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Art. 28

Rapporti con la famiglia

1. Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie.

Rassegna di giurisprudenza

Le limitazioni alla possibilità di incontrare i familiari, in presenza della facoltà comunque riconosciuta di comunicare a distanza con comunicazioni telefoniche e con la corrispondenza scritta, in grado di mantenere le relazioni affettive, non possono intendersi quali forme di compressione della libertà del detenuto, non funzionali all’esecuzione della pena detentiva e contrarie al senso di umanità, quindi ai precetti costituzionali che presiedono all’espiazione carceraria (Sez. 1, 57813/2017).

Ai sensi dell’art. 1, comma 6 e dell’art. 15, i colloqui sono inseriti nel trattamento di chi è ristretto e assumono rilevanza anche ai fini dell’attività di recupero e rieducazione del condannato, tant’è che l’art. 61, comma 1, lett. a) Reg., consente al direttore dell’istituto di concedere ulteriori colloqui a fronte di pareri positivi espressi dagli operatori del gruppo di osservazione e che la successiva norma dell’art. 73, comma 3, stesso DPR, prescrive la conservazione del diritto ai colloqui con familiari e conviventi anche in caso di sottoposizione del detenuto alla sanzione disciplinare dell’isolamento con esclusione dalle attività in comune. A ciò si aggiunge che anche la disciplina fortemente limitativa dettata dall’art. 41-bis sopra citata nei confronti di soggetti, dotati di particolare pericolosità, non li esclude dai colloqui, che piuttosto regolamenta con l’introduzione di limiti numerici e con la possibilità di adottare, mediante previsioni della normativa attuativa di rango secondario, modalità esecutive di particolare rigore. Del pari anche l’art. 8 CEDU prescrive che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare...”, sicchè eventuali ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto sono coperte da riserva di legge e devono essere giustificate da esigenze di sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, dei diritti e delle libertà altrui. In particolare, la Corte EDU ha avuto modo di occuparsi più volte della compatibilità delle disposizioni degli ordinamenti nazionali, che, nel disciplinare le modalità di esecuzione della pena detentiva, di per sé comportante per sua natura limitazioni alla vita individuale e familiare per il distacco forzato che realizza, prescrivono in vario modo l’isolamento dei detenuti ed inibiscono colloqui con i familiari, con il principio che vieta trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 CEDU; ha quindi stabilito da un lato la necessità che la struttura penitenziaria realizzi qualche forma di controllo sui contatti tra il detenuto ed il mondo esterno (Corte EDU, Sez. 2, Messina c/ Italia, 8/6/1999), dall’altro che la detenzione, per quanto giustificata dalla condanna per gravi reati e da esigenze di tutela della collettività, non può sopprimere in modo assoluto la relazionalità e la vita affettiva mediante l’isolamento completo del prigioniero, che può produrre effetti negativi sulla personalità e la sua desocializzazione con pregiudizi irreversibili sul processo di reinserimento nel contesto civile (Corte EDU, Sez. 2, Van der Ven c. Paesi Bassi, 4/2/2003) (Sez. 1, 7654/2015).

