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Art. 53 - Sequestro preventivo

1. Il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell’articolo 19. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 321, commi 3, 3-bis e 3-ter, 322, 322-bis e 323 del codice di procedura penale, in quanto applicabili.

1-bis. Ove il sequestro, eseguito ai fini della confisca per equivalente prevista dal comma 2 dell’articolo 19, abbia ad oggetto società, aziende ovvero beni, ivi compresi i titoli, nonché quote azionarie o liquidità anche se in deposito, il custode amministratore giudiziario ne consente l’utilizzo e la gestione agli organi societari esclusivamente al fine di garantire la continuità e lo sviluppo aziendali, esercitando i poteri di vigilanza e riferendone all’autorità giudiziaria. In caso di violazione della predetta finalità l’autorità giudiziaria adotta i provvedimenti conseguenti e può nominare un amministratore nell’esercizio dei poteri di azionista.

Con la nomina si intendono eseguiti gli adempimenti di cui all’articolo 104 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. In caso di sequestro in danno di società che gestiscono stabilimenti di interesse strategico nazionale e di loro controllate, si applicano le disposizioni di cui al decreto-legge 4 giugno 2013, n. 61, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2013, n. 89. [55]

[55] Comma aggiunto dall’art. 12, comma 5-bis, D.L. 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 ottobre 2013, n. 125.

Stralcio della relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. 231/2001

Discorso a sé stante meritano, infine, le previsioni di cui agli artt. 53 e 54. Queste introducono due ipotesi di cautele autonome rispetto all’apparato di misure interdittive irrogabile alle persone giuridiche.

Per quanto non espressamente previsto dalla legge delega, si è ravvisata la necessità di disciplinare le ipotesi di sequestro preventivo a scopo di confisca e del sequestro conservativo, posto che la loro operatività in ragione del generale rinvio alle regole processuali ordinariamente vigenti -questo espressamente previsto dalla delega non si sarebbe potuta mettere seriamente in discussione in ragione di una incompatibilità con le sanzioni interdittive irrogabili nei confronti delle persone giuridiche, in realtà non ravvisabile se non in relazione al sequestro preventivo in senso proprio, che pertanto è da ritenersi ipotesi non applicabile nella specie.

Da qui la disciplina sopra richiamata che consente il sequestro preventivo in funzione di confisca con conseguente richiamo di parte della disciplina codicistica, nonché l’altra previsione, che appunto rende possibile il sequestro conservativo -anche qui con richiamo della disciplina codicistica in quanto applicabile- dei beni o delle somme dovute o che garantiscano il pagamento della sanzione pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario.”

 

Rassegna di giurisprudenza

Requisiti necessari per disporre e mantenere il sequestro preventivo

Il profitto del reato deve corrispondere a un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica. Non costituisce profitto del reato un qualsivoglia vantaggio che, pur derivante dal reato, tuttavia sia futuro, sperato, eventuale, solo possibile, immateriale o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali.

Il profitto non coincide con una mera aspettativa di fatto, con una mera “chance”, salvo che questa, in quanto fondata su circostanze specifiche, non presenti caratteri di concretezza ed effettività tale da costituire essa stessa una entità patrimoniale a sé stante, autonoma, giuridicamente ed economicamente suscettibile di valutazione in relazione alla sua proiezione sulla sfera patrimoniale del soggetto.

La mera possibilità per la società di partecipare in futuro a gare di appalto o di essere inserita negli elenchi dei soggetti contrattisti non costituisce un vantaggio concreto valutabile in relazione alla sfera patrimoniale del soggetto e nemmeno una “chance” autonomamente qualificabile in termini di entità patrimoniale automa e quindi di profitto (Sez. 4, 1754/2018).

Nella definizione ai fini del sequestro e della confisca del profitto del reato deve prescindersi in generale da parametri di tipo prettamente aziendalistico quali quelli del profitto lordo o profitto netto tanto più se l’impresa è totalmente votata all’illecito (Sez. 3. 39373/2015).

L’istituto della confisca disciplinato nell’art. 19 trova un suo fondamentale presupposto nella sentenza di condanna per uno dei reati ivi tassativamente previsti, dalla cui commissione sia derivata l’acquisizione di un profitto illecito per la società, sicché, per quanto riguarda il rispetto dei principi di legalità e di irretroattività ribaditi dall’art. 2, occorre fare comunque riferimento alla data di realizzazione delle condotte costituenti reato e non al momento di percezione del profitto stesso.

