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Art. 50 - Revoca e sostituzione delle misure cautelari

1. Le misure cautelari sono revocate anche d’ufficio quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dall’articolo 45 ovvero quando ricorrono le ipotesi previste dall’articolo 17.

2. Quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non appare piu proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere applicata in via definitiva, il giudice, su richiesta del pubblico ministero o dell’ente, sostituisce la misura con un’altra meno grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità meno gravose, anche stabilendo una minore durata.

Stralcio della relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. 231/2001

Per quanto attiene alla “vita” della misura, vengono in gioco le disposizioni contenute negli artt. 50 e 51.

La prima norma prevede i casi di revoca e sostituzione della cautela: come nei casi di applicazione delle misure coercitive personali, anche qui il fenomeno estintivo o attenuativo della misura è espressione degli stessi criteri che governano il momento introduttivo della cautela medesima.

Si è ritenuto, peraltro, opportuno distinguere tra la revoca tout court della cautela applicata e la sua mera attenuazione.

Nel primo caso, i cui presupposti risiedono nel venir meno, anche per fatti sopravvenuti, delle condizioni di applicabilità della cautela o della possibilità di applicazione delle sanzioni interdittive quando ricorrano i presupposti elencati nell’art. 16, si è riconosciuta al giudice la possibilità di revocare officiosamente il provvedimento, ferma restando, ovviamente, la facoltà delle parti di sollecitarne l’intervento in tal senso, anche mediante allegazione, appunto, di quei “fatti sopravvenuti” che non necessariamente devono essere conosciuti dall’organo giudicante.

Si è invece previsto che la meno drastica ipotesi di sostituzione della misura, che appare praticabile laddove vi sia una corrispondente attenuazione delle esigenze cautelari, ovvero ove la misura in atto si riveli sproporzionata rispetto all’entità del fatto o della sanzione che si ritiene possa essere applicata, il giudice debba procedere su richiesta di parte.”

 

Rassegna di giurisprudenza

In tema di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter CP), ai fini della revoca delle sanzioni interdittive disposte nei confronti dell’ente (art. 45), la messa a disposizione del profitto, conseguito illecitamente dall’ente, ai fini della confisca, deve avvenire mettendo a disposizione il denaro illecitamente incassato, non essendo consentita la messa a disposizione dell’equivalente del profitto stesso.

Il rispetto di tali condizioni deve essere assicurato entro la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (Sez. 6, 6248/2012).

Il sistema punitivo della responsabilità da reato degli enti assume, pena l’inefficacia, un carattere prettamente preventivo, volto a configurare sanzioni e misure cautelari per prevenire la commissione dei reati attraverso la strutturazione regolativa dell’organizzazione capace di controllarsi da sé stessa.

Ne consegue che le disposizioni funzionali alla regolarizzazione, attraverso schemi rigorosi, dell’organizzazione dell’ente tale da impedire la reiterazione dei reati, devono essere interpretate con il massimo rigore per poter perseguire la massima efficacia. Il che si traduce nella diretta consegna alle persone danneggiate delle somme costitutive del risarcimento del danno prodotto ovvero con modalità che garantiscano la presa materiale della somma risarcita su iniziativa del danneggiato, senza la necessità di una ulteriore collaborazione per la traditio dell’ente risarcente.

Con argomento a contrario, poi, può rilevarsi che mentre per il profitto funzionale alla confisca la disposizione di legge prescrive la “messa a disposizione” del danneggiato, per l’integrale risarcimento non impone la medesima modalità di condotta, ma rimarca che la sua prestazione sia efficace, come efficace deve essere l’attività tesa al suo adempimento.

