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Art. 35-bis

Reclamo giurisdizionale

1. Il procedimento relativo al reclamo di cui all’articolo 69, comma 6, si svolge ai sensi degli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale. Salvi i casi di manifesta inammissibilità della richiesta a norma dell’articolo 666, comma 2, del codice di procedura penale, il magistrato di sorveglianza fissa la data dell’udienza e ne fa dare avviso, oltre che al soggetto che ha proposto reclamo, anche all’amministrazione interessata, a cui è comunicato contestualmente il reclamo, e che può comparire con un proprio dipendente ovvero trasmettere osservazioni e richieste. (1)

2. Il reclamo di cui all’articolo 69, comma 6, lettera a) è proposto nel termine di dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento.

3. In caso di accoglimento, il magistrato di sorveglianza, nelle ipotesi di cui all’articolo 69, comma 6, lettera a), dispone l’annullamento del provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare. Nelle ipotesi di cui all’articolo 69, comma 6, lettera b), accertate la sussistenza e l’attualità del pregiudizio, ordina all’amministrazione di porre rimedio entro il termine indicato dal giudice.

4. Avverso la decisione del magistrato di sorveglianza è ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa.

4-bis. La decisione del tribunale di sorveglianza è ricorribile per cassazione per violazione di legge nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa.

5. In caso di mancata esecuzione del provvedimento non più soggetto ad impugnazione, l’interessato o il suo difensore munito di procura speciale possono richiedere l’ottemperanza al magistrato di sorveglianza che ha emesso il provvedimento. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale.

6. Il magistrato di sorveglianza, se accoglie la richiesta:

a) ordina l’ottemperanza, indicando modalità e tempi di adempimento, tenuto conto del programma attuativo predisposto dall’amministrazione al fine di dare esecuzione al provvedimento, sempre che detto programma sia compatibile con il soddisfacimento del diritto;

b) dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del provvedimento rimasto ineseguito;

c) [se non sussistono ragioni ostative, determina, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’amministrazione per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento, entro il limite massimo di 100 euro per ogni giorno. La statuizione costituisce titolo esecutivo; (2)]

d) nomina, ove occorra, un commissario ad acta.

7. Il magistrato di sorveglianza conosce di tutte le questioni relative all’esatta ottemperanza, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario.

8. Avverso il provvedimento emesso in sede di ottemperanza è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge.

(1) Comma così modificato dall’art. 3, comma 1, lett. c), D.Lgs. 123/2018.

(2) Lettera soppressa dalla L. 10/2014.

Rassegna di giurisprudenza

Caratteristiche dell’istituto e del relativo procedimento

…Reclamo ex art. 35-bis come strumento di controllo generale di legalità sull’operato dell’Amministrazione penitenziaria

Il TDS di Roma, secondo la regola posta dall’art. 41-bis, comma 2-sexies, (come modificato dalla L. 94/2009), ha competenza esclusiva sulla sola sussistenza dei presupposti per la adozione del provvedimento di applicazione del regime differenziato previsto dall’art. 41-bis; laddove è, invece, rimessa alla competenza del magistrato di sorveglianza nella cui circoscrizione abbia sede l’istituto penitenziario cui è assegnato il detenuto reclamante (così Sez. 1, 34529/2015), il controllo generale di legalità sull’operato della Amministrazione penitenziaria, ivi comprese le disposizioni del decreto ministeriale di applicazione del regime differenziale eventualmente lesive dei diritti soggettivi delle persone ad esso sottoposte (cfr. Corte costituzionale, sentenza 190/2010). Controllo che deve essere esercitato attraverso lo strumento del rimedio giurisdizionale previsto dall’art. 35-bis, introdotto dall’art. 3 del Dl 146/2013, convertito in L. 10/2014 (Sez. 1, 11597/2019).

…Non necessità del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato per l’Amministrazione penitenziaria

Il reclamo - impugnazione di cui all’art. 35-bis, comma 4, può essere proposto dall’Amministrazione penitenziaria senza il patrocinio e l’assistenza dell’Avvocatura dello Stato (SU, 3775/2018). Non si tratta, pertanto, di un’ipotesi di patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato, rispetto al quale debba valere la previsione di cui all’art. 11 TU 1611/1933, secondo cui “tutte le citazioni, i ricorsi e qualsiasi altro atto di opposizione giudiziale, nonché le opposizioni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative o speciali, od innanzi agli arbìtri, devono essere notificati alle Amministrazioni dello Stato presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato”. Si sarebbe potuto procedere alla notifica dell’ordinanza oggetto di reclamo anche nei confronti della sola Amministrazione penitenziaria e non anche presso l’Avvocatura dello Stato (Sez. 1, 42403/2019).