Il principio di legalità stabilito dall’art. 2 subordina l’applicazione delle misure sanzionatorie ad una previsione legislativa espressa, sia in ordine all’illecito, sia in relazione al tipo di sanzione, precisando che deve essere entrata in vigore prima della commissione del fatto.

Ne discende che è la commissione del fatto a dover essere presa in considerazione al fine di accertare l’applicabilità della sanzione, e per “fatto” deve appunto intendersi ciò che costituisce il reato.

In altri termini, è il momento consumativo del reato che rileva ai fini dell’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 9, nel senso che, in base alla connessa previsione di cui all’art. 2, l’intera disciplina sanzionatoria del decreto non trova applicazione in relazione a “fatti” commessi prima della sua entrata in vigore. Il momento di acquisizione del profitto, invece, è del tutto irrilevante ai fini ora considerati, in quanto esso costituisce solo l’oggetto della sanzione-confisca, che incontra il suo necessario presupposto nell’esistenza, appunto, di un reato che risulti commesso nella vigenza del su indicato Decreto 231.

Anche con riferimento all’ipotesi del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente di cui all’art. 19, è sempre e solo l’accertata consumazione del reato, dunque, a determinare la possibilità di acquisizione coattiva del profitto illecitamente conseguito.

Alla stregua di tali considerazioni risulta evidente, in ragione della sua natura tipicamente sanzionatoria, che l’applicazione del vincolo cautelare reale e della successiva misura ablativa non può essere fatta retroagire a condotte realizzate anteriormente alla rilevata esistenza dei presupposti e delle condizioni per la stessa configurabilità della responsabilità amministrativa dell’ente, assumendo rilievo, al riguardo, solo le condotte temporalmente coperte dalla vigenza, nel catalogo dei reati-presupposto, della fattispecie associativa e degli illeciti in materia ambientale.  (Sez. 6, 3635/2014).

Sulla base di quanto previsto dall’art. 19, comma 2, la confisca per equivalente, essendo finalizzata a colpire beni non legati da un nesso pertinenziale con il reato, potrebbe avere ad oggetto, in ipotesi, anche dei vantaggi economici immateriali, fra i quali ben possono farsi rientrare, a titolo esemplificativo, quelli prodotti da economie di costi ovvero da mancati esborsi, ossia da comportamenti che determinano non un miglioramento della situazione patrimoniale dell’ente collettivo ritenuto responsabile di un illecito dipendente da reato, ma un suo mancato decremento.

Al riguardo, tuttavia, è necessario considerare le specifiche implicazioni della linea interpretativa tracciata dalle Sezioni unite con la pronuncia 26654/2008, laddove si è osservato che la nozione di risparmio di spesa presuppone “un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere, vale a dire un risultato economico positivo”, concretamente determinato dalla contestata condotta delittuosa (che nel caso ivi esaminato, peraltro, riguardava la diversa ipotesi di truffa).

Ne discende che quella nozione non può essere intesa in termini assoluti, quale profitto cui non corrispondano beni materialmente entrati nella sfera di titolarità del responsabile, ossia entro una prospettiva limitata all’apprezzamento di una diminuzione o semplicemente del mancato aumento del passivo, ma deve necessariamente intendersi in relazione ad un “ricavo introitato” dal quale non siano stati detratti i costi che si sarebbero dovuti sostenere, ossia nel senso di una non diminuzione dell’attivo.

Occorre, pertanto, un profitto materialmente conseguito, ma di entità superiore a quello che sarebbe stato ottenuto senza omettere l’erogazione delle spese dovute.

Né è possibile, del resto, colpire più volte, attraverso un’ingiustificata duplicazione di oneri a carico dell’ente, le medesime somme di denaro, una volta considerate in termini positivi, ossia come accrescimento patrimoniale, ed un’altra volta in termini negativi, come risparmio di spese, potendo essere sottoposta ad espropriazione solo l’eccedenza tra l’incremento patrimoniale effettivamente maturato e quello che sarebbe stato conseguito senza l’indebito risparmio di spese.

Vale osservare, al riguardo, che il legislatore non ha inteso configurare lo strumento ablativo avente ad oggetto “somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato” quale istituto sanzionatorio autonomo, sganciato da ogni collegamento con la confisca diretta di cui al primo comma della disposizione su richiamata, ossia dalla preventiva possibilità di individuare un vantaggio materialmente affluito nel patrimonio dell’ente collettivo quale profitto dell’attività criminosa allo stesso riferibile, ma ne ha sottolineato l’incidenza nei confronti di utilità di valore equipollente al compendio economico originato in misura tangibile dalla commissione del reato, comportando, in tal modo, una effettiva, e non ipotetica, modificazione del patrimonio del soggetto attivo.

