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Art. 34 - Disposizioni processuali applicabili

1. Per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le norme di questo capo nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

Stralcio della relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. 231/2001

15. Disposizioni generali sul procedimento.

Gli articoli 34 e 35 dettano disposizioni generali sul procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative. Le due norme assumono un rilievo fondamentale, perché stabiliscono, da un lato, che per il procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative si osservano, oltre che le norme del decreto, quelle del codice di procedura penale, in quanto applicabili; dall’altro lato, che all’ente si applicano le disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili.

In coerenza con quanto previsto, molto stringatamente, dalla lettera q) dell’articolo 11 della delega, la scelta del Governo è stata, dunque, quella di privilegiare il procedimento penale come luogo di accertamento e di applicazione delle sanzioni, collocando l’ente nella stessa condizione dell’imputato.

La ragione di questo intervento è duplice e deriva dalla necessità di coniugare le esigenze di effettività e di garanzia dell’intero sistema.

Per un verso, infatti, si è preso atto dell’insufficienza dei poteri istruttori riconosciuti alla pubblica amministrazione nel modello procedimentale delineato nella legge n. 689 del 1981 rispetto alle esigenze di accertamento che si pongono all’interno del sistema di responsabilità degli enti.

Poiché l’illecito penale è uno dei presupposti della responsabilità, occorre disporre di tutti i necessari strumenti di accertamento di cui è provvisto il procedimento penale, nettamente più incisivi e penetranti rispetto all’arsenale di poteri istruttori contemplato nella legge 689/1981.

Per altro verso, la natura penale-amministrativa degli illeciti dell’ente, documentata dall’applicabilità di penetranti sanzioni interdittive derivate dall’armamentario penalistico e dalla stessa vicinanza con il fatto-reato, rende necessario prefigurare un sistema di garanzie molto più efficace rispetto a quello, per vero scarno, della legge 689.

Di conseguenza, si è deciso di equiparare sostanzialmente l’ente all’imputato, così da metterlo nella condizione di poter fruire di tutte le garanzie che spettano a quest’ultimo.

 

Rassegna di giurisprudenza

Le norme processuali del D. Lgs. 231/2001 prevalgano sulle ordinarie norme processuali in virtù del principio di specialità (Tribunale di Milano, 5 febbraio 2008).

Nel processo instaurato per l’accertamento della responsabilità da reato dell’ente, non è ammissibile la costituzione di parte civile, atteso che l’istituto non è previsto dal D. Lgs. 231/2001 e l’omissione non rappresenta una lacuna normativa ma corrisponde ad una consapevole scelta del legislatore (Sez. 6, 2251/2011, richiamata da Sez. 5, 50497/2018).

L’inammissibilità della costituzione di parte civile contro l’ente imputato ex D. Lgs. 231/01 non è in contrasto con il diritto dell’UE (CGUE, Sez. 2, sentenza del 12 luglio 2012, Giovanardi, C-79/1).

È inammissibile la costituzione di parte civile dell’ente che sia chiamato a rispondere ex D. Lgs. 231/2001. Data la convergenza di responsabilità della persona fisica e di quella giuridica e avuto riguardo all’unicità del reato come “fatto” riferibile ad entrambe, deve trovare applicazione il principio solidaristico che informa lo schema concorsuale; pertanto, nel caso in cui si ritenesse la esistenza di una sua legittimazione attiva alla costituzione di parte civile, l’ente finirebbe con il dolersi e pretendere il risarcimento da quei soggetti legittimati ad agire in nome e per suo conto che hanno posto in essere la condotta imputata anche a vantaggio e nell’interesse dell’ente medesimo nell’ambito di un rapporto criminale sostanzialmente concorsuale nel medesimo reato (Tribunale di Milano, Sez. 2, ordinanza del 6 aprile 2017).

In contrario avviso: il D. Lgs. 231/2001 ha dato vita a un tertium genus di responsabilità compatibile con i principi di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza. Si tratta di una responsabilità autonoma, fondata sulla colpa di organizzazione, che ricorre anche quando l’autore del reato non sia stato identificato o non sia imputabile o il reato si sia estinto per una causa diversa dall’amnistia.

L’imputazione oggettiva dell’illecito rende evidente la connessione tra illecito penale e responsabilità dell’ente e non può escludersi che dal fatto dell’ente derivi un danno risarcibile ex art. 185 CP, richiamato dall’art. 74 CPP e dunque applicabile in virtù del rinvio di cui all’art. 34. Ne deriva che il danneggiato è legittimato ad agire in via diretta, disponendo della facoltà, riconosciuta dall’art. 24 Cost., di agire in giudizio per la tutela dei suoi diritti soggettivi.

