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Art. 20

Lavoro (1)

1. Negli istituti penitenziari e nelle strutture ove siano eseguite misure privative della libertà devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. A tal fine, possono essere organizzati e gestiti, all’interno e all’esterno dell’istituto, lavorazioni e servizi attraverso l’impiego di prestazioni lavorative dei detenuti e degli internati. Possono, altresì, essere istituite lavorazioni organizzate e gestite direttamente da enti pubblici o privati e corsi di formazione professionale organizzati e svolti da enti pubblici o privati.

2. Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato.

3. L’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale.

4. Presso ogni istituto penitenziario è istituita una commissione composta dal direttore o altro dirigente penitenziario delegato, dai responsabili dell’area sicurezza e dell’area giuridico-pedagogica, dal dirigente sanitario della struttura penitenziaria, da un funzionario dell’ufficio per l’esecuzione penale esterna, dal direttore del centro per l’impiego o da un suo delegato, da un rappresentante sindacale unitariamente designato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale e un rappresentante unitariamente designato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello territoriale. Per ogni componente viene indicato un supplente. La commissione delibera a maggioranza dei presenti. Ai componenti della commissione non spetta la corresponsione di alcun compenso, gettoni di presenza, indennità, rimborsi spese e altri emolumenti comunque denominati.

5. La commissione di cui al comma 4, dandone adeguata pubblicità, provvede a:

a) formare due elenchi, uno generico e l’altro per qualifica, per l’assegnazione al lavoro dei detenuti e degli internati, tenendo conto esclusivamente dell’anzianità di disoccupazione maturata durante lo stato di detenzione e di internamento, dei carichi familiari e delle abilità lavorative possedute, e privilegiando, a parità di condizioni, i condannati, con esclusione dei detenuti e degli internati sottoposti al regime di sorveglianza particolare di cui all’articolo 14-bis;

b) individuare le attività lavorative o i posti di lavoro ai quali, per motivi di sicurezza, sono assegnati detenuti o internati, in deroga agli elenchi di cui alla lettera a);

c) stabilire criteri per l’avvicendamento nei posti di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, nel rispetto delle direttive emanate dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

6. Alle riunioni della commissione partecipa, senza potere deliberativo, un rappresentante dei detenuti e degli internati.

7. Resta salvo il potere del direttore di derogare, per specifiche ragioni di sicurezza, ai criteri di assegnazione al lavoro di cui al comma 5, lettera a).

8. Gli organi centrali e territoriali dell’amministrazione penitenziaria stipulano apposite convenzioni di inserimento lavorativo con soggetti pubblici o privati o cooperative sociali interessati a fornire opportunità di lavoro a detenuti o internati. Le convenzioni disciplinano l’oggetto e le condizioni di svolgimento dell’attività lavorativa, la formazione e il trattamento retributivo, senza oneri a carico della finanza pubblica. Le proposte di convenzione sono pubblicate a cura del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sul proprio sito istituzionale. I soggetti privati disponibili ad accettare le proposte di convenzione trasmettono al Dipartimento i relativi progetti di intervento unitamente al curriculum dell’ente. I progetti e i curriculum sono pubblicati a cura del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sul proprio sito istituzionale. Della convenzione stipulata è data adeguata pubblicità con le forme previste dal presente comma. Agli operatori privati, che agiscono per conto degli enti menzionati al primo periodo, si applica l’articolo 78.

9. Le direzioni degli istituti penitenziari, in deroga alle norme di contabilità generale dello Stato e di quelle di contabilità speciale e previa autorizzazione del Ministro della giustizia, possono vendere prodotti delle lavorazioni penitenziarie o rendere servizi attraverso l’impiego di prestazioni lavorative dei detenuti e degli internati a prezzo pari o anche inferiore al loro costo, tenuto conto, per quanto possibile, dei prezzi praticati per prodotti o servizi corrispondenti nella zona in cui è situato l’istituto.

10. I proventi delle manifatture carcerarie e il corrispettivo dei servizi, prodotti o forniti dall’amministrazione penitenziaria impiegando l’attività lavorativa dei detenuti e degli internati, sono versati all’entrata del bilancio dello Stato per essere annualmente riassegnati, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, all’apposito capitolo del Ministero della giustizia, allo scopo di promozione e sviluppo della formazione professionale e del lavoro dei detenuti e degli internati.

