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Art. 22

Determinazione della remunerazione (1)

1. La remunerazione per ciascuna categoria di detenuti e internati che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria è stabilita, in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, in misura pari ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi.

(1) Articolo così sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. f), D.Lgs. 124/2018.

Rassegna di giurisprudenza

Principi generali in tema di lavoro dei detenuti

Non è in dubbio che il lavoro costituisca componente essenziale del trattamento rieducativo e lo stesso carattere obbligatorio del lavoro penitenziario dei condannati e degli internati (art. 15, comma 3) “si pone come uno dei mezzi al fine del recupero della persona, valore centrale per il (...) sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo” (Corte costituzionale, 158/2001). La legge penitenziaria prevede (art. 20, comma 1: Negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro...; art. 15: Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato ... è assicurato il lavoro") per l’appunto, che al condannato sia, salvo casi di impossibilità, assicurato un lavoro, nella forma consentita più idonea, all’interno o all’esterno dell’istituto e, se è vero che il lavoro del detenuto, intramurario o esterno, presenta, per i profili di accesso e per gli aspetti organizzativi, disciplinari, di sicurezza, inevitabili peculiarità che giustificano varianti o deroghe rispetto alla regolamentazione del rapporto di lavoro in generale, tuttavia né la sua specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena «valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato» (Corte costituzionale, 158/2001); il lavoro dei detenuti implica, dunque, «una serie di diritti (...) modulati sulla base contrattuale dei singoli rapporti instaurati» che possono non coincidere con quelli che contrassegnano il lavoro libero, se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena, restando comunque illegittima «ogni irrazionale, ingiustificata discriminazione, con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini» (Corte costituzionale, 341/2006). Alla luce dei parametri normativi di riferimento e, massimamente, dei pronunciamenti del giudice delle leggi, si può, dunque, affermare che solo nello svolgimento del rapporto di lavoro e dell’attività lavorativa si è in presenza di diritti soggettivi perfetti, che non si esauriscono in quelli riconosciuti e garantiti dall’art. 36 Cost., ma sono tendenzialmente assimilabili ai diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con i soli limiti derivanti dallo stato di privazione della libertà personale. Tanto posto, l’ammissione al lavoro all’esterno non è misura alternativa alla detenzione, ma specifica modalità trattamentale: “I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi dell’art. 15” (art. 21). L’ordinamento non riconosce al magistrato di sorveglianza né il potere di concedere né quello di revocare in autonomia il provvedimento di ammissione, essendo tale facoltà espressamente rimessa all’Amministrazione e l’intervento del primo essendo previsto in funzione di mera approvazione dell’iniziativa della seconda. E tuttavia, posto che l’assegnazione deve essere disposta in condizioni idonee a garantire gli scopi previsti dall’art. 15, è evidente che essa non è rimessa alla discrezionalità del direttore dell’istituto, ma è subordinata, come espressamente stabilito dall’art. 48, comma 1, Reg., alla sua indefettibile previsione nel programma di trattamento rieducativo, formulato - secondo una logica di individualizzazione dei relativi protocolli e all’esito dell’osservazione scientifica della personalità del singolo detenuto e dell’individuazione dei suoi bisogni specifici- dal gruppo di osservazione previsto dall’art. 29 Reg., lo stesso gruppo che esamina gli sviluppi del trattamento praticato e i suoi risultati, predisponendo e apportando le modifiche che si rendano necessarie. È evidente allora che in capo al detenuto condannato è configurabile un diritto al trattamento, quale aspetto del più generale diritto alla rieducazione, restando riservata all’autorità amministrativa (e all’approvazione preliminare del magistrato di sorveglianza nell’ambito della valutazione del programma) l’offerta degli interventi finalizzati alla rieducazione e risocializzazione del condannato, ossia l’individuazione delle più consone modalità trattamentali e, tale essendo il lavoro all’esterno, non è configurabile né un diritto soggettivo alla sua ammissione né, correlativamente, un diritto alla stabilità e prosecuzione dello stesso, in quanto il provvedimento di revoca dell’ammissione non si atteggia alla stregua di un licenziamento, ma rientra anch’esso nell’attività trattamentale, periodicamente riscontrata e valutata in relazione alla modificazione dei comportamenti e della personalità. Nei sensi sopra indicati va riaffermato il principio, secondo il quale in materia di lavoro all’esterno i provvedimenti di ammissione e di revoca hanno natura amministrativa e identica natura amministrativa hanno i provvedimenti che, nel corso del procedimento finalizzato alla loro adozione, la legge riserva all’autorità giudiziaria, avverso i quali non è ipotizzabile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., in quanto la materia in esame non può farsi rientrare in quella della libertà personale (Sez. 1, 35730/2018).