Ciò del resto risulta pienamente coerente con quanto evidenziato nella relazione ministeriale al D. Lgs. 231/2001 ove si evidenzia che la disciplina predisposta per le sanzioni interdittive si lega – stante la sua natura special preventiva – con un modello sanzionatorio che ‘ancora la minaccia a presupposti applicativi particolarmente rigorosi e funzionali al conseguimento di utili risultati per la tutela dei beni tutelati, visto che si consente all’ente di attivarsi, attraverso condotte riparatorie, per evitare l’applicazione di queste sanzioni.

Da un lato, dunque, “la minaccia presuppone il compimento di reati di particolare gravità ovvero la reiterazione degli illeciti; dall’altro, si stagliano sanzioni positive che permettono di scongiurare l’applicazione delle sanzioni interdittive in presenza di comportamenti diretti a reintegrare l’offesa”.

Si profila, dunque, una politica sanzionatoria che non mira ad una punizione indiscriminata ed indefettibile, ma che, per contro, mira a privilegiare una dimensione che salvaguardi la prevenzione del rischio di commissione di reati in uno, con la necessaria, previa eliminazione delle conseguenze prodotte dall’illecito. In tale “rigoroso” ambito, la semplice costituzione di un trust non può, di per sé, essere considerata adempimento dell’obbligo risarcitorio previsto dalla lett. a) dell’art. 17, essendo tale strumento condizionato al passaggio in giudicato della sentenza di condanna nel giudizio penale.

Il legislatore, infatti, esige – quanto alla procedura di revoca della misura per il verificarsi delle ipotesi previste dall’art. 17 (procedura che è alternativa alla ricorrenza delle altre ipotesi di revoca sopravvenuta della misura cautelare; si veda al riguardo, Sez. 6, 18634/2014) – che l’ente anticipi il risarcimento del danno che potrebbe essere costretto a pagare all’esito del giudizio di merito.

Pur essendo rimesso all’ente e all’apprezzamento del giudice del merito la verifica del verificarsi di tale condizione, anche sotto il profilo della congruità dell’importo stimato in relazione alla natura e al numero delle contestazioni elevate e delle persone offese, non bisogna, tuttavia, confondere “la messa a disposizione” con l’effettiva richiesta per la condotta risarcitoria, come sopra delineata.

La procedura di cui all’art. 17 e, soprattutto, i benefici che ne derivano per l’ente (preclusione nel merito all’applicazione delle sanzioni interdittive) sono proprio legati al fatto che il risarcimento intervenga in una fase antecedente al merito (“prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado), dandosi così atto della piena resipiscenza dell’ente, tale da far meritare non solo la revoca della misura interdittiva che è stata cautelarmente disposta ma anche l’irrogazione, in caso di condanna, della sola sanzione pecuniaria.

Laddove, poi, vi siano incertezze sull’esatta determinazione della somma da risarcire, il risarcimento del danno è misura che, nella impossibilità di una determinazione ancorata a parametri rigidi, presuppone una condotta comunicativa con il danneggiato il quale potrebbe aderire all’offerta oppure rifiutarla allegando motivazioni non pretestuose ma oggettive e meritevoli di ogni seria considerazione (Sez. 2, 327/2014).

In proposito l’art. 17, lett. a) richiede, per non dar luogo o revocare le misure interdittive, non solo che si sia risarcito integralmente il danno, ma che anche si siano eliminate, le conseguenze dannose o pericolose del reato e comunque di essersi efficacemente adoperato in tal senso. Il che presuppone gioco forza una determinazione del danno e delle conseguenze non per iniziative unilaterali, ma in virtù di una collaborazione o comunque contatto tra parti contrapposte, tale da doversi ritenere efficace l’essersi adoperato come preteso dalla disposizione richiamata.

E non può certo ritenersi condotta idonea ad assolvere l’onere di tenere una condotta “comunicativa” con i danneggiati la spedizione di una missiva in cui si dava atto dell’avvenuta costituzione di un trust, senza che a ciò consegua una seria interlocuzione con i danneggiati sulla determinazione del danno (Sez. 2, 11209/2016).