11. I detenuti e gli internati, in considerazione delle loro attitudini, possono essere ammessi a esercitare, per proprio conto, attività artigianali, intellettuali o artistiche, nell’ambito del programma di trattamento.

12. I detenuti e gli internati possono essere ammessi a esercitare attività di produzione di beni da destinare all’autoconsumo, anche in alternativa alla normale attività lavorativa. Con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono stabilite le modalità di svolgimento dell’attività in autoconsumo, anche mediante l’uso di beni e servizi dell’amministrazione penitenziaria.

13. La durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro e sono garantiti il riposo festivo, il riposo annuale retribuito e la tutela assicurativa e previdenziale. Ai detenuti e agli internati che frequentano i corsi di formazione professionale e svolgono i tirocini è garantita, nei limiti degli stanziamenti regionali, la tutela assicurativa e ogni altra tutela prevista dalle disposizioni vigenti.

14. Agli effetti della presente legge, per la costituzione e lo svolgimento di rapporti di lavoro nonché per l’assunzione della qualità di socio nelle cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, non si applicano le incapacità derivanti da condanne penali o civili.

15. Entro il 31 marzo di ogni anno il Ministro della giustizia trasmette al Parlamento una analitica relazione circa lo stato di attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti nell’anno precedente.

(1) Il presente articolo è stato così sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. a), D.Lgs. 124/2018.

Rassegna di giurisprudenza

Il lavoro costituisca componente essenziale del trattamento rieducativo e lo stesso carattere obbligatorio del lavoro penitenziario dei condannati e degli internati (art. 15, comma 3) e “si pone come uno dei mezzi al fine del recupero della persona, valore centrale per il (...) sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo” (Corte costituzionale,  158/2001). La legge penitenziaria prevede (art. 20, comma 1: Negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro...; art. 15: Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato … è assicurato il lavoro") per l’appunto, che al condannato sia, salvo casi di impossibilità, assicurato un lavoro, nella forma consentita più idonea, all’interno o all’esterno dell’istituto e, se è vero che il lavoro del detenuto, intramurario o esterno, presenta, per i profili di accesso e per gli aspetti organizzativi, disciplinari, di sicurezza, inevitabili peculiarità che giustificano varianti o deroghe rispetto alla regolamentazione del rapporto di lavoro in generale, tuttavia né la sua specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena «valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato» (Corte costituzionale, 158/2001); il lavoro dei detenuti implica, dunque, «una serie di diritti (...) modulati sulla base contrattuale dei singoli rapporti instaurati» che possono non coincidere con quelli che contrassegnano il lavoro libero, se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena, restando comunque illegittima «ogni irrazionale, ingiustificata discriminazione, con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini» (Corte costituzionale, 341/2006). Alla luce dei parametri normativi di riferimento e, massimamente, dei pronunciamenti del giudice delle leggi, si può, dunque, affermare che solo nello svolgimento del rapporto di lavoro e dell’attività lavorativa si è in presenza di diritti soggettivi perfetti, che non si esauriscono in quelli riconosciuti e garantiti dall’art. 36 Cost., ma sono tendenzialmente assimilabili ai diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con i soli limiti derivanti dallo stato di privazione della libertà personale. Tanto posto, l’ammissione al lavoro all’esterno non è misura alternativa alla detenzione, ma specifica modalità trattamentale: “I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi dell’art. 15” (art. 21). L’ordinamento non riconosce al magistrato di sorveglianza né il potere di concedere né quello di revocare in autonomia il provvedimento di ammissione, essendo tale facoltà espressamente rimessa all’Amministrazione e l’intervento del primo essendo previsto in funzione di mera approvazione dell’iniziativa della seconda. E tuttavia, posto che l’assegnazione deve essere disposta in condizioni idonee a garantire gli scopi previsti dall’art. 15, è evidente che essa non è rimessa alla discrezionalità del direttore dell’istituto, ma è subordinata, come espressamente stabilito dall’art. 48, comma 1, Reg. alla sua indefettibile previsione nel programma di trattamento rieducativo, formulato - secondo una logica di individualizzazione dei relativi protocolli e all’esito dell’osservazione scientifica della personalità del singolo detenuto e dell’individuazione dei suoi bisogni specifici- dal gruppo di osservazione previsto dall’art. 29 Reg., lo stesso gruppo che esamina gli sviluppi del trattamento praticato e i suoi risultati, predisponendo e apportando le modifiche che si rendano necessarie. È evidente allora che in capo al detenuto condannato è configurabile un diritto al trattamento, quale aspetto del più generale diritto alla rieducazione, restando riservata all’autorità amministrativa (e all’approvazione preliminare del magistrato di sorveglianza nell’ambito della valutazione del programma) l’offerta degli interventi finalizzati alla rieducazione e risocializzazione del condannato, ossia l’individuazione delle più consone modalità trattamentali e, tale essendo il lavoro all’esterno, non è configurabile né un diritto soggettivo alla sua ammissione né, correlativamente, un diritto alla stabilità e prosecuzione dello stesso, in quanto il provvedimento di revoca dell’ammissione non si atteggia alla stregua di un licenziamento, ma rientra anch’esso nell’attività trattamentale, periodicamente riscontrata e valutata in relazione alla modificazione dei comportamenti e della personalità. Nei sensi sopra indicati va riaffermato il principio, secondo il quale in materia di lavoro all’esterno i provvedimenti di ammissione e di revoca hanno natura amministrativa e identica natura amministrativa hanno i provvedimenti che, nel corso del procedimento finalizzato alla loro adozione, la legge riserva all’AG, avverso i quali non è ipotizzabile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., in quanto la materia in esame non può farsi rientrare in quella della libertà personale (Sez. 1, 35730/2018).

