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Art. 14

Assegnazione, raggruppamento e categorie dei detenuti e degli internati

1. I detenuti e gli internati hanno diritto di essere assegnati a un istituto quanto più vicino possibile alla stabile dimora della famiglia o, se individuabile, al proprio centro di riferimento sociale, salvi specifici motivi contrari. (1)

2. Il numero dei detenuti e degli internati negli istituti e nelle sezioni deve essere limitato e, comunque, tale da favorire l’individualizzazione del trattamento.

3. L’assegnazione dei condannati e degli internati ai singoli istituti e il raggruppamento nelle sezioni di ciascun istituto sono disposti con particolare riguardo alla possibilità di procedere a trattamento rieducativo comune e all’esigenza di evitare influenze nocive reciproche. (2)

4. È assicurata la separazione degli imputati dai condannati e internati, dei giovani al disotto dei venticinque anni dagli adulti, dei condannati dagli internati e dei condannati all’arresto dai condannati alla reclusione.

5. È consentita, in particolari circostanze, l’ammissione di detenuti e di internati ad attività organizzate per categorie diverse da quelle di appartenenza.

6. Le donne sono ospitate in istituti separati da quelli maschili o in apposite sezioni in numero tale da non compromettere le attività trattamentali. (3)

7. Alle madri è consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido. (4)

8. L’assegnazione dei detenuti e degli internati, per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte della restante popolazione detenuta, in ragione solo dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale, deve avvenire, per categorie omogenee, in sezioni distribuite in modo uniforme sul territorio nazionale previo

consenso degli interessati i quali, in caso contrario, saranno assegnati a sezioni ordinarie. È in ogni caso garantita la partecipazione ad attività trattamentali, eventualmente anche insieme alla restante popolazione detenuta.

(1) Comma premesso dall’art. 11, comma 1, lett. e), n. 1), D.Lgs. 123/2018.

(2) Comma così sostituito dall’art. 11, comma 1, lett. e), n. 2), D.Lgs. 123/2018.

(3) Comma così sostituito dall’art. 11, comma 1, lett. e), n. 3), D.Lgs. 123/2018 che ha sostituito l’originario quinto comma con gli attuali commi quinto, sesto e settimo.

(4) Comma aggiunto dall’art. 11, comma 1, lett. e), n. 3), D.Lgs. 123/2018 che ha sostituito l’originario quinto comma con gli attuali commi quinto, sesto e settimo.