L’istituto della confisca per equivalente, infatti, è azionabile solo nelle ipotesi in cui sia impossibile procedere al sequestro o alla confisca cd. di proprietà, come la stessa Relazione illustrativa del D. Lgs. n. 231/01 esplicitamente conferma, allorquando pone in evidenza che siffatto strumento ablativo mira ad evitare che “l’ente riesca comunque a godere illegittimamente dei proventi del reato ormai indisponibili per un’apprensione con le forme della confisca ordinaria”.

Ne discende, ancora, che ai fini della configurabilità della nozione di profitto quale risparmio di spesa conseguito dall’ente si rende necessario individuare la presenza di un risultato economico positivo, determinato in concreto dalla realizzazione delle contestate condotte di reato: evenienza, questa, non affiorata, né in alcun modo riscontrabile nel caso in esame, dove l’ipotizzato danno ambientale cagionato da quelle condotte non può certo ritenersi equivalente ad un incremento patrimoniale ottenuto dalle società ricorrenti quale diretta ed immediata conseguenza dei reati presupposto.

È il rispetto dello stesso principio di tassatività delle sanzioni (ex artt. 2 e 9) ad escludere, in assenza di un introito effettivo, la possibilità di assoggettare allo strumento della confisca per equivalente il valore di costi illegittimamente non sostenuti dall’ente collettivo per effetto della mancata adozione di misure preventive espressamente prescritte dalla legge negli specifici settori di riferimento (Sez. 6, 3635/2014).

È consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica.

Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio.

Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato.

La impossibilità del sequestro del profitto del reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato (SU, 10561/2014).

Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto anche quando l’impossibilità del reperimento dei beni, costituenti il profitto del reato, sia transitoria e reversibile, purché sussistente al momento della richiesta e dell’adozione della misura, non essendo necessaria la loro preventiva ricerca generalizzata (SU, 10561/2014).

Il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, anche se poi l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel “quantum” l’ammontare complessivo dello stesso profitto (fattispecie in cui è stato ritenuto legittimamente disposto il sequestro dell’intero profitto del delitto di riciclaggio conseguito da due società di cui la ricorrente era titolare di una partecipazione di minoranza, ma amministratrice di fatto) (Sez. 6, 17713/2014).

Qualora non sia possibile il sequestro di danaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica), è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti dell’organo della persona giuridica (Sez. 3, 15465/2015).

In tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, per il sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca, eventualmente anche per equivalente, e quindi, secondo il disposto dell’art. 19, dei beni che costituiscono prezzo e profitto del reato, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il “periculum” richiesto per il sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma 1, CPP, essendo sufficiente accertarne la confiscabilità una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato (Sez. 2, 41435/2014).

È legittimo il mantenimento del sequestro preventivo finalizzato alla confisca di beni di una società nei cui confronti pende un procedimento per responsabilità amministrativa nascente da reato anche quando sopravviene a carico dell’ente una procedura concorsuale, poiché tale vicenda giuridica non sottrae al giudice penale il potere di valutare, all’esito del procedimento, se disporre la confisca, e, in caso positivo, con quale estensione e limiti (Sez. 2, 41354/2015).

 

Beni aggredibili dal sequestro preventivo

In tema di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente prevista dagli artt. 1, comma 143, della L. 244/2007 e 322-ter CP non può essere disposto sui beni dell’ente (attesa l’autonomia patrimoniale e giuridica di questa, peraltro non imputabile  anche solo per responsabilità amministrativa ex D. Lgs. 231/2001  con riguardo ai reati tributari), ad eccezione del caso in cui questo sia privo di autonomia e rappresenti soltanto uno schermo attraverso il quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni (Sez. 3, 54219/2016).

Le Sezioni unite hanno affermato che è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l’ente una persona estranea al detto reato (SU, 10561/2014).

Le stesse Sezioni unite hanno successivamente precisato, confermando il precedente orientamento, che, qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (SU, 31617/2015).