…Manifesta inammissibilità

Nel procedimento di esecuzione e di sorveglianza, il decreto di inammissibilità per manifesta infondatezza può essere emesso de plano, ai sensi dell’art. 666, comma 2, c.p.p., soltanto quando la richiesta sia identica, per oggetto e per elementi giustificativi, ad altra già rigettata ovvero difetti delle condizioni poste direttamente dalla legge, e sempre che la relativa statuizione non implichi alcun giudizio di merito e apprezzamento discrezionale. Se così non fosse, il decreto di inammissibilità potrebbe soppiantare l’ordinanza camerale di rigetto in tutti i casi - anche complessi e delicati - di mancato accoglimento della richiesta con evidente violazione dei diritti di contraddittorio e di difesa previsti dai commi terzo e quarto dell’art. 666 c.p.p. Dunque, la ratio del provvedimento de plano, in assenza di contraddittorio, consiste proprio nella rilevabilità ictu oculi di ragioni che rivelino alla semplice prospettazione, senza uno specifico approfondimento, la mancanza di fondamento dell’istanza. Ne consegue che, ogniqualvolta si pongano problemi di valutazione che impongono l’uso di criteri interpretativi in relazione al thema probandum, deve essere data all’istante la possibilità di instaurazione del contraddittorio con il procedimento camerale previsto - sul modello di quello tipico ex art. 127 c.p.p. - dall’art. 666, comma 3, c.p.p. (Sez. 1, 6186/2020).

Il procedimento del reclamo giurisdizionale contempla in limine la possibilità di un epilogo precoce, immediato e meramente formale, mediante provvedimento de plano a contenuto vincolato (decreto di inammissibilità) nei casi tassativi “di manifesta inammissibilità della richiesta”, contemplati nella clausola di salvezza dell’art. 35-bis, comma 1, seconda parte, recante rinvio alle previsioni contenute nell’art. 666 c.p.p., comma 2, prima parte, della pura e semplice riproposizione della richiesta “già rigettata, basata sui medesimi elementi”, ovvero della richiesta “manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge”. Le ulteriori disposizioni dell’art. 35-bis disciplinano forme, termini e contenuti del procedimento del reclamo giurisdizionale nel caso alternativo che, in difetto della definizione in limine col decreto, la procedura abbia, invece, corso. Si tratta di un procedimento articolato in due veri e propri gradi di merito - avverso la decisione del magistrato di sorveglianza è ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza ai termini dell’art. 35-bis, comma 4 - integrati dalla previsione del ricorso per cassazione per violazione di legge contro la decisione del Tribunale di sorveglianza (art. 35-bis, comma 4). (Sez. 1, 48539/2019).

Il criterio discretivo della legittima declaratoria di inammissibilità de plano, a norma dell’art. 666, comma 2, c.p.p., espressamente richiamato dall’art. 35-bis, comma 2, non risieda nella distinzione tra manifesta infondatezza per difetto dei presupposti formali della domanda e manifesta infondatezza per insussistenza dei requisiti sostanziali di essa, essendo le une e le altre condizioni previste dalla legge, che, ove palesemente carenti, giustificano l’inammissibilità della domanda, quanto piuttosto nella palmare evidenza di tali difetti nel senso che il loro accertamento non deve richiedere alcun giudizio di merito e apprezzamento discrezionale, né implicare la soluzione di questioni controverse. Laddove, invece, non sia rilevabile ictu oculi l’infondatezza della domanda, il decreto di inammissibilità rischierebbe di soppiantare l’ordinanza camerale di rigetto in tutti i casi, anche complessi e delicati, di mancato accoglimento della richiesta, con evidente violazione dei diritti di contraddittorio e di difesa previsti dall’art. 666, commi 3 e 4 c.p.p. Le considerazioni implicanti giudizi di merito e apprezzamenti discrezionali non sono consentite nel provvedimento di inammissibilità, emesso ai sensi dell’art. 666, comma 2, c.p.p. senza fissare l’udienza camerale e, quindi, eludendo il procedimento in contraddittorio previsto dall’art. 666 commi 3 e 4 c.p.p. interamente richiamato dall’art. 35-bis in tema di reclamo proposto a norma dell’art. 69, comma 6. Ciò determina la nullità di ordine generale e assoluto, rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, del provvedimento del magistrato di sorveglianza assunto de plano, senza fissazione dell’udienza in camera di consiglio, fuori dei casi espressamente stabiliti dalla legge (Sez. 1, 43241/2018).