Rassegna di giurisprudenza

L’art. 14 fissa la regola generale del trattamento penitenziario individualizzato, in funzione dell’assegnazione del numero di detenuti agli istituti e alle sezioni, per assicurare aspetti di trattamento comune ed evitare influenze negative reciproche. L’esperienza penitenziaria e trattamentale ha dimostrato che l’opera di rieducazione va, tuttavia, diversificata in ragione della pericolosità penitenziaria e sociale del singolo soggetto ristretto e che aspetto importantissimo del “trattamento individualizzato” è proprio l’attenzione che si riserva al livello di pericolosità ritratto dalla storia personale e dall’osservazione del detenuto. Il trattamento, pertanto, va “ritagliato” sul soggetto e calibrato sulla pericolosità manifestata e su quella ritenuta. Si tratta di un regime che non ha, dunque, carattere punitivo-sanzionatorio, né che vive di una pura afflittività, priva di ragione concreta, ma di un aspetto “necessario” del trattamento stesso, improntato ad un rigore maggiore, che ha funzione essenzialmente preventiva strettamente collegata all’obiettivo di avviare, da parte del soggetto ristretto, un serio processo di rielaborazione degli aspetti della personalità e della devianza manifestata che sono risultati indicatori di maggiore pericolosità. In questa logica sono stati fissati rigorosamente i presupposti normativi del regime stesso, secondo i parametri oggettivi fissati nell’art. 14-bis, parametri che (soprattutto in funzione della delimitazione dell’ambito operativo di cui all’art. 14-bis, comma 5,) si devono tenere discosti da principi e regole applicative di “perdurante pericolosità” e da giudizi negativi, esclusivamente orientati al passato, che prescindono dai comportamenti successivi e dall’atteggiamento di possibile rivisitazione di determinate scelte esistenziali. Non vale, neppure in questo ambito, alcuna presunzione di pericolosità o di non rieducabilità del detenuto da inserire o mantenere in regime di alta sicurezza, attraverso automatismi e logiche improntate a presunzioni assolute. Si tratta di regole che, in sostanza, valgono anche in caso di trasferimento da un istituto all’altro, dovendosi -nei limiti del possibile e delle esigenze che il trasferimento stesso mira ad attuare- tendere ad assicurare il principio di continuità del trattamento in essere e del controllo della pericolosità del singolo detenuto, in funzione di un suo definitivo e completo recupero penitenziario e sociale. Ciò ovviamente contemperando l’opera di rieducazione e il trattamento penitenziario alle risorse della struttura e all’offerta individualizzante che sull’aspetto specifico di pericolosità si può garantire in una logica di continuità e di contemperamento tra le esigenze di ordine e sicurezza e quelle che tendono alla definitiva risocializzazione, per il recupero del soggetto stesso. Né sarebbe logico, a fronte di trasferimenti da una struttura ad altra, ritenere che il passaggio possa determinare ipso iure la caducazione di un regime di sorveglianza particolare, in costanza di pericolosità del singolo ristretto, là dove esso profilo sia stato, tra l’altro, accertato e valutato in concreto, anche attraverso la ponderazione giurisdizionale. Ciò posto si intende come nella specifica vicenda procedimentale il nucleo centrale della questione non si risolva nell’accertamento dell’esistenza di un diritto all’assegnazione ad una determinata sezione e alla riduzione del trattamento di alta sicurezza. Il sistema contempla, piuttosto, il diritto al trattamento penitenziario “individualizzato” che deve necessariamente comportare, tra le possibili e plurime attuazioni, anche quella di mantenere la continuità di esso trattamento già avviato o quella di aspirare ad una riduzione delle restrizioni o di attenuazione del regime di alta sicurezza, là dove vengano ad attenuarsi i relativi presupposti o non si ripropongano le condizioni che inizialmente avevano indotto ad assumere provvedimenti di differenziazione nei confronti del singolo. Si tratta di aspetti che indubbiamente radicano simmetriche posizioni giuridiche soggettive in capo al detenuto ristretto che ha facoltà d’adito in sede giurisdizionale. La definizione della natura giuridica di dette posizioni legittimanti non muta i termini sostanziali della questione. Ciò perché si tratta di interessi meritevoli di tutela, secondo l’ordinamento giuridico. Se irragionevolmente compressi, da parte dell’Amministrazione penitenziaria, possono essere sottoposti al vaglio dell’AG che è chiamata a verificare se il bilanciamento tra il trattamento individualizzato -posto dagli artt. 14 e 14-bis e garantito dall’art. 27 Cost. - sia stato correttamente effettuato in funzione del concreto livello di pericolosità del soggetto. La valutazione, dunque, sulla destinazione e l’assegnazione del detenuto all’interno degli istituti penitenziari è prerogativa dell’amministrazione penitenziaria, ma si sviluppa secondo regole tipizzate e strettamente collegate alla regola di legalità e procedimentalizzazione dell’azione e della decisione amministrativa. Intimamente connesso all’anzidetto principio di legalità è quello di giurisdizionalizzazione del sistema, poiché la garanzia offerta dalla normativa di settore, senza la possibilità di attuare un controllo siffatto, risulterebbe priva di completezza e offrirebbe una forma di tutela che rischierebbe di essere ineffettiva. Il tutto in funzione di evitare che la discrezionalità amministrativa possa attuarsi attraverso forme arbitrarie d’esecuzione che, diversamente, risulterebbero insindacabili (Sez. 1, 40123/2019).