È pertanto ammissibile la sua costituzione di parte civile nel procedimento che abbia ad oggetto la responsabilità dell’ente ex D. Lgs. 232/2001 (Tribunale di Trani, sezione penale, ordinanza del 7 maggio 2019).

I risultati desumibili dalle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni ordinate per il reato presupposto sono comunque utilizzabili anche per accertare la responsabilità dell’ente, ed anche se il procedimento relativo a quest’ultimo sia stato formalmente separato per vicende successive.

Invero, pure a voler sottolineare che altro è il reato presupposto ed altro è l’illecito amministrativo dipendente dal reato presupposto, è innegabile l’esistenza di una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dell’illecito amministrativo dipendente dal medesimo reato.

Questa conclusione, inoltre, non appare suscettibile di differenziazione nel caso in cui si procede separatamente per il reato presupposto e per l’illecito amministrativo da esso conseguente, posto che la “scissione” dei procedimenti non potrebbe essere certo causata dalla eterogeneità delle ipotesi di illecito penale.

Né, poi, l’utilizzabilità delle intercettazioni è preclusa dalla posteriorità dell’annotazione del procedimento nei confronti degli enti rispetto al compimento delle operazioni di captazione.

Costituisce principio assolutamente consolidato quello secondo cui l’omessa o ritardata iscrizione del nome dell’indagato nel registro previsto dall’art. 335 non determina alcuna invalidità delle indagini stesse, sicché la tardiva iscrizione può incidere sulla utilizzabilità delle indagini finali, ma non sulla utilizzabilità di quelle svolte prima della iscrizione.

Tale principio, stante l’assenza di disposizioni o ragioni sistematiche di segno contrario, deve ritenersi applicabile anche in materia di utilizzabilità delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni (Sez. 6, 41768/2017).

L’imputato non è legittimato a far valere la nullità del decreto di giudizio immediato emesso nei suoi confronti per omesso interrogatorio delle società citate in base al D. Lgs. 231/2001, trattandosi di una (pretesa) violazione del diritto di difesa spettante ad altro soggetto (appunto, le società chiamate a rispondere della propria responsabilità amministrativa).

In ogni caso, la violazione non sussiste, posto che l’art. 35 estende all’ente le disposizioni processuali relative all’imputato, ma solo “in quanto compatibili” e l’interrogatorio non rientra in tale compatibilità (Sez. 1, 40625/2014).In senso contrario: Solo la persona fisica che lo rappresenta può rendere interrogatorio per conto dell’ente (Sez. 6, 14575/2017).

Ed ancora: Con specifico riguardo ai requisiti di validità dell’atto con il quale viene contestato all’ente l’illecito amministrativo, individuato dall’art. 59 in uno degli atti elencati nell’art. 405, comma 1, CPP, risulta assente una disciplina speciale.

In presenza del primo dei presupposti, ossia l’assenza di una disciplina speciale, occorre dunque verificare se vi sia compatibilità tra il rito tipico della responsabilità degli enti e le norme del codice di procedura penale, con specifico riguardo alla contestazione formulata mediante richiesta di rinvio a giudizio.

L’ente ricorrente invoca, infatti, l’applicazione in suo favore della regola, stabilita dall’art. 416, comma 1, CPP, secondo la quale la richiesta di rinvio a giudizio è nulla se non sia preceduta dall’invito a presentarsi per rendere l’interrogatorio ai sensi dell’art. 375, comma 3, CPP qualora la persona sottoposta alle indagini abbia tempestivamente formulato la relativa istanza. Si chiede, in sostanza, che la previsione dell’art. 59 venga integrata da una norma prevista dal codice di rito a garanzia dell’esercizio di difesa della persona indagata.

Va considerato che il limite descritto in termini di «compatibilità» attiene alla struttura del procedimento, dovendosi ritenere espunti dal rito speciale quegli istituti incompatibili con l’assenza di misure cautelari personali coercitive e di controllo giurisdizionale in fase di archiviazione che connota la struttura di tale rito.

Conseguentemente, superano il vaglio di compatibilità quelle norme del codice di rito che regolino scansioni procedimentali ed attività processuali non estranee al rito speciale nella struttura delineata dal legislatore.

Sulla base di tale premessa, risulta evidente la compatibilità tra i presupposti di validità della richiesta di rinvio a giudizio disciplinati dall’art. 416, comma 1, CPP ed il rito speciale nei confronti dell’ente, trattandosi di regole che s’inseriscono in una scansione procedimentale espressamente richiamata dall’art. 59 e che riguardano la garanzia del diritto di difesa, ossia di un principio costituzionale sotteso alle disposizioni del codice di rito richiamate in chiave integratrice dall’art. 34.