Il ricorso da parte del magistrato di sorveglianza alla procedura semplificata prevista dall’art. 666, comma 2, c.p.p. (espressamente richiamato nell’art. 35-bis, comma 1, che disciplina le forme giurisdizionali del reclamo previsto in materia di violazione dei diritti dei detenuti), che consente di evitare la fissazione dell’udienza camerale e il conseguente contraddittorio delle parti, è legittimo nelle sole ipotesi di manifesta infondatezza del reclamo per difetto delle condizioni di legge ovvero perché lo stesso costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi; proprio perché prevede l’esonero dall’osservanza del principio, di rango costituzionale, del contraddittorio, la norma deve ritenersi di stretta interpretazione, e la sua applicazione deve essere circoscritta ai soli casi in cui la presa d’atto della mancanza delle condizioni di legge non implichi giudizi di merito o valutazioni discrezionali. La decisione assunta de plano in assenza dei presupposti di legge ha determinato, pertanto, una nullità di ordine generale di carattere assoluto, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento ai sensi degli artt. 178 e 179 c.p.p., sotto il profilo della violazione del principio del contraddittorio processuale e dell’omesso avviso della fissazione dell’udienza all’interessato e al suo difensore, la cui presenza è obbligatoria nel procedimento giurisdizionale di reclamo, giusta il richiamo alle forme procedimentali dell’art. 678 (che rinvia a sua volta all’art. 666 comma 4) c.p.p., operato dall’art. 35-bis, comma 1 (Sez. 1, 55041/2017).

Necessità del contraddittorio con l’amministrazione penitenziaria e divieto di introduzione di motivi nuovi

Anche nelle ipotesi in cui, non essendo previsti termini perentori per l’introduzione del reclamo iniziale (come nell’ipotesi regolata dal citato art. 69, comma 6, lett. b), a quest’ultimo vada negata la natura di mezzo d’impugnazione in senso proprio, il contraddittorio con l’Amministrazione - parte necessaria del procedimento, da citare quindi a pena di nullità (Sez. 1, 26791/2009) - si instaura sulla base dei motivi originari del reclamo stesso, del quale essa riceve, per legge, integrale comunicazione. La partecipazione all’udienza del funzionario dell’Amministrazione è invece prevista in termini di facoltatività, né è stabilito alcun meccanismo processuale che consenta l’interlocuzione di essa, e quindi il “recupero” dell’indispensabile contraddittorio, in relazione ad oggetti distinti, che dovessero formare oggetto di doglianze del detenuto successive al reclamo già presentato e notificato, da ritenere pertanto non ammesse (a differenza della mera integrazione delle ragioni a sostegno dell’accoglimento, sull’oggetto già ritualmente devoluto, che di per sé non violerebbe le prerogative difensive della controparte) (Sez. 1, 912/2020).

…Effetto devolutivo per il reclamo dinanzi al TDS

Il reclamo dinanzi il TDS è un mezzo di impugnazione soggetto al principio devolutivo sicché non è consentita la trattazione di temi non compreso nel reclamo medesimo (SU, 3775/2018).

…Controllo spettante al giudice di legittimità

Il controllo affidato al giudice di legittimità ex art. 35-bis, comma 4-bis (che prevede il ricorso per cassazione per violazione di legge), è esteso, oltre che all’inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, alla mancanza di motivazione, dovendo in tale vizio essere ricondotti tutti i casi nei quali la motivazione stessa risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito, ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da fare rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione (Sez. 7, 762/2020).