Allorquando provvedimenti comportano la sottoposizione a un regime penitenziario differenziato o, comunque, il suo mantenimento, possono essere oggetto di reclamo al magistrato di sorveglianza ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma 6, ove siano adottati in violazione dei criteri sulla destinazione dei detenuti, fissati in via generale ed astratta dall’amministrazione, risolvendosi in una lesione del diritto soggettivo al trattamento “comune”. Ciò perché, la scelta dell’Amministrazione penitenziaria in ordine alla classificazione di un detenuto, trova fondamento nell’art. 14, secondo cui il raggruppamento dei detenuti nelle sezioni è stabilito in relazione alla possibilità di procedere ad un “trattamento rieducativo comune” e all’esigenza di evitare “influenze nocive reciproche”. Egualmente, l’art. 32 Reg. prevede l’assegnazione ad appositi istituti o sezioni dove sia “più agevole” adottare le cautele per quei detenuti che, con i loro comportamenti, facciano temere per l’incolumità propria o dei compagni, a tutela “da possibili aggressioni o sopraffazioni”. Attraverso la previsione di un regime differenziato, il sistema penitenziario prevede per esigenze di ordine e di sicurezza, la realizzazione di percorsi trattamentali meno completi. Così si può incidere anche sui principi posti dall’art. 13, secondo cui il trattamento penitenziario deve essere individualizzato e deve “rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto”. Gli orientamenti meno recenti della giurisprudenza di legittimità hanno escluso la possibilità di impugnare il provvedimento di assegnazione del detenuto al circuito penitenziario. Esso provvedimento, si affermava, era espressione del potere discrezionale, riservato all’Amministrazione, di organizzare e regolare la vita all’interno degli istituti, in ragione della pericolosità dei detenuti e della necessità di assicurare l’ordinato svolgimento della vita intramuraria e, come tale, non risultava suscettibile di sindacato da parte della magistratura di sorveglianza. In alcuni casi si era richiamato un potere di verifica da parte dell’organo giudiziario sulle “singole disposizioni che lo accompagnano o lo seguono” o sugli “atti esecutivi che siano in concreto lesivi di diritti” Si trattava di orientamenti essenzialmente protesi a privilegiare la salvaguardia di valori di ordine e sicurezza e di osservanza delle regole interne, che non si soffermavano sulla finalità del trattamento stesso e sul sottostante obiettivo di rieducazione. Oggi può ritenersi che l’ordinamento riconosca al detenuto un generale diritto al trattamento penitenziario “non differenziato”, con l’eccezione che l’Amministrazione, in presenza di situazioni di pericolosità del detenuto, che impongano di attuare misure volte ad assicurare la sicurezza interna ed esterna, ha facoltà di sottoporlo ad un regime differenziato. In tali evenienze, dunque, fermo il diritto al trattamento comune (non differenziato) l’Amministrazione penitenziaria può pacificamente adottare, nell’esercizio di potestà organizzative, misure che incidono sulla originaria posizione soggettiva. A fronte dell’esercizio di poteri siffatti, il detenuto può investire, attraverso lo strumento del reclamo giurisdizionale, il magistrato di sorveglianza, impugnando non tanto la previsione, generale e astratta, che, nel prevedere il circuito penitenziario, definisca le condizioni per la sua assegnazione, quanto piuttosto il provvedimento di assegnazione, in ipotesi adottato in assenza dei requisiti, ovvero, per quanto di interesse in questa sede, il provvedimento con il quale, pur venendo meno i presupposti per l’assegnazione a un determinato circuito, l’amministrazione abbia negato la declassificazione. È un sindacato circoscritto al profilo dei vizi di legittimità dell’atto amministrativo. Non si estende, cioè, al merito della scelta, salvo in casi di assoluta contraddittorietà e manifesta irragionevolezza. assolutamente rimesso esclusivamente alla valutazione dell’Amministrazione penitenziaria. Si intende, allora, come esista un diritto alla assegnazione ad una sezione “comune”, quale momento d’attuazione del diritto al trattamento individualizzato, previsto dalla legge penitenziaria dagli articoli 1, comma 6, 13 e 14, comma 2. In difetto sarebbe sottratta al magistrato di sorveglianza la prima forma di controllo sulla conformità del trattamento di recupero del detenuto, trattamento che passa attraverso l’assegnazione ad un regime che assicuri l’obiettivo e la finalità della risocializzazione. Da ciò la legittimazione al ricorso, in ordine al pregiudizio, grave e attuale, che può derivare all’esercizio del diritto del detenuto dal mantenimento dell’assegnazione nel circuito differenziato. L’introduzione del reclamo giurisdizionale di cui all’art. 35-bis non muta il quadro. Il rimedio è stato introdotto per adeguare la normativa alla soluzione giurisprudenziale che, sull’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza 26/1999), riconosceva la tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti (SU, 25079/2003) con lo strumento della procedura prevista dall’art. 14-ter. Quindi, il reclamo ex artt. 35-bis e 69, comma 6, lett. b) è pacificamente ammissibile in presenza di “inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni della legge penitenziaria e del relativo regolamento dalla quale derivi al detenuto un attuale e grave pregiudizio. Rischia pertanto di essere forviante l’affermazione secondo cui non è possibile proporre reclamo giurisdizionale avverso il provvedimento di assegnazione ad una determinata sezione, mentre è possibile reclamare avverso un provvedimento - eventualmente collegato a tale assegnazione - che determini la violazione effettiva e concreta di uno specifico diritto del detenuto (Sez 1, 52534/2018), in difetto di una precisazione ulteriore che prevede come esso reclamo sia esperibile anche per la violazione del diritto a non subire un trattamento penitenziario non comune, in difetto dei presupposti legittimanti della differenziazione (quali, a titolo esemplificativo, la condizione di pericolosità di esposizione a rischio per l’ordine interno ed esterno) (Sez. 1, 43858/2019).