D’altro canto, nel caso concreto lo stesso organo dell’accusa ha ritenuto applicabile la disciplina dell’art. 415-bis CPP comunicando all’ente l’avviso di conclusione delle indagini preliminari e, tuttavia, trascurando di convocare il rappresentante dell’ente per rendere l’interrogatorio.

Si deve considerare, inoltre, che a norma dell’art. 39, comma 1, l’ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo.

La necessaria alterità, imposta dalla legge, della persona dell’imputato e del legale rappresentante dell’ente al quale sia contestata la responsabilità amministrativa, doveroso riscontro al possibile conflitto d’interessi espresso anche dalle incompatibilità a testimoniare previste dagli artt. 39, comma 2, e 44, comma 1, conferma la correttezza della conclusione appena raggiunta.

L’eccezione, tempestivamente proposta sin dal primo grado di giudizio, avrebbe, dunque, imposto la dichiarazione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio dell’ente il cui legale rappresentante non era stato invitato a presentarsi a rendere l’interrogatorio ai sensi dell’art. 375, comma 3, CPP tanto più che, nel caso di specie, tale parte processuale, necessariamente distinta dall’imputato, non aveva già ricevuto, anche per atto equipollente, la contestazione degli addebiti (Sez. 4, 31641/2018).

La sentenza di non luogo a procedere pronunciata ai sensi dell’art.  67 del D. Lgs. 231/2001 e ss. mm. è assimilabile all’analoga sentenza disciplinata dall’art. 425 CPP ed è pertanto revocabile ai sensi dell’art. 434 CPP in forza del generale richiamo alle norme del codice di rito contenuto nell’art. 34. Questa natura esclude la possibilità della sua revisione ai sensi dell’art. 630 CPP (Sez. 5, 27963/2018).

L’ordinanza di rigetto della richiesta di applicazione della pena formulata ai sensi dell’art. 53, in forza del rinvio generale operato dall’art. 34 di tale testo normativo al codice di procedura penale, nei limiti della compatibilità, deve ritenersi impugnabile solo unitamente alla sentenza che definisce il giudizio, ai sensi dell’art. 586 CPP, e non già immediatamente in cassazione quale atto abnorme (Sez. 6, 14736/2018).

È legittima la richiesta di assistenza giudiziaria riguardante infrazioni disciplinate dal Regolamento CE 56172006 del 15.03.2006, dal Regolamento CE 85-3821 del 20.12.1985, dal Decreto 86-1130 del 17.10.1986, dal Decreto 2006-303 del 10.03.2006 e dagli articoli 331 I -1, 3315-5 e 3315-6 del Codice dei Trasporti, che trovano corrispondenza in Italia nell’articolo 174 CDS quanto al tempo massimo di guida continuativa di autoveicoli adibiti al trasporto di persone o cose ed alla responsabilità dell’impresa datrice di lavoro.

Tali infrazioni costituiscono effettivamente nell’ordinamento interno, un illecito amministrativo e non penale. Rileva, però, il principio di prevalenza delle convenzioni e, nel caso di specie, trova applicazione la Convenzione Europea di Assistenza Giudiziaria del 1959 che non prevede alcuna necessità della doppia incriminabilità; un tale requisito, eventualmente, può essere fissato dallo Stato che aderisce alla Convenzione.

L’Italia non ha fissato tale principio di doppia incriminabilità che, quindi, non è un limite alla collaborazione giudiziaria in tema di illeciti amministrativi. Inoltre lo stesso Regolamento CEE 561/2006, recepito con l’articolo 174 CDS, prevede espressamente, all’articolo 22, l’obbligo di assistenza reciproca fra Stati membri per la applicazione delle regole in questione.

Per di più, sulla base della normativa citata “L’assistenza giudiziaria è accordata anche: a) in procedimenti per fatti che, in base al diritto nazionale di una o di entrambe le Parti contraenti, sono punibili a titolo di infrazioni a regolamenti perseguite da autorità amministrative la cui decisione può dar luogo a ricorso davanti a una giurisdizione competente, in particolare, in materia penale” (Sez. 6, 14575/2017).

La sospensione del procedimento con messa alla prova non è applicabile all’ente nei procedimenti per responsabilità ai sensi del D. Lgs. 231/2001 (Tribunale di Milano, sez. 11, ordinanza del 27 marzo 2017).