Avverso l’ordinanza del magistrato di sorveglianza in materia disciplinare, pronunciata ai sensi degli artt. 69, comma 6 e 35-bis, non può ritenersi ammissibile il ricorso diretto per cassazione, essendo tale provvedimento privo della natura di sentenza ed essendo il medesimo espressamente impugnabile con reclamo al TDS ex art. 35-bis, comma 4. Ciò a condizione che il magistrato di sorveglianza non dichiari l’inammissibilità della richiesta, ai sensi dell’art. 666, comma 2, c.p.p.., atteso che in tale evenienza, espressamente richiamata dal primo comma del menzionato art. 35-bis, il ricorso immediato per cassazione è, invece, esperibile (Sez. 1, 16914/2018).

…Procedimento di ottemperanza

Il procedimento di ottemperanza ai sensi dell’art. 35 bis comma 5 presuppone la mancata esecuzione, da parte dell’amministrazione penitenziaria, del provvedimento del magistrato di sorveglianza di accoglimento del reclamo giurisdizionale proposto dal detenuto e rappresenta una prosecuzione funzionale del giudizio di cognizione, rispetto al quale non possono trovare ingresso domande aventi carattere di novità e non può essere rivalutato il contenuto delle statuizioni emesse (Osserva la Corte che, nel caso di specie, il detenuto avrebbe richiamato nella memoria inerente il giudizio una precedente richiesta che avrebbe riguardato «l’inserimento in TV dei canali» e che sarebbe stata poi respinta. Pertanto, si sarebbe al cospetto di una nuova istanza, del tutto distinta rispetto alla prima statuizione e alla richiesta di ottemperanza che la riguardava, sicché essa non avrebbe avuto, comunque, rilevanza in relazione alla procedura in esame) (Sez. 1, 29/2022).

È noto che l’art. 35-bis - introdotto nell’ordinamento dall’art. 3, comma 1, lett. b), DL 146/2013, convertito dalla L. 10/2014, al fine di colmare il deficit di tutela nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti e internati, stigmatizzato dalla sentenza costituzionale n. 26 del 1999 - istituisca e regoli, allo scopo, un procedimento di natura giurisdizionale, svolgentesi in contraddittorio dinanzi alla magistratura di sorveglianza, in duplice grado di merito, e destinato a concludersi, in caso di accertata fondatezza delle ragioni dell’interessato, con l’adozione di provvedimenti idonei a conformare, nella specie, l’operato dell’Amministrazione stessa. Trattandosi di provvedimenti costituenti esercizio della funzione giurisdizionale, e al fine ulteriore di assicurare l’effettività della tutela rispetto ad eventuali condotte dell’Autorità amministrativa inerti, elusive o, addirittura, di aperto contrasto, i commi 5 e ss. del menzionato art. 35-bis strutturano un procedimento ulteriore, diretto a garantire, se del caso, l’ottemperanza della precedente decisione, una volta che questa sia divenuta definitiva per esaurimento dei mezzi d’impugnazione. Esso rappresenta una «prosecuzione funzionale» del giudizio di cognizione rivelatosi non ancora pienamente satisfattivo (Sez. 1, 39142/2017), nel quale, da un lato, non possono trovare ingresso profili nuovi di lesione, e d’altra parte non possono essere rimessi in discussione, se non muta il quadro regolatorio legale, le statuizioni di accoglimento già adottate. La legge delinea, in questo modo, un rimedio giudiziario particolarmente incisivo, all’esito del quale il giudice adito può dettare all’Amministrazione tempi e modalità di adempimento, può dichiarare nulli gli atti della medesima violativi o elusivi del giudicato e, all’occorrenza, può nominare un commissario ad acta con poteri sostitutivi, che opera sotto il suo controllo (art. 35-bis, comma 6; si confronti, al riguardo, Sez. 1, 30382/2019). L’effetto conformativo, che la decisione assunta in cognizione è idoneo a produrre, è da porre, tuttavia, in stretta correlazione con il caso individualmente trattato e definito. Il carattere vincolante della decisione, oggetto di ottemperanza, si misura parimenti in rapporto a quest’ultimo (Sez. 1, 72/2020).

Situazioni giuridiche soggettive attive tutelabili attraverso il reclamo ex art. 35-bis. Diritti soggettivi e interessi legittimi

La previsione di legge di cui all'art. 35-bis, comma 7, afferma una piena potestà giurisdizionale esecutiva che si estende alla valutazione della congruità degli atti posti in essere dal commissario ad acta al fine di garantire l'esatta ottemperanza alla decisione emessa in cognizione (Sez. 1, 40593/2021).