Ne consegue che, quando sono sottoposte a sequestro somme di denaro per asseriti fatti di reato commessi dal legale rappresentante dell’ente, il vincolo cautelare deve ritenersi adottato nei confronti della società non attraverso l’istituto del sequestro per equivalente, vietato dal D. Lgs. 231/2001 nei confronti delle persone giuridiche, ma attraverso il sequestro diretto del profitto del reato identificabile con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito che invece è consentito in via generale e non vietato dal D. Lgs. 231/2001 nei confronti delle persone giuridiche (Sez. 3, 15922/2016).

Per la funzione strumentale del sequestro preventivo e per i principi generali del diritto processuale, con il provvedimento cautelare non è possibile ottenere più di quello che potrebbe essere conseguito con il provvedimento definitivo, in quanto uno degli aspetti che il giudice deve valutare ai fini dell’emissione della misura cautelare è costituito proprio dalla corrispondenza tra il valore dei beni oggetto della futura ablazione e l’entità del profitto o del prezzo del reato (Sez. 6, 28264/2013; Sez. 2,  47066/2013).

In tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto o del prezzo del reato, il giudice deve pertanto valutare l’equivalenza tra il valore dei beni e l’entità del profitto, non essendovi ragioni per cui durante la fase cautelare possa giustificarsi un sequestro avente ad oggetto beni per un valore eccedente il “quantum” di profitto o prezzo del reato risultante dai dati disponibili al momento di applicazione della misura (Sez. 2, 248/2015) (precedenti richiamati da Sez. 2, 49956/2015).

Se è vero che è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l’ente una persona estranea al detto reato, è tuttavia altrettanto vero che, al fine di poter disporre la confisca diretta del profitto nei confronti della persona giuridica è pur sempre necessario che risulti la disponibilità nelle casse societarie di denaro da aggredire, non sussistendo un obbligo per la pubblica accusa di dover provvedere alla preventiva ricerca di liquidità o cespiti anche nel caso in cui risulti “ex actis” l’incapienza del patrimonio dell’ente (fattispecie in cui la società di cui l’indagato era amministratore è stata dichiarata fallita, sicché, non potendo disporsi il sequestro per equivalente ex art. 19 nei confronti della fallita ostandovi l’assenza dei delitti tributari nella categoria dei reati presupposto, il sequestro diretto nei confronti della persona giuridica non poteva essere disposto, in quanto dagli atti emergeva lo stato di decozione conclamato dalla dichiarazione di fallimento (Sez. 3, 6205/2015).

Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto corrispondente all’imposta evasa ben può essere applicato anche ai beni acquistati dall’indagato in epoca antecedente all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 143, L. 244/2007 (che ha esteso tale misura ai reati tributari) in quanto il principio di irretroattività attiene solo al momento di commissione della condotta, e non anche al tempo di acquisizione dei beni oggetto del provvedimento (Sez. 5, 25490/2014).

In tema di responsabilità da reato degli enti, il decreto di sequestro preventivo per equivalente del profitto del reato presupposto non deve contenere l’indicazione specifica dei beni che devono essere sottoposti al vincolo, potendo procedere alla loro individuazione anche la PG in sede di esecuzione del provvedimento, ma deve indicare la somma sino a concorrenza della quale il sequestro deve essere eseguito (Sez.  2, 35813/2013).

 

 

Il D. Lgs. 231/2001 non include tra i reati per i quali è prevista la responsabilità patrimoniale delle società o enti le violazioni tributarie, con la conseguenza che la misura del sequestro non è applicabile ai beni delle società a meno che la struttura societaria non sia stata esclusivamente preordinata alla commissione di detti reati (Sez. 3, 36927/2013).

 

Rapporti con il sequestro preventivo ex art. 321 CPP

Non appare corretta una automatica trasposizione del regime dei presupposti legittimanti il sequestro preventivo previsto dall’art. 321 CPP, in quanto nel caso dell’art. 53 il sequestro è direttamente funzionale ad anticipare in via cautelare, la confisca di cui all’art. 19, che è sanzione principale, obbligatoria e autonoma (così SU, 26554/2008) e che come tale si differenzia non solo dalle altre ipotesi di confisca disciplinate dal codice penale e dalle leggi speciali, ma anche dalle altre tipologie di confisca cui si riferisce lo stesso D. Lgs. 231/2001 (ad esempio, negli artt. 6 comma 5 e 15 comma 4).

Di conseguenza, il dibattito (e le conclusioni) sui presupposti applicativi richiesti per il sequestro preventivo di cui ai commi 1 e 2, 321 CPP, e, in particolare, sul “fumus boni iuris”, «non può essere integralmente replicato con riferimento al sequestro preventivo previsto dall’art. 53».