Il procedimento relativo all’applicazione di misure cautelari a carico degli enti collettivi si fonda sulla previsione di un contraddittorio “anticipato” delle parti, poiché l’art. 47, comma 2 dispone che “se la richiesta di applicazione della misura cautelare è presentata fuori udienza, il giudice fissa la data dell’udienza e ne fa dare avviso al pubblico ministero, all’ente e ai difensori.

L’ente e i difensori sono altresì avvisati che, presso la cancelleria del giudice, possono esaminare la richiesta dal pubblico ministero e gli elementi sui quali la stessa si fonda”.

L’adozione della misura, dunque, non è rimessa ad una decisione de plano, pronunciata dal giudice inaudita altera parte, ma si fonda sulla valorizzazione del contributo dialettico offerto dalle parti quale strumento più efficace per porre il giudice nella condizione di adottare una misura interdittiva, che può avere conseguenze particolarmente invasive sulla vita e sulle modalità di funzionamento della persona giuridica.

Si richiede, in tal modo, un vaglio giurisdizionale penetrante sulle ragioni dell’intervento cautelare a carico dell’ente, la cui oggettiva praticabilità può richiedere un’approfondita analisi in ordine ad una serie di profili rilevanti, che investono, ad es., l’analisi dell’assetto organizzativo, la valutazione dell’adeguatezza del programma di attività riparatorie, ovvero la verifica della necessità di consentire la prosecuzione dell’attività dell’ente e disporre, in caso di accoglimento della richiesta, il commissariamento ai sensi dell’art. 45, comma 3, del citato decreto legislativo.

Entro tale disegno normativo trova la sua razionale collocazione l’istanza – che la società può avanzare, per l’ipotesi in cui l’interdizione sia disposta, ai sensi dell’art. 49 – di sospensione della misura cautelare per porre in essere le attività riparatorie cui viene condizionata l’esclusione delle sanzioni interdittive a norma dell’art. 17.

Se il giudice, infatti, ritiene di accogliere la richiesta dell’ente, determina una somma di denaro a titolo di cauzione e dispone la sospensione della misura, indicando il termine per la realizzazione delle condotte riparatorie di cui all’art. 17.

La finalità dell’istituto è quella di incentivare il ravvedimento post factum dell’ente secondo una logica premiale che mira a privilegiare la compensazione dell’offesa rispetto alla mera punizione dell’illecito: se la società adempie tempestivamente ed in modo corretto, il giudice revoca la misura cautelare e ordina la restituzione della somma depositata o la cancellazione dell’ipoteca, mentre in caso di mancata, incompleta o inefficace esecuzione delle attività nel termine fissato, la misura cautelare viene ripristinata e la somma depositata, o per la quale è stata data garanzia, viene devoluta alla cassa delle ammende (art. 49, comma 3).

Se si realizzano le condizioni previste dall’art. 17 interviene la fattispecie estintiva della misura, sicché il giudice ne dispone la revoca insieme alla restituzione della cauzione ovvero la cancellazione dell’ipoteca, mentre la fideiussione prestata si estingue.

Nel momento in cui il giudice prende cognizione della vicenda per valutare la condotta dell’ente alla luce dei parametri dettati dall’art. 49, può disporre la revoca della misura cautelare anche a prescindere dalla valutazione positiva di idoneità e tempestività delle attività riparatorie, ogni qual volta ritenga siano venute meno, anche alla luce di fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità della cautela.

L’art. 50, comma 1 consente, infatti, un’immediata decisione liberatoria, anche d’ufficio, nelle ipotesi in cui il quadro indiziario della responsabilità sia del tutto mancante, anche per fatti sopravvenuti, ovvero quando non risulti più attuale l’originaria individuazione delle esigenze cautelari, o, ancora, al verificarsi delle condizioni stabilite dall’art. 17.

