quali è stata perfezionata la fase di contrattazione. In proposito deve evidenziarsi che la misura cautelare del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, essendo preordinata – come già rilevato – a prevenire il rischio di commissione di illeciti della stessa indole (art. 45, comma 1) , non può che riguardare la futura attività negoziale che il soggetto passivo intenda porre in essere dopo l’adozione del provvedimento interdittivo.

Apparirebbe, invece, estranea alla ratio della norma un’estensione del divieto anche all’esecuzione di contratti già conclusi prima della misura cautelare.

Ad ulteriore conferma di tale conclusione può osservarsi che il “divieto di contrattare”, anche dal punto di vista lessicale, si connota come divieto di stipulare nuovi contratti, in ciò risolvendosi l’attività di contrattazione, e non come divieto di portare ad esecuzione o ad ulteriore esecuzione contratti già precedentemente perfezionati.

Resta, comunque, impregiudicata la possibilità per l’Amministrazione di procedere all’annullamento in via di autotutela dei pregressi atti di aggiudicazione, ove ne ricorrano gli specifici presupposti (Consiglio di Stato, Sez. 3, parere dell’11 gennaio 2005 a richiesta del Ministero delle attività produttive).

L’Amministrazione riferente chiede chiarimenti in ordine alla tipologia di contratti la cui stipulazione è vietata dalla cennata misura interdittiva, in particolare domandando se il divieto si estenda anche alla stipulazione di contratti aventi ad oggetto attività accessorie (di tipo “service”) rispetto all’oggetto del contratto principale vietato.

A tale riguardo occorre premettere che il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, ai sensi dell’articolo 14, comma 2, “può anche essere limitato a determinati tipi di contratto o a determinate amministrazioni”.

Nel caso in cui l’ordinanza che irroga la sanzione interdittiva contenga una siffatta limitazione e circoscriva il divieto di stipulazione solo ad un determinato tipo di contratto, deve, tuttavia, ritenersi che il divieto si estenda implicitamente anche alla conclusione di nuovi contratti accessori rispetto al negozio principale vietato (es. contratti di manutenzione di un bene oggetto di un nuovo contratto di fornitura vietato).

In tal senso va rilevato, per un verso, che il contratto accessorio è legato da un nesso di collegamento funzionale con il contratto principale e, per altro verso, che il contratto principale stipulato in contrasto con il divieto di contrattazione con la pubblica amministrazione è da qualificare come invalido, ed in particolare come affetto da nullità ai sensi dell’articolo 1418, comma 1, CC.

Da tali premesse discende, in conformità ai consolidati orientamenti della giurisprudenza in materia di collegamento negoziale funzionale, che la nullità contratto principale si estende anche ai suoi contratti accessori, che sono, quindi, anch’essi colpiti dal divieto di stipulazione.

Occorre, tuttavia, precisare che il divieto di contrattazione e la sanzione della nullità concerne solo i nuovi contratti accessori legati da un nesso di collegamento funzionale rispetto a nuovi contratti principali vietati, e non preclude alla società destinataria della misura interdittiva l’ulteriore esecuzione di contratti accessori conclusi prima dell’applicazione della misura cautelare.

Inoltre sembra lecito ritenere che la società destinataria del divieto, ove il provvedimento cautelare non lo vieti espressamente, possa stipulare con la pubblica amministrazione nuovi contratti accessori, quando questi siano collegati con nuovi contratti principali validi perché conclusi dall’amministrazione con un’altra società, non colpita dalla misura interdittiva (es. nuovi contratti di manutenzione di un bene fornito da un’altra società, non assoggettata al divieto di fornitura), oppure siano collegati a vecchi contratti principali validi perché conclusi prima dell’irrogazione del divieto (es. nuovi contratti di manutenzione di beni forniti in esecuzione di contratti di fornitura precedenti al divieto) (Consiglio di Stato, Sez. 3, parere dell’11 gennaio 2005 a richiesta del Ministero delle attività produttive).

 

Chiarimenti sulla nozione di pubblica amministrazione da applicare nel caso di divieto di contrattare

La nozione di “pubblica amministrazione” rilevante ai fini dell’applicazione della sanzione interdittiva in parola deve intendersi in senso ampio e tale da ricomprendere l’insieme di tutti i soggetti, ivi inclusi i privati concessionari di servizi pubblici, le imprese pubbliche e gli organismi di diritto pubblico secondo la terminologia comunitaria, che sono chiamati ad operare, in relazione all’ambito di attività considerato, nell’esercizio di una pubblica funzione (Consiglio di Stato, Sez. 3, parere dell’11 gennaio 2005 a richiesta del Ministero delle attività produttive).