L’art. 15 stabilisce che il lavoro è uno dei principali elementi del trattamento penitenziario e che, proprio ai fini del trattamento rieducativo, esso è assicurato salvo casi di impossibilità. La valenza rieducativa del lavoro è ribadita dall’art. 20, ove è precisato che negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione ai corsi di formazione professionale (comma 1) e che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato (comma 2). Anche il lavoro all’esterno è modalità trattamentale (art. 21, comma 1, “ I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi dell’art. 15"), come espressamente ribadito anche dall’art. 48, comma 1, Reg., che ne subordina l’ammissione alla sua indefettibile previsione nel programma di trattamento. L’ordinamento non riconosce al magistrato di sorveglianza né il potere di concedere né quello di revocare, in autonomia, il provvedimento di ammissione al lavoro esterno del detenuto. Tale facoltà è, invece, espressamente rimessa dall’art. 48 Reg. all’Amministrazione, e l’intervento del magistrato di sorveglianza è previsto in funzione di mera approvazione dell’iniziativa di quella. L’applicazione della specifica modalità trattamentale del lavoro esterno non dipende esclusivamente dalla discrezionalità del direttore dell’istituto, ma presuppone, all’esito di un’osservazione scientifica della personalità del detenuto, la formulazione di un programma di interventi, tra i quali sia espressamente prevista l’ammissione al lavoro esterno. Compete, invece, all’Amministrazione, che è tenuta ad indicare i posti di lavoro disponibili in apposita tabella distinta tra lavorazioni interne, lavorazioni esterne e servizi di istituto (art. 47, comma 10, Reg.), la verifica di ulteriori condizioni, quali l’affidabilità del soggetto, la carenza di attività lavorative interne, le caratteristiche del posto di lavoro all’esterno, ossia di tutti quegli elementi che potrebbero negativamente incidere sulle finalità dell’istituto e che ne rappresentano altrettante condizioni di ammissibilità; nel provvedimento devono essere, poi, indicate le prescrizioni che il detenuto o internato deve impegnarsi per iscritto a rispettare durante il tempo da trascorrere fuori dall’istituto, nonché quelle relative agli orari di uscita e di rientro (art. 48, comma 13, Reg.). La Direzione dell’istituto è tenuta a motivare (art. 48, comma 3, “deve motivare") la richiesta di approvazione del provvedimento, con la specificazione dei concreti elementi in base ai quali è stato esercitato il potere discrezionale e con la valutazione delle indagini svolte nell’istruzione della pratica. Se, dunque, il potere di iniziativa e di scelta dei soggetti da ammettere al lavoro esterno è affidato dalla legge all’autorità amministrativa, il provvedimento di ammissione per diventare esecutivo necessita dell’approvazione del magistrato di sorveglianza, cui spetta un esame circa le modalità di ammissione e di svolgimento dell’attività prevista, potendo dissentire dalla decisione del direttore dell’istituto e restituire il provvedimento con le osservazioni ritenute necessarie al fine di una nuova formulazione, e dovendo altresì necessariamente tenere conto nella sua approvazione, resa con decreto non motivato (art. 69-bis, comma 5), del tipo di reato, della durata della pena, dell’esigenza di prevenire il pericolo che l’ammesso al lavoro esterno commetta altri reati (art. 48, comma 4, Reg.). Anche l’iniziativa della revoca del provvedimento di ammissione compete al direttore dell’istituto e diviene esecutiva dopo l’approvazione del magistrato di sorveglianza, pur essendo riconosciuta al primo la possibilità di disporre, con provvedimento motivato, la sospensione dell’efficacia dell’ammissione del lavoro all’esterno, nelle more dell’approvazione