L’art. 15 stabilisce che il lavoro è uno dei principali elementi del trattamento penitenziario e che, proprio ai fini del trattamento rieducativo, esso è assicurato salvo casi di impossibilità. La valenza rieducativa del lavoro è ribadita dall’art. 20, ove è precisato che negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione ai corsi di formazione professionale (comma 1) e che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato (comma 2). Anche il lavoro all’esterno è modalità trattamentale (art. 21, comma 1, “ I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi dell’art. 15"), come espressamente ribadito anche dall’art. 48, comma 1, Reg., che ne subordina l’ammissione alla sua indefettibile previsione nel programma di trattamento. L’ordinamento non riconosce al magistrato di sorveglianza né il potere di concedere né quello di revocare, in autonomia, il provvedimento di ammissione al lavoro esterno del detenuto. Tale facoltà è, invece, espressamente rimessa dall’art. 48 Reg. all’Amministrazione, e l’intervento del magistrato di sorveglianza è previsto in funzione di mera approvazione dell’iniziativa di quella. L’applicazione della specifica modalità trattamentale del lavoro esterno non dipende esclusivamente dalla discrezionalità del direttore dell’istituto, ma presuppone, all’esito di un’osservazione scientifica della personalità del detenuto, la formulazione di un programma di interventi, tra i quali sia espressamente prevista l’ammissione al lavoro esterno. Compete, invece, all’Amministrazione, che è tenuta ad indicare i posti di lavoro disponibili in apposita tabella distinta tra lavorazioni interne, lavorazioni esterne e servizi di istituto (art. 47, comma 10, Reg.), la verifica di ulteriori condizioni, quali l’affidabilità del soggetto, la carenza di attività lavorative interne, le caratteristiche del posto di lavoro all’esterno, ossia di tutti quegli elementi che potrebbero negativamente incidere sulle finalità dell’istituto e che ne rappresentano altrettante condizioni di ammissibilità; nel provvedimento devono essere, poi, indicate le prescrizioni che il detenuto o internato deve impegnarsi per iscritto a rispettare durante il tempo da trascorrere fuori dall’istituto, nonché quelle relative agli orari di uscita e di rientro (art. 48, comma 13, Reg.). La Direzione dell’istituto è tenuta a motivare (art. 48, comma 3, “deve motivare") la richiesta di approvazione del provvedimento, con la specificazione dei concreti elementi in base ai quali è stato esercitato il potere discrezionale e con la valutazione delle indagini svolte nell’istruzione della pratica. Se, dunque, il potere di iniziativa e di scelta dei soggetti da ammettere al lavoro esterno è affidato dalla legge all’autorità amministrativa, il provvedimento di ammissione per diventare esecutivo necessita dell’approvazione del magistrato di sorveglianza, cui spetta un esame circa le modalità di ammissione e di svolgimento dell’attività prevista, potendo dissentire dalla decisione del direttore dell’istituto e restituire il provvedimento con le osservazioni ritenute necessarie al fine di una nuova formulazione, e dovendo altresì necessariamente tenere conto nella sua approvazione, resa con decreto non motivato (art. 69 bis, comma 5), del tipo di reato, della durata della pena, dell’esigenza di prevenire il pericolo che l’ammesso al lavoro esterno commetta altri reati (art. 48, comma 4, Reg.). Anche l’iniziativa della revoca del provvedimento di ammissione compete al direttore dell’istituto e diviene esecutiva dopo l’approvazione del magistrato di sorveglianza, pur essendo riconosciuta al primo la possibilità di disporre, con provvedimento motivato, la sospensione dell’efficacia dell’ammissione del lavoro all’esterno, nelle more dell’approvazione