 

La confisca

Nell’ambito del D. Lgs. 231/2001, l’istituto della confisca si connota in maniera differenziata a seconda del concreto contesto in cui è chiamato ad operare.

L’art. 9, comma 1, lett. c) prevede la confisca come sanzione; i suoi contenuti sono indicati dal successivo art. 19, a norma del quale “Nei confronti dell’ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato”.

Ai sensi dell’art. 19, comma 2, inoltre, è ammessa la confisca anche nella forma per equivalente.

Questa ipotesi di confisca costituisce, quindi, sanzione principale, obbligatoria e autonoma rispetto alle altre pure previste nel decreto in esame.

L’art. 6, comma 5 prevede la confisca del profitto del reato, commesso da persone che rivestono funzioni apicali, anche nell’ipotesi particolare in cui l’ente vada esente da responsabilità, per avere validamente adottato e attuato i MOG (compliance programs) previsti e disciplinati dalla stessa norma.

In questa ipotesi, riesce difficile cogliere la natura sanzionatoria della misura ablativa, che si differenzia strutturalmente da quella di cui all’art. 19, proprio perché difetta una responsabilità dell’ente.

L’art. 15, comma 4 prevede che, in caso di commissariamento dell’ente, “il profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività” debba essere confiscato. In questo caso, la confisca assume natura di sanzione sostitutiva, come emerge dalla Relazione allo Schema del decreto legislativo, nella quale si legge che «è intimamente collegata alla natura comunque sanzionatoria del provvedimento adottato dal giudice: la confisca del profitto serve proprio ad enfatizzare questo aspetto, nel senso che la prosecuzione dell’attività è pur sempre legata alla sostituzione di una sanzione, sì che l’ente non deve essere messo nelle condizioni di ricavare un profitto dalla mancata interruzione di un’attività che, se non avesse avuto ad oggetto un pubblico servizio, sarebbe stata interdetta».

La confisca, infine, costituisce ancora una volta sanzione principale nell’art. 23, comma 2 che configura la responsabilità dell’ente per il delitto di cui al primo comma della stessa norma, commesso nell’interesse o a vantaggio del medesimo ente. Le Sezioni unite (SU, 26654/2008) hanno inizialmente chiarito che, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone. In motivazione, si è precisato che, nella ricostruzione della nozione di profitto oggetto di confisca, non può farsi ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico – quali ad esempio quelli del “profitto lordo” e del “profitto netto” –, ma che, al contempo, tale nozione non può essere dilatata fino a determinare un’irragionevole e sostanziale duplicazione della sanzione nelle ipotesi in cui l’ente, adempiendo al contratto, che pure ha trovato la sua genesi nell’illecito, pone in essere un’attività i cui risultati economici non possono essere posti in collegamento diretto ed immediato con il reato.

Il principio è stato successivamente riaffermato da Sez. 6, 33226/2015 secondo la quale: «In tema di responsabilità da reato degli enti, il profitto del reato si identifica solo con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto e non anche con i vantaggi indiretti derivanti dall’illecito»; ed ancora da Sez. 6,  23013/2016, per la quale: «In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere ricompresa nel profitto anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone» e merita di essere condiviso, non potendo trarsi consapevoli indicazioni in senso contrario da un inciso presente in altra, successiva, decisione delle Sezioni unite (SU, 38343/2014), dalla cui complessiva motivazione emerge con chiarezza l’intenzione di operare unicamente un compiuto riepilogo degli orientamenti giurisprudenziali in tema, senza discostarsi dai principi affermati e ribaditi dalla fondamentale sentenza delle stesse Sezioni unite del 2008, pure adesivamente richiamati (la ricostruzione sistematica si deve a Sez. 2, 52316/2016).

 

Revoca dei finanziamenti

L’articolo 9 comma 2 lettera d) prevede specificamente la possibilità della revoca dei finanziamenti, contributi o sussidi già corrisposti. La restituzione di tali utilità all’avente diritto si correla alla specifica previsione dall’articolo 19 che impone al giudice, in caso di condanna, di disporre la confisca del profitto del reato salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato.

Ne consegue che la restituzione, oltre a costituire un effetto naturale della revoca dei finanziamenti, costituisce anche il motivo per cui non si dispone la confisca del profitto. È quindi illegittima qualsivoglia interpretazione alternativa che porterebbe alla paradossale conseguenza di permettere alle società condannate di trattenere il profitto del reato pagando una sanzione pecuniaria assai minore del profitto (Sez. 2, 26521/2017).