L’art. 49, comma 4, ripropone, a sua volta, all’interno del procedimento incidentale finalizzato alla sospensione della misura cautelare su richiesta dell’ente, la medesima regola fissata dalla norma generale dell’art. 50, comma 1, secondo cui s’impone la revoca della misura allorché intervengano gli adempimenti di cui al citato art. 17, ossia il risarcimento del danno, la messa a disposizione del profitto, l’adozione e l’efficace attuazione dei cd. compliance programs.

La revoca, pertanto, può costituire il risultato di una valutazione ex ante, nel senso che il giudice ritenga insussistenti ab origine i presupposti legittimanti il provvedimento cautelare, ovvero ex post, nel caso in cui questi ultimi, ancorché sussistenti al momento della disposizione della cautela, siano successivamente venuti meno: interpretazione, questa, esplicitamente desumibile dal disposto normativo, ove si specifica che la mancanza delle condizioni applicative possa derivare anche da fatti sopravvenuti. In tal senso, ad es., assumono rilievo una eventuale evoluzione del quadro probatorio in senso favorevole all’indagato, oppure un miglioramento dello stato organizzativo aziendale, suscettibile di escludere la permanenza del periculum.

Quest’ultimo profilo risulta solo in parte assorbito dalla seconda condizione legittimante un provvedimento di revoca, ovvero dall’adempimento delle condotte di cui all’art. 17: nonostante lo stretto collegamento con l’art. 49, infatti, la revoca disciplinata nell’art. 50, comma 1, rappresenta un istituto a sé, operante anche in conseguenza dell’adempimento delle condotte riparatorie prescritte dall’art. 17, avuto riguardo al fatto che le stesse possono maturare durante tutto il periodo di applicazione della misura, anche a prescindere dalla richiesta di sospensione formulata ai sensi dell’art. 49, comma 1. 

Si pone, dunque, la questione del rapporto di concorrenza o di alternatività  fra le ipotesi di revoca delle misure cautelari applicate agli enti collettivi cui fa riferimento l’art. 50: da un lato, la revoca per mancanza, anche sopravvenuta, delle condizioni di applicabilità di cui all’art. 45, dall’altro lato la revoca disposta in presenza delle condizioni disciplinate dal combinato disposto degli artt. 17 e 49 (sospensione delle misure cautelari su richiesta dell’ente di realizzare gli adempimenti di tipo riparatorio cui può essere condizionata l’esclusione delle sanzioni interdittive a norma dell’art. 17, con la successiva revoca della misura cautelare, in presenza dell’accertata verificazione della condizione sospensiva).

Non pertinente, in primo luogo, deve ritenersi il richiamo ad un precedente giurisprudenziale di questa Corte (Sez. 6, 32627/2006), che ha ravvisato l’interesse dell’ente ad impugnare l’ordinanza con la quale era stata applicata nei suoi confronti la misura cautelare interdittiva di cui all’art. 45, ancorché la stessa fosse stata revocata nelle more del procedimento di impugnazione.

Con tale pronuncia, infatti, questa Corte ha affermato che non è consentito al giudice, nel revocare la misura cautelare interdittiva, imporre all’ente l’adozione coattiva di MOG. Dall’annullamento dell’ordinanza, invero, poteva derivare, quale sua diretta conseguenza, l’immediata inefficacia degli adempimenti coattivamente imposti con il provvedimento di revoca.

Nella specifica evenienza ivi esaminata, infatti, il giudice non si era limitato a revocare la misura cautelare interdittiva, ma aveva “ordinato” alla società di adottare i MOG predisposti dal commissario giudiziario e di risarcire il danno arrecato alle pubbliche amministrazioni appaltanti, con la restituzione del profitto illecito, dando incarico al commissario di accertare l’avvenuta ed effettiva adozione dei MOG.