Pertanto, proprio perché il sequestro di cui all’art. 53 «è prodromico ad una sanzione principale, che viene applicata solo a seguito dell’accertamento della responsabilità dell’ente, al pari delle altre sanzioni previste dall’art. 9», è necessaria «una più approfondita valutazione del presupposto del “fumus commissi delicti».

Quindi, in conclusione, «presupposto per il sequestro preventivo di cui all’art. 53, è un fumus delicti “allargato”, che finisce per coincidere sostanzialmente con il presupposto dei gravi indizi di responsabilità dell’ente, al pari di quanto accade per l’emanazione delle misure cautelari interdittive.

Sicché i gravi indizi coincideranno con quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, anche indiretti, che sebbene non valgono di per sé a dimostrare oltre ogni dubbio l’attribuibilità dell’illecito all’ente con la certezza propria del giudizio di cognizione, tuttavia globalmente apprezzati nella loro consistenza e nella loro concatenazione logica, consentono di fondare, allo stato, una qualificata probabilità di colpevolezza.

L’apprezzamento dei gravi indizi deve portare il giudice a ritenere l’esistenza di una ragionevole e consistente probabilità di responsabilità, in un procedimento che avvicina la prognosi sempre più ad un giudizio sulla colpevolezza, sebbene presuntivo in quanto condotto allo stato degli atti, ma riferito alla complessa fattispecie di illecito amministrativo attribuita all’ente indagato (34505/2012).

In senso contrario: in tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, per il sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca, eventualmente anche per equivalente, e quindi, secondo il disposto dell’art. 19, dei beni che costituiscono prezzo e profitto del reato, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il “periculum” richiesto per il sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma 1, CPP essendo sufficiente accertarne la confiscabilità una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato (Sez. 2, 34293/2018).

Ed ancora: in tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, è ammissibile il sequestro impeditivo di cui al comma 1 dell’art. 321 CPP, non essendovi totale sovrapposizione e, quindi, alcuna incompatibilità di natura logica-giuridica fra il suddetto sequestro e le misure interdittive (Sez. 2, 34293/2018).

 

Legittimazione alla richiesta di riesame

L’ente è chiamato a rispondere per un fatto proprio che ha per presupposto il reato compiuto dalla persona fisica ma è che è “attribuito” alla persona giuridica secondo criteri di imputazione oggettivi e soggettivi propri. Il corollario che ne deriva è che la persona fisica autrice del reato presupposto è un soggetto terzo rispetto al sequestro preventivo disposto, ai sensi del D. Lgs. 231/2001, esclusivamente nei confronti della persona giuridica; essa non è coindagata o coimputata per lo stesso illecito, non è la persona alla quale le cose sono state sequestrate, dovendo identificarsi questa nella persona giuridica, non è, almeno in astratto, la persona che avrebbe diritto alla restituzione di quanto in sequestro, essendo i beni appartenenti all’ente.

Dunque, la persona fisica autrice del reato presupposto, ai sensi degli artt. 53 e 322 CPP, non è legittimata a proporre riesame avverso il provvedimento di sequestro preventivo disposto esclusivamente nei confronti della persona giuridica, ai sensi del D. Lgs. 231/2001 (inquadramento sistematico dovuto a Sez. 6, 33044/2018).

In tema di responsabilità da reato degli enti, il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca dei beni della società fallita, in quanto è soggetto terzo rispetto al procedimento cautelare, non è titolare di diritti sui beni in sequestro né può agire, per quanto qui rileva, in rappresentanza dei singoli creditori, dovendo essere considerato come titolare di un organo chiamato a svolgere una funzione pubblica.

Siffatta ricostruzione, del resto, è coerente con il dato che la buona fede che deve sorreggere la posizione dei terzi, perché la confisca non pregiudichi i loro diritti, non può che essere dedotta ed esaminata non in generici termini collettivi, ma in relazione alla specifica posizione di ciascun creditore.

È infatti in considerazione di ognuno di loro che deve valutarsi se ricorra la posizione di estraneità alla commissione del reato e ai vantaggi e utilità che ne sono scaturiti, così come se sussistano o non profili di colposa inosservanza di doverose regole di cautela. Poiché dunque il curatore non rappresenta i singoli creditori, ma opera nel generale interesse a garantire la par condicio creditorum, deve escludersi in radice che egli sia titolare di una posizione soggettiva opponibile al vincolo derivante dal provvedimento sequestro, adottato nel quadro della disciplina dettata dal D. Lgs. 231/2001, anche quando quest’ultimo, di fatto, finisca per incidere sulla disponibilità delle risorse occorrenti per le spese della procedura.