del provvedimento di revoca (art. 48, comma 15, Reg.). Tanto precisato, non v’è dubbio che il lavoro dei detenuti costituisca una delle principali componenti del trattamento rieducativo, tant’è che “lo stesso carattere obbligatorio del lavoro penitenziario dei condannati e degli internati si pone come uno dei mezzi al fine del recupero della persona, valore centrale per il (...) sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo”. Ciò che la legge prevede è, per l’appunto, che al condannato sia, salvo caso di impossibilità, assicurato un lavoro, nella forma consentita più idonea, all’interno o all’esterno dell’istituto e, se è vero, che il lavoro del detenuto, intramurario o esterno, « presenta le peculiarità derivanti dalla inevitabile connessione tra profili del rapporto di lavoro e profili organizzativi, disciplinari e di sicurezza (...) per cui è ben possibile che la regolamentazione di tale rapporto conosca delle varianti o delle deroghe rispetto a quella del rapporto dì lavoro in generale (...) Tuttavia, né tale specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato» (Corte costituzionale,  158/2001); «Il lavoro dei detenuti, sia che venga svolto in favore dell’amministrazione penitenziaria, sia che venga effettuato alle dipendenze di terzi, implica una serie di diritti e di obblighi delle parti, modulati sulla base contrattuale dei singoli rapporti instaurati. (...) La configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dai rapporti di lavoro dei detenuti possono (...) non coincidere con quelle che contrassegnano il lavoro libero, se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena», è comunque illegittima «ogni irrazionale ingiustificata discriminazione, con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini» (Corte costituzionale, 341/2006). Sicché, alla luce del chiaro dato normativo e, massimamente, dei principi più volte ribaditi dal giudice delle leggi, discende che solo nello svolgimento del rapporto di lavoro o dell’attività lavorativa si è in presenza di diritti soggettivi perfetti, che non si esauriscono in quelli riconosciuti e garantiti dall’art. 36 Cost. Ad esempio l’art. 48, comma 11, Reg., stabilisce che í detenuti e gli internati ammessi al lavoro esterno esercitano i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti all’esecuzione della misura privativa della libertà; pertanto, è stato ritenuto che ai medesimi siano riconosciuti il diritto di sciopero, lo svolgimento di attività sindacali, la partecipazione ad assemblee sindacali sui luoghi di lavoro, quando si svolgano nel periodo nel quale possono rimanere all’esterno. E, viceversa, essendo anche il lavoro esterno una specifica modalità trattamentale, per la cui applicazione è necessaria a monte, la sua previsione nello specifico programma rieducativo, predisposto all’esito dell’osservazione e della valutazione della personalità e degli specifici bisogni del singolo detenuto, approvato dal magistrato di sorveglianza ed integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione, non è configurabile un diritto soggettivo né all’ammissione, né, correlativamente, un diritto alla stabilità e prosecuzione dello stesso, ché la revoca dell’ammissione al lavoro non si atteggia alla stregua di un licenziamento, ma rientra anch’essa nell’attività trattamentale e nelle previste e consentite modifiche del programma rieducativo individuale. In tal senso deve, pertanto, essere ribadito il principio di diritto secondo il quale «è inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema di ammissione al lavoro all’esterno, in quanto esso ha natura amministrativa e non può farsi rientrare nell’ambito degli atti che incidono comunque sulla libertà personale, ricorribili ex art. 111 Cost. (Sez. 1, 4979/2018).