Nel caso ora menzionato, dunque, il giudice cautelare aveva sostanzialmente imposto l’adozione di un MOG alla società, secondo una procedura che, come evidenziato dalla Corte, non trova appiglio nella normativa in materia di responsabilità degli enti collettivi, ove non si prevede alcuna forma di imposizione coattiva dei MOG, la cui adozione, invece, è sempre spontanea, in quanto è proprio la scelta di dotarsi di uno strumento organizzativo in grado di eliminare o ridurre il rischio di commissione di illeciti da parte della società a determinare, nella fase cautelare, la sospensione o la non applicazione delle misure interdittive (ex art. 49).

Da tale precedente, pertanto, non può logicamente inferirsi la conseguenza che il ricorrente prospetta riguardo alla permanenza dell’interesse all’impugnazione qualora la misura cautelare interdittiva sia stata revocata nelle more del relativo procedimento, così imponendosi la forma del contraddittorio camerale partecipato, ostativa all’operatività della disposizione di cui all’art. 127, comma 9, CPP. Dal tenore letterale dell’art. 50 sembra evincersi, di contro, che il legislatore ha inteso porre in alternativa, quali fattori di revoca della misura cautelare applicata, l’effettuazione degli adempimenti in questione e la mancanza sopravvenuta delle condizioni indicate dal precedente art. 45, tra le quali è compreso anche il rischio di recidiva.

Muovendo da tale opzione ermeneutica (Sez. 6, 18635/2015) questa Corte ha conseguentemente affermato il principio secondo cui la revoca della misura interdittiva può essere disposta, nel caso di sospensione della misura cautelare concessa ai sensi dell’art. 49, anche qualora il rischio di recidiva cessi per fattori sopravvenuti e diversi dall’attuazione delle misure riparatorie volte all’eliminazione delle carenze organizzative.

L’alternatività delle ipotesi di revoca previste dall’art. 50 potrebbe indurre a ritenere, unitamente al rilievo dell’effetto immediato della vicenda estintiva della cautela, che il provvedimento debba adottarsi de plano, risultando difficile configurare, prima facie, un contraddittorio orale anticipato alla stregua di quanto previsto dall’art. 47 in sede di applicazione della misura.

È pur vero, tuttavia, che il vaglio delibativo in ordine alla ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 17 potrebbe esigere una puntuale verifica circa l’effettivo adempimento delle condotte riparatorie da parte dell’ente e che il giudice, attraverso il richiamo alla possibilità prevista nell’ordinamento processuale dall’art. 299, comma 4-ter, CPP – ove tale norma sia ritenuta compatibile con la disciplina degli enti collettivi ai sensi dell’art. 34 – potrebbe disporre tutti gli accertamenti necessari al fine di valutare il rispetto delle condizioni sottostanti alla realizzazione delle condotte di cui all’art. 17.

Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi, infatti, che il procedimento di applicazione delle misure cautelari a carico degli enti collettivi mostra connotati tipicamente “dialogici” e si fonda sulla esigenza di un contraddittorio anticipato rispetto all’adozione della cautela, senza alcuna manifestazione di rinuncia preventiva dell’ente alla contestazione dei presupposti di legittimità della misura nel caso in cui venga avanzata la richiesta di realizzazione degli adempimenti riparatori al cui perfezionamento la legge condiziona l’esclusione delle sanzioni interdittive.

In tal senso, dunque, potrebbe ritenersi la permanenza dell’interesse ad impugnare, al fine di ottenere una decisione sulla legittimità della misura interdittiva anche in presenza della sua intervenuta revoca, allorché ad una eventuale pronuncia in sede di gravame possa ricollegarsi, come si è già osservato, una situazione di vantaggio, ovvero una concreta ed attuale incidenza sulla posizione complessiva del ricorrente, con effetti significativi, ad es., sul mantenimento o meno di cauzioni provvisorie prestate a mezzo di fideiussioni per la partecipazione a gare d’appalto, sulla eventuale restituzione di cospicue somme di denaro già versate per ottenere la sospensione della misura interdittiva, ovvero per dimostrare l’insussistenza del profitto, o, infine, sulla rimozione di tutte le possibili conseguenze dannose derivanti per la società dall’applicazione della cautela.