Lo strumento del reclamo previsto dall’art. 35-bis non è attivabile in presenza di qualunque situazione di interesse riferibile al detenuto, ma soltanto quanto questa sia qualificabile in termini di diritto soggettivo e a condizione che esso sia inciso attraverso un esercizio illegittimo della potestà amministrativa da parte della direzione dell’istituto o a seguito di comportamenti illegittimi (o finanche illeciti) da parte degli operatori penitenziari (Sez. 1, 5450/2020).

Il reclamo al magistrato di sorveglianza risulta ammissibile allorquando si versi al cospetto di un pregiudizio grave ed attuale. Il requisito di gravità, per essere suscettibile di giustiziabilità, deve assumere un minimum di consistenza strutturale e non può rivelarsi con connotati di tale lievità da apprezzarsi, piuttosto, come un puro disagio o fastidio (fattispecie in cui è stata esclusa la gravita del pregiudizio subito da un detenuto cui è stata negata la consegna di un pettine) (Sez. 7, 9071/2017).

Spetta al giudice amministrativo, e non alla magistratura di sorveglianza, la giurisdizione sul reclamo del detenuto avverso il provvedimento dell’amministrazione penitenziaria che abbia rigettato la sua domanda di essere trasferito in un istituto ubicato nel territorio di residenza dei familiari. Nel caso di specie viene infatti in rilievo un interesse legittimo e non un diritto soggettivo (Tribunale di sorveglianza di Perugia, ordinanza 17-21 dicembre 2015).

È indubitabile che il reclamo al magistrato di sorveglianza, a norma dell’art. 35, costituisce l’unico rimedio apprestato dall’ordinamento in vigore al condannato detenuto, che intenda far valere una violazione del proprio diritto di difesa, sotto specie del diritto ad avere colloqui con il proprio difensore, diritto che si assume illegittimamente negato dall’autorità amministrativa penitenziaria. Ora, poiché nell’ordinamento, secondo il principio di assolutezza, inviolabilità e universalità del diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.), non v’è posizione giuridica tutelata di diritto sostanziale, senza che vi sia un giudice davanti al quale essa possa essere fatta valere, è inevitabile riconoscere carattere giurisdizionale al reclamo al magistrato di sorveglianza, che l’ordinamento appresta a tale scopo. L’unica alternativa sarebbe, in astratto, quella di ritenere la materia rimessa al giudice amministrativo in sede di giurisdizione generale di legittimità. Ma, nella specie, ciò che il reclamante lamenta non è il cattivo esercizio di un potere discrezionale dell’amministrazione penitenziaria, bensì il mancato riconoscimento – in forza della lacuna normativa denunciata – di un diritto fondamentale, com’è il diritto inviolabile alla difesa, sub specie di diritto al colloquio con il proprio difensore (Corte costituzionale, sentenza 212/1997).

Sono tutelabili avanti al magistrato di sorveglianza con lo strumento del reclamo giurisdizionale tutte le posizioni giuridiche soggettive dei detenuti e degli internati. Nella materia in esame, deve ritenersi superata la distinzione tra diritti e interessi legittimi; al magistrato di sorveglianza è attribuita in via esclusiva la giurisdizione su tutto quello che incide sulla sfera soggettiva del detenuto e che sia conseguenza dello svolgimento del trattamento penitenziario in senso lato; per cui il termine diritto usato dal legislatore non avrebbe funzione limitante né sarebbe stato usato in senso tecnico, ma si riferirebbe, invece, alla globalità delle situazioni giuridiche dei detenuti vantate nei confronti dell’Amministrazione preposta all’esercizio del potere punitivo. In questa prospettiva l’alternativa è tra posizioni giuridiche tutelate e tutelabili e le aspettative di mero fatto o tra provvedimenti che incidono su posizioni di diritto e provvedimenti che non attengono a posizioni di diritto (Sez. 1, 21704/2008).

È necessaria una ricostruzione poliedrica dei rapporti tra detenuti e amministrazione penitenziaria che si declina nelle forme differenti del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo a seconda della disciplina giuridica di riferimento; la natura proteiforme delle relazioni giuridiche tra privato e amministrazione che caratterizza il complesso dei rapporti all’esterno del carcere tende a replicarsi anche al suo interno dove quasi tutte le attività a disposizione del detenuto sono intercettate dal potere dell’amministrazione. In questa prospettiva, alla luce della precisa indicazione contenuta nell’art.35-bis che parla di pregiudizio all’esercizio del diritto, dovrebbe porsi la questione se gli interessi legittimi, in ipotesi configurabili in capo ai detenuti, siano oggi tutelabili con il reclamo giurisdizionale (Magistrato di sorveglianza di Lecce, ordinanza n. 239 del 27 marzo 2012).