Le norme penitenziarie primariamente disciplinanti il trattamento dei detenuti, con la loro classificazione e il conseguente raggruppamento (artt. 13 e 14 e 32 Reg.), certamente conferiscono all’Amministrazione il potere di apprestare regimi penitenziari differenziati corrispondenti ai vari circuiti configurando comunque il regime differenziato in termini di eccezione, giustificata da corrispondenti esigenze organizzative, rispetto a quello comune, caratterizzato dall’applicazione del trattamento ordinario. In questa direzione, sulla base del complesso degli elementi valutati, si ritiene che - in ordine alla questione relativa alla possibilità di esercitare il rimedio del ricorso giurisdizionale ex art. 35-bis in relazione al provvedimento che dispone la sottoposizione a un determinato circuito penitenziario (classificazione) o, viceversa, rigetta la richiesta di modifica dell’assegnazione (declassificazione), considerate anche le indicazioni provenienti dal citato orientamento della giurisprudenza convenzionale - il detenuto possa ricorrere al magistrato di sorveglianza per lamentare l’adozione di un illegittimo provvedimento di classificazione ovvero di illegittimo diniego di declassificazione, sempre che, però, il relativo ricorso non si risolva in una censura di mero principio dell’atto amministrativo, ma, enucleando il corrispondente interesse ad agire, prospetti l’incidenza del provvedimento su una sua situazione giuridica soggettiva (ad esempio, sul diritto allo studio, sul diritto al lavoro, sul diritto al mantenimento, nelle forme stabilite, delle relazioni familiari, sul diritto a esercitare, nelle forme stabilite, i contatti epistolari) che venga concretamente pregiudicata dal provvedimento stesso. Resta, dunque, assodato che il provvedimento di assegnazione del detenuto a un determinato circuito carcerario costituisce manifestazione dei poteri di organizzazione amministrativa contrassegnati da discrezionalità tecnica rispetto a cui il giudice ordinario non può svolgere il suo diretto sindacato, ma ciò lascia impregiudicato la - distinta e speculare - affermazione che, ove tale provvedimento contenga o determini disposizioni tali da incidere direttamente sui diritti del detenuto, l’atto o gli atti impositivi della restrizione in tesi illegittima possono formare oggetto di reclamo (Sez. 1, 10558/2019).

I provvedimenti di assegnazione del detenuto a un determinato circuito carcerario, i quali comportano la sottoposizione a un regime penitenziario differenziato o, comunque, il suo mantenimento in esso, possono essere oggetto di reclamo al magistrato di sorveglianza ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma 6, qualora siano adottati in violazione dei criteri sulla destinazione dei detenuti, fissati in via generale ed astratta dall’amministrazione, e si risolvano in una lesione del diritto soggettivo al trattamento comune, fermo restando che la valutazione in ordine all’opportunità di assegnazione e mantenimento del relativo regime differenziato appartiene, sul piano del merito, all’Amministrazione penitenziaria e che sull’esito del suo dispiegamento lo strumento del ricorso giurisdizionale deve limitare il controllo al solo profilo dei vizi di legittimità dell’atto amministrativo (Sez. 1, 10558/2019).

Spetta all’Amministrazione penitenziaria, ai sensi degli artt. 14 e 32 Reg., il potere esclusivo di assegnare i detenuti alle diverse unità di alta sicurezza e di collocarli nelle carceri della penisola. Ne consegue che il relativo provvedimento si sottrae al controllo del magistrato di sorveglianza, potendo costituire oggetto di reclamo solo i singoli atti esecutivi di esso che siano lesivi dei diritti primari del detenuto (Sez. 7, 6047/2019).