La decisione impugnata ha negato al ricorrente la possibilità di incontro visivo col figlio, parimenti detenuto e sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41-bis, per l’ostacolo frapposto da ragioni di sicurezza e di opportunità, valutate in modo discrezionale dall’amministrazione penitenziaria, secondo le prerogative organizzative e regolamentari, assegnatele dall’ordinamento. Va premesso che anche prima dell’intervento delle modifiche all’ordinamento penitenziario, apportate dalla L. 10/2014, si era già affermata da parte della giurisprudenza di legittimità e costituzionale, la sindacabilità in sede giurisdizionale, mediante reclamo al magistrato di sorveglianza, dei provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria incidenti sulle posizioni soggettive del detenuto, in funzione di tutela sia di veri e propri diritti soggettivi, che di meri interessi legittimi, quando coinvolti dal regime di trattamento. Nel caso di specie viene in rilievo il diritto soggettivo del ricorrente alla vita familiare ed al mantenimento mediante colloqui di relazioni dirette e di presenza con uno dei suoi più stretti congiunti, preclusogli anche in ragione dell’applicazione nei riguardi di tale congiunto del regime differenziato di cui all’41-bis, che, com’è noto, al comma 2-quater lett. a) consente l’adozione nei confronti di detenuti condannati o sottoposti a procedimento per reati specifici di particolare gravità e significativi di spiccata pericolosità sociale, di “misure di elevata sicurezza interna ed esterna che si rivelino necessarie per prevenire contatti con l’organizzazione di appartenenza”, nonché eventuali contrasti con elementi di gruppi contrapposti e l’interazione con detenuti o internati della stessa compagine o di altre a questa alleate. Per contro, la sua applicazione pregiudica anche la situazione detentiva del genitore in un settore della vita penitenziaria, cui l’ordinamento stesso assegna rilevanza quale strumento del percorso trattamentale, finalizzato al reinserimento sociale della persona, secondo quanto è deducibile da più fonti normative. Invero, il testo principale di riferimento nella materia è costituito dall’art. 28, il quale stabilisce che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare, o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”; lo scopo perseguito da tale previsione è quello di impedire che l’abbandono delle abitudini di vita individuale e familiare acquisite in stato di libertà, imposto dall’espiazione della pena in ambito carcerario, comprometta il mantenimento delle relazioni affettive ed i sentimenti verso i congiunti. Ne costituiscono attuazione le singole disposizioni dell’ordinamento penitenziario, ad esempio l’art. 18, comma 3, che espressamente assegna “particolare favore ... ai colloqui con i familiari”, intesi quali occasioni relazionali personali e dirette, perché strumento per il mantenimento dei contatti con quanti sono liberi ed impedire effetti negativi sulla personalità del detenuto, determinati dall’isolamento. Per tali ragioni, ai sensi dell’art. 1, comma 6 e dell’art. 15, i colloqui sono inseriti nel trattamento di chi è ristretto e assumono rilevanza anche ai fini dell’attività di recupero e rieducazione del condannato, tant’è che l’art. 61, comma 1, lett. a) Reg., consente al direttore dell’istituto di concedere ulteriori colloqui a fronte di pareri positivi espressi dagli operatori del gruppo di osservazione e che la successiva norma dell’art. 73, comma 3, Reg. prescrive la conservazione del diritto ai colloqui con familiari e conviventi anche in caso di sottoposizione del detenuto alla sanzione disciplinare dell’isolamento con esclusione dalle attività in comune. A ciò si aggiunge che anche la disciplina fortemente limitativa dettata dall’art. 41-bis sopra citata nei confronti di soggetti, dotati di particolare pericolosità, non li esclude dai colloqui, che piuttosto regolamenta con l’introduzione di limiti numerici e con la possibilità di adottare, mediante previsioni della normativa attuativa di rango secondario, modalità esecutive di particolare rigore. Del pari anche l’art. 8 CEDU prescrive che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare...”, sicchè eventuali ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto sono coperte da riserva di legge e devono essere giustificate da esigenze di sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, dei diritti e delle libertà altrui. In particolare, la Corte EDU ha avuto modo di occuparsi più volte della compatibilità delle disposizioni degli ordinamenti nazionali, che, nel disciplinare le modalità di esecuzione della pena detentiva, di per sé comportante per sua natura limitazioni alla vita individuale e familiare per il distacco forzato che realizza, prescrivono in vario modo l’isolamento dei detenuti ed inibiscono colloqui con i familiari, con il principio che vieta trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 CEDU; ha quindi stabilito da un lato la necessità che la struttura penitenziaria realizzi qualche forma di controllo sui contatti tra il detenuto ed il mondo esterno (Corte EDU, Sez. 2, Messina c. Italia, 8/6/1999), dall’altro che la detenzione, per quanto giustificata dalla condanna per gravi reati e da esigenze di tutela della collettività, non può sopprimere in modo assoluto la relazionalità e la vita affettiva mediante l’isolamento completo del prigioniero, che può produrre effetti negativi sulla personalità e la sua desocializzazione con pregiudizi irreversibili sul processo di reinserimento nel contesto civile (Corte EDU, Sez. 2, Van der Ven c. Paesi Bassi, 4/2/2003). Ebbene, la valutazione del caso specifico dell’interessato, che dal 1996, quindi da quasi vent’anni non può incontrare il figlio perché entrambi ristretti in carceri diversi ed il secondo sottoposto alla sospensione delle regole ordinarie detentive, deve essere considerato alla luce delle norme e dei principi generali sopra richiamati, che l’ordinanza non ha considerato. Pur essendo condivisibile il riconoscimento nella materia specifica all’amministrazione penitenziaria di poteri discrezionali, il cui uso è stato esercitato in funzione della tutela dell’ordine e della sicurezza, sia interna agli istituti, che nei riguardi della generalità dei cittadini sotto il profilo della prevenzione di ulteriori reati, è altrettanto innegabile che la forzata separazione di un padre dal figlio per un periodo di tempo così prolungato incide negativamente sul mantenimento della loro relazione affettiva, sulla vita familiare e sul rispettivo percorso trattamentale, integrando condizioni restrittive particolarmente penose ed avvilenti e precludendo in assoluto l’esercizio di un diritto soggettivo ai colloqui. Si pone dunque il problema di come conciliare queste opposte esigenze in modo da non dare attuazione soltanto ad una di esse a scapito dell’altra. A tal fine si evidenzia che il magistrato di sorveglianza ha offerto una lettura parziale della normativa di riferimento, ha attribuito rilievo essenziale alle esigenze di contenimento della pericolosità qualificata del figlio del ricorrente, senza addentrarsi in una considerazione più ampia e di ordine sistematico delle disposizioni di legge diverse dall’art. 41-bis ed egualmente applicabili al caso, ad esempio dell’art. 28. e delle finalità perseguite mediante l’istituto dei colloqui visivi quale strumento per la coltivazione della relazione genitoriale e, suo tramite, per l’espressione della personalità del detenuto. Non si è dunque prospettato la possibilità di una soluzione che contemperi nel caso specifico, al dì fuori di qualunque generalizzazione e per ragioni umanitarie che tengano conto delle privazioni subite dal detenuto in via ininterrotta per quasi due decenni, le esigenze di ordine interno all’istituto e di ordine pubblico con il diritto soggettivo del detenuto ai colloqui mediante un sistema tecnico che garantisca la visione dell’immagine senza comportare spostamenti e contatti fisici diretti. Tale soluzione, la cui praticabilità va verificata in sede di merito, ma la cui ammissibilità va affermata a livello di principio nel riscontrare il vizio di violazione di legge denunciato dal ricorrente, si traduce in concreto nel ricorso alla videoconferenza, ossia a forme di comunicazione controllabili a distanza e tali da impedire il compimento di comportamenti tra presenti, possibile fonte di pericolo per la sicurezza interna dell’istituto o per quella pubblica, in quanto correlati all’attività di organizzazione criminose di stampo mafioso ancora attive ed operanti nelle aree geografiche di provenienza dei detenuti coinvolti (Sez. 1, 7654/2015).