L’assenza di una norma che consenta l’individuazione di siffatta posizione non può, invero, essere recuperata, in considerazione dell’esigenza, di mero fatto, per il curatore di poter disporre delle risorse occorrenti per la procedura (Sez. 5, 50116/2015 e, più di recente, Sez. 2, 2232/2019).

La dichiarazione di fallimento successiva al sequestro non conferisce alla procedura la disponibilità dei beni del fallito in considerazione del fatto che, da un lato, questi ne conserva il diritto di proprietà e, dall’altro, che il pregresso vincolo penale assorbe ogni potere fattuale su tali beni, escludendo ogni disponibilità diversa sugli stessi laddove la legittimazione per impugnare consegue alla effettiva disponibilità del bene (SU, 11170/2014, richiamata da Sez. 2, 2232/2019).

Poiché ai sensi del combinato disposto degli artt. 6, comma 5, e 19, comma 1, la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente, è sempre disposta con la sentenza di condanna pronunciata nei confronti dell’ente medesimo, deve ritenersi applicabile il principio di diritto secondo il quale è illegittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, disposto ai sensi dell’art. 53, comma 1, in caso di intervenuta prescrizione delle sanzioni amministrative applicabili all’ente, ai sensi dell’art. 22, comma 1, ancor prima della formulazione della contestazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato, rilevando tale aspetto, sotto il profilo della mancanza del “fumus” dell’illecito, essendo in sede di riesame precluso al giudice di compiere l’accertamento dell’illecito, nei suoi estremi oggettivi, e la sussistenza di profili quanto meno di colpa nella persona giuridica, quali presupposti necessari per disporre la confisca anche in presenza di una causa estintiva dell’illecito (Sez. 5, 18137/2018).

 

Impugnazione del provvedimento

Avverso il provvedimento del GIP che rigetti la richiesta di sequestro preventivo non può essere proposto ricorso per saltum in Cassazione. Questo mezzo di impugnazione, ai sensi dell’art. 569, comma 1, CPP, è proponibile esclusivamente avverso le sentenze di primo grado e, in materia cautelare, solo in relazione al decreto genetico della misura, ex art. 325 CPP Deve peraltro affermarsi che, se erroneamente esperita, detta impugnazione ben può essere qualificata come appello, ex artt. 322 bis e 568, ultimo comma CPP (Sez. 5, 29250/2014).

 

Commissariamento giudiziale

L’art. 53 prevede la misura cautelare del sequestro preventivo in funzione di confisca sia nella forma diretta avente ad oggetto il prezzo o il profitto del reato (art 19 comma 1) sia nella forma per equivalente (art 19 comma 2). Il comma 1-bis regola specificamente il caso in cui il sequestro eseguito ai fini della confisca per equivalente prevista dal comma 2 dell’art. 19 abbia ad oggetto “società, aziende, ovvero beni, ivi compresi titoli, nonché quote azionarie o liquidità anche in deposito”, e prevede che siffatta ipotesi “il custode amministratore giudiziario ne consente l’utilizzo e la gestione agli organi societari esclusivamente al fine di garantire la continuità e lo sviluppo aziendali, esercitando poteri di vigilanza e riferendone all’autorità giudiziaria”.

La ratio di tale disposizione è evidentemente quella di evitare che la disposta misura cautelare possa paralizzare l’ordinaria attività aziendale pregiudicandone la continuità e lo sviluppo e la funzione assegnata al custode amministratore giudiziario è quella di vigilare sull’utilizzo e sulla gestione dell’azienda e di riferirne all’autorità giudiziaria. La nomina dell’amministratore giudiziario è, dunque, presupposto imprescindibile per l’esercizio dell’attività aziendale e nel caso in cui venga omessa la parte interessata ha un onere di impulso di adire il giudice che procede, ai sensi dell’art. 47 (Sez. 3, 6742/2018).

 

Determinazione dei poteri dell’amministratore giudiziario

I provvedimenti del giudice in ordine ai poteri e all’operato dell’amministratore giudiziario non sono impugnabili davanti giudice dell’appello cautelare ex art. 322-bis CPP ma le questioni che ad essi si riferiscono devono essere proposte al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 666, comma 4, CPP (Sez. 6, 22843/2018).