del provvedimento di revoca (art. 48, comma 15, Reg.). Tanto precisato, non v’è dubbio che il lavoro dei detenuti costituisca una delle principali componenti del trattamento rieducativo, tant’è che “lo stesso carattere obbligatorio del lavoro penitenziario dei condannati e degli internati si pone come uno dei mezzi al fine del recupero della persona, valore centrale per il (...) sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo”. Ciò che la legge prevede è, per l’appunto, che al condannato sia, salvo caso di impossibilità, assicurato un lavoro, nella forma consentita più idonea, all’interno o all’esterno dell’istituto e, se è vero, che il lavoro del detenuto, intramurario o esterno, « presenta le peculiarità derivanti dalla inevitabile connessione tra profili del rapporto di lavoro e profili organizzativi, disciplinari e di sicurezza (...) per cui è ben possibile che la regolamentazione di tale rapporto conosca delle varianti o delle deroghe rispetto a quella del rapporto dì lavoro in generale (...) Tuttavia, né tale specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato» (Corte costituzionale,  158/2001); «Il lavoro dei detenuti, sia che venga svolto in favore dell’amministrazione penitenziaria, sia che venga effettuato alle dipendenze di terzi, implica una serie di diritti e di obblighi delle parti, modulati sulla base contrattuale dei singoli rapporti instaurati. (...) La configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dai rapporti di lavoro dei detenuti possono (...) non coincidere con quelle che contrassegnano il lavoro libero, se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena», è comunque illegittima «ogni irrazionale ingiustificata discriminazione, con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini» (Corte costituzionale, 341/2006). Sicché, alla luce del chiaro dato normativo e, massimamente, dei principi più volte ribaditi dal giudice delle leggi, discende che solo nello svolgimento del rapporto di lavoro o dell’attività lavorativa si è in presenza di diritti soggettivi perfetti, che non si esauriscono in quelli riconosciuti e garantiti dall’art. 36 Cost. Ad esempio l’art. 48, comma 11, Reg., stabilisce che í detenuti e gli internati ammessi al lavoro esterno esercitano i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti all’esecuzione della misura privativa della libertà; pertanto, è stato ritenuto che ai medesimi siano riconosciuti il diritto di sciopero, lo svolgimento di attività sindacali, la partecipazione ad assemblee sindacali sui luoghi di lavoro, quando si svolgano nel periodo nel quale possono rimanere all’esterno. E, viceversa, essendo anche il lavoro esterno una specifica modalità trattamentale, per la cui applicazione è necessaria a monte, la sua previsione nello specifico programma rieducativo, predisposto all’esito dell’osservazione e della valutazione della personalità e degli specifici bisogni del singolo detenuto, approvato dal magistrato di sorveglianza ed integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione, non è configurabile un diritto soggettivo né all’ammissione, né, correlativamente, un diritto alla stabilità e prosecuzione dello stesso, ché la revoca dell’ammissione al lavoro non si atteggia alla stregua di un licenziamento, ma rientra anch’essa nell’attività trattamentale e nelle previste e consentite modifiche del programma rieducativo individuale. In tal senso deve, pertanto, essere ribadito il principio di diritto secondo il quale «è inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema di ammissione al lavoro all’esterno, in quanto esso ha natura amministrativa e non può farsi rientrare nell’ambito degli atti che incidono comunque sulla libertà personale, ricorribili ex art. 111 Cost. (Sez. 1, 4979/2018).