Il sopravvenire della fattispecie estintiva della misura cautelare potrebbe richiedere inoltre, quale causa non originaria di inammissibilità del ricorso, lo svolgimento di una puntuale opera di verifica in ordine alla realizzazione delle condizioni previste dalla connessa disposizione di cui all’art. 17, sì da imporre un approfondito accertamento sulla persistenza o meno dell’interesse ad impugnare, che solo un contraddittorio camerale in forma partecipata consentirebbe di realizzare nel pieno rispetto dei diritti e delle garanzie della difesa.

Sulla base delle su esposte considerazioni s’impone, dunque, in ragione del contrasto giurisprudenziale formatosi riguardo alle forme procedimentali prodromiche alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, la rimessione degli atti alle Sezioni Unite di questa Corte ai sensi dell’art. 618 CPP, in relazione al seguente quesito: «se l’appello avverso un’ordinanza applicativa di una misura cautelare  nella specie, una misura interdittiva disposta a carico di una società  possa essere dichiarato inammissibile “anche senza formalità”, ex art. 127, comma 9, CPP, dal tribunale che ritenga la sopravvenuta mancanza di interesse a seguito della revoca della misura stessa» (ordinanza di rimessione alle SU emessa da Sez. 6, 26032/2018).

Il conflitto è stato di recente risolto dalle Sezioni unite le quali hanno osservato che l’appello avverso una misura interdittiva, che nelle more sia stata revocata a seguito delle condotte riparatorie ex art. 17 poste in essere dalla società indagata, non può essere dichiarato inammissibile de plano, secondo la procedura prevista dall’art. 127, comma 9, CPP, ma, considerando che la revoca può implicare valutazioni di ordine discrezionale, deve essere deciso nell’udienza camerale e nel contraddittorio tra le parti, previamente avvisate.

Difatti, la revoca della misura interdittiva disposta a seguito delle condotte riparatorie poste in essere ex art. 17, intervenuta nelle more dell’appello cautelare proposto nell’interesse della società indagata, non determina autonomamente la sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione (SU, 51515/2018).

È illegittimo il provvedimento di revoca delle misure cautelari interdittive adottato con riferimento all’attuazione di condotte riparatorie, qualora le medesime non abbiano contestualmente avuto ad oggetto tanto il risarcimento integrale del danno e l’eliminazione delle conseguenze dannose del reato, che il superamento delle carenze organizzative mediante l’adozione e attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire la commissione di altri reati della stessa specie e la messa a disposizione a fini di confisca del profitto dello stesso reato. (Sez. 2, 40749/2009). 

Affinché possa ritenersi integrato il requisito del risarcimento integrale del danno e dell’eliminazione delle conseguenze dannose del reato di cui all’ art. 17 lett. a), ai fini della revoca delle misure cautelari interdittive eventualmente disposte, è necessaria la diretta consegna alla persona offesa della somma costitutiva del risarcimento del danno prodotto o comunque l’attuazione di condotte che garantiscano la presa materiale della somma da parte del danneggiato senza la necessità di un’ulteriore collaborazione dell’ente ai fini della “traditio” (nella fattispecie non è stata ritenuta idonea a tal fine la previsione nel bilancio della società di un fondo di accantonamento costitutivo di una riserva indisponibile certificata dal collegio sindacale e comunicata alle persone offese) (Sez. 2, 326/2014).

Il risarcimento del danno in favore della pubblica amministrazione danneggiata, anche a mezzo di transazione, non soddisfa, se non in parte, le condizioni poste dall’art. 17: resta aperto infatti il problema del danno subito dal mercato e dagli altri aspiranti forniti che hanno visto violate le regole della concorrenza, nonché del mancato adeguamento al modello organizzativo idoneo ad evitare la commissione di reati della stessa indole (Tribunale di Milano, 27 aprile 2004).