Principi in tema di retribuzione del lavoro dei detenuti

È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 in relazione agli artt. 3 e 36 Cost. Il lavoro prestato dai detenuti è uno strumento per la loro redenzione ed il loro riadattamento alla vita sociale; non è un elemento di espiazione della pena ma è un metodo di trattamento. È infatti testualmente stabilito che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed e remunerato (art. 20), pur essendo obbligatorio per i condannati ed i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro. Negli istituti penitenziari deve essere favorita in ogni modo la destinazione al lavoro dei detenuti e degli internati. Tuttavia, le condizioni attuali della organizzazione penitenziaria e degli stabilimenti non danno a tutti i detenuti la possibilità di svolgere un lavoro secondo le loro capacita e attitudini. Quelli che lavorano sono solo una minima parte di essi. Comunque, si verificano almeno tre situazioni: a) quella del detenuto che si trova in semilibertà e lavora fuori dello stabilimento; b) quella del detenuto che lavora alle dipendenze di imprese private sotto il diretto controllo della direzione dell’istituto a cui il detenuto o l’internato e assegnato; c) quella del detenuto che lavora all’interno dello stabilimento carcerario, alla diretta dipendenza dell’amministrazione penitenziaria. La questione sollevata riguarda solo quest’ultima situazione. Né vi è omogeneità tra essa e le altre due situazioni, non potendosi dubitare che il rapporto che ivi si instaura è disciplinato dal diritto comune negli elementi essenziali tra cui la retribuzione, pur ritenendosi che, in ogni caso, il lavoro del detenuto è un diritto. In particolare, per quanto riguarda il lavoro svolto nello stabilimento alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, la fattispecie ha delle proprie peculiarità che incidono profondamente sulla struttura del rapporto e sui suoi elementi essenziali. Il rapporto trae origine da un obbligo legale e non da un libero contratto; ha una propria particolare regolamentazione tra cui assumono rilievo le qualità delle parti: quella del lavoratore che è un detenuto e quella del datore di lavoro che e l’amministrazione penitenziaria. Ma soprattutto rilevano le finalità da raggiungere: la redenzione ed il riadattamento del detenuto alla vita sociale; l’acquisto o lo sviluppo dell’abitudine al lavoro e della qualificazione professionale che valgono ad agevolare il reinserimento nella vita sociale. Dette finalità sono assolutamente prevalenti. L’amministrazione non si prefigge né utili né guadagni; si avvale di una mano d’opera disorganica, a volte non qualificata, disomogenea, variabile per le punizioni ed i trasferimenti da stabilimento a stabilimento; i prodotti non sono sempre curati e sempre rifiniti; essi, il più delle volte, si vendono sottocosto. Il compenso previsto per le prestazioni non si denomina retribuzione ma o remunerazione o mercede, determinata con una procedura particolare.  È infatti stabilita con atto amministrativo da parte di una apposita commissione, variamente composita, della quale però fanno parte anche delegati di ciascuna delle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale. Tuttavia, per quanto non possa ritenersi che tale genere di lavoro sia del tutto identico, specie per la sua origine, per le condizioni in cui si svolge, per le finalità cui è diretto e che deve raggiungere, non può assolutamente affermarsi che esso non debba essere protetto specie alla stregua dei precetti costituzionali (artt. 35 e 36 Cost.). Peraltro, una remunerazione di gran lunga inferiore alla normale retribuzione sarebbe certamente diseducativa e controproducente; il detenuto non troverebbe alcun incentivo ed interesse a lavorare e, se lavorasse egualmente, non avrebbe alcun interesse ad una migliore qualificazione professionale. Gran parte delle finalità attribuite al lavoro carcerario sarebbero frustrate e vanificate. Il che in concreto non è alla stregua della legislazione in esame. Infatti, la norma censurata stabilisce anzitutto il principio della equa remunerazione. Essa sancisce che la mercede per ciascuna categoria di lavoratori è equitativamente stabilita. Inoltre, sono specificamente richiamati i contenuti del precetto costituzionale (art. 36 cost.). Si prevede, infatti, che la mercede debba essere determinata in relazione alla quantità ed alla qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione ed al tipo di lavoro del detenuto. Infine, si prende in considerazione il trattamento previsto dai contratti collettivi. Vero è che è stabilito un trattamento minimo non inferiore ai due terzi del salario previsto da quest’ultimi, ma trattasi solo di una determinazione nel minimo, mentre non può escludersi l’osservanza del criterio della relazione con la quantità e la qualità del lavoro prestato e nemmeno possono trascurarsi, secondo il precetto costituzionale, i bisogni della famiglia di chi lavora. Infine, non può del tutto escludersi che, trattandosi di un diritto soggettivo, il lavoratore possa adire, come nella specie, il giudice del lavoro il quale può disapplicare l’atto determinativo della mercede se importi violazione dei surrichiamati precetti costituzionali (Corte costituzionale, sentenza 1087/1988).

Competenza per le controversie di lavoro tra il detenuto e l’Amministrazione penitenziaria

È costituzionalmente illegittimo l’art. 69, comma 6, lett. a) nella parte in cui attribuisce al magistrato di sorveglianza la competenza a decidere sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti anche l’osservanza delle norme sulla loro attività lavorativa. “Non v’è dubbio che il detenuto abbia diritto a far valere in giudizio le pretese nascenti dalla prestazione di attività lavorative. È parimenti certo che sia il detenuto sia la sua controparte abbiano diritto ad un procedimento giurisdizionale basato sul contraddittorio. Se si valuta la norma impugnata nella prospettiva delle suesposte garanzie costituzionali, si deve notare, in primo luogo, che la procedura camerale in essa prevista, tipica dei giudizi davanti al magistrato di sorveglianza, non assicura al detenuto una difesa nei suoi tratti essenziali. Per altro verso, la disposizione non assicura adeguata tutela al datore di lavoro” (Corte costituzionale, sentenza 341/2006).

Le controversie inerenti al rapporto di lavoro dei detenuti devono essere devolute al giudice del lavoro (Cass. Civ. 19017/2009).

Prescrittibilità dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro dei detenuti

Premesso che la parte che eccepisce la prescrizione non è tenuta a specificare la norma di legge ed il tipo di prescrizione applicabile, essendo compito esclusivo del giudice la qualificazione giuridica dei fatti e l’individuazione della disciplina applicabile (SU, 10955/2002), deve rilevarsi che, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ. Sez. L, 9969/2007, 22077/2007, 24642/2007, 21573/2007, 6952/2010, 3111/2010) il termine di prescrizione non decorre in costanza di rapporto di lavoro del detenuto con l’amministrazione della giustizia in quanto il rapporto non gode di stabilità. In particolare si è evidenziato che “Le oggettive caratteristiche del lavoro carcerario presentano tratti comuni a quelli che in altri rapporti di lavoro giustificano la non decorrenza del termine prescrizionale dei diritti del lavoratore durante lo svolgimento del rapporto e che non si identificano necessariamente col timore di rappresaglie da parte del datore di lavoro, come può accadere nel caso del lavoro nautico, marittimo od aereo, pur non potendosi escludere nei confronti del lavoratore carcerario la configurabilità di una situazione di “metus”, comunque giustificativa di detta sospensione, riconducibile alla circostanza che la configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dal rapporto di lavoro dei detenuti possono non coincidere del tutto con quelle che contrassegnano il lavoro libero, in funzione della necessità di mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena e di assicurare le corrispondenti esigenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria”. Del resto, come rimarcato nelle richiamate sentenze, neppure la certezza della stabilità reale talvolta è stata ritenuta sufficiente alla decorrenza della prescrizione in pendenza del rapporto, come é avvenuto quando le dimensioni dell’impresa non fossero esattamente rilevabili dal lavoratore e presentassero oggettiva incertezza oppure nel caso di una serie di contratti di lavoro a tempo determinato da convenire in un unico contratto a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 2 L. 230/1962. Inoltre, “la configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dal rapporto di lavoro dei detenuti possono non coincidere con quelle che contrassegnano il lavoro libero, se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena e per assicurare le corrispondenti esigenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria” (così Corte Costituzionale, sentenza 341/2006), ciò che può determinare nel lavoratore una situazione di metus giustificativa della sospensione della prescrizione (Cass. Civ. Sez. L, 3062/2015).

La sospensione della prescrizione dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro del detenuto permane solo fino alla cessazione del rapporto di lavoro (Cass. Civ. Sez. L, 2696/2015).