Per poter individuare la natura della posizione giuridica soggettiva meritevole di tutela giurisdizionale, deve aversi riguardo alla tipologia di interesse del soggetto che si assume leso, posto che “soltanto gli interessi che ineriscono a beni essenziali della persona e che rappresentano la proiezione di diritti fondamentali dell’individuo possono essere qualificati in termini di diritti soggettivi (Sez. 1, 17014/2015).

…Criteri sulla destinazione dei detenuti e impugnabilità dinanzi il magistrato di sorveglianza dei relativi provvedimenti

Allorquando provvedimenti comportano la sottoposizione a un regime penitenziario differenziato o, comunque, il suo mantenimento, possono essere oggetto di reclamo al magistrato di sorveglianza ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma 6, ove siano adottati in violazione dei criteri sulla destinazione dei detenuti, fissati in via generale ed astratta dall’amministrazione, risolvendosi in una lesione del diritto soggettivo al trattamento “comune”. Ciò perché, la scelta dell’Amministrazione penitenziaria in ordine alla classificazione di un detenuto, trova fondamento nell’art. 14, secondo cui il raggruppamento dei detenuti nelle sezioni è stabilito in relazione alla possibilità di procedere ad un “trattamento rieducativo comune” e all’esigenza di evitare “influenze nocive reciproche”. Egualmente, l’art. 32 Reg. prevede l’assegnazione ad appositi istituti o sezioni dove sia “più agevole” adottare le cautele per quei detenuti che, con i loro comportamenti, facciano temere per l’incolumità propria o dei compagni, a tutela “da possibili aggressioni o sopraffazioni”. Attraverso la previsione di un regime differenziato, il sistema penitenziario prevede per esigenze di ordine e di sicurezza, la realizzazione di percorsi trattamentali meno completi. Così si può incidere anche sui principi posti dall’art. 13, secondo cui il trattamento penitenziario deve essere individualizzato e deve “rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto”. Gli orientamenti meno recenti della giurisprudenza di legittimità hanno escluso la possibilità di impugnare il provvedimento di assegnazione del detenuto al circuito penitenziario. Esso provvedimento, si affermava, era espressione del potere discrezionale, riservato all’Amministrazione, di organizzare e regolare la vita all’interno degli istituti, in ragione della pericolosità dei detenuti e della necessità di assicurare l’ordinato svolgimento della vita intramuraria e, come tale, non risultava suscettibile di sindacato da parte della magistratura di sorveglianza. In alcuni casi si era richiamato un potere di verifica da parte dell’organo giudiziario sulle “singole disposizioni che lo accompagnano o lo seguono” o sugli “atti esecutivi che siano in concreto lesivi di diritti” Si trattava di orientamenti essenzialmente protesi a privilegiare la salvaguardia di valori di ordine e sicurezza e di osservanza delle regole interne, che non si soffermavano sulla finalità del trattamento stesso e sul sottostante obiettivo di rieducazione. Oggi può ritenersi che l’ordinamento riconosca al detenuto un generale diritto al trattamento penitenziario “non differenziato”, con l’eccezione che l’Amministrazione, in presenza di situazioni di pericolosità del detenuto, che impongano di attuare misure volte ad assicurare la sicurezza interna ed esterna, ha facoltà di sottoporlo ad un regime differenziato. In tali evenienze, dunque, fermo il diritto al trattamento comune (non differenziato) l’Amministrazione penitenziaria può pacificamente adottare, nell’esercizio di potestà organizzative, misure che incidono sulla originaria posizione soggettiva. A fronte dell’esercizio di poteri siffatti, il detenuto può investire, attraverso lo strumento del reclamo giurisdizionale, il magistrato di sorveglianza, impugnando non tanto la previsione, generale e astratta, che, nel prevedere il circuito penitenziario, definisca le condizioni per la sua assegnazione, quanto piuttosto il provvedimento di assegnazione, in ipotesi adottato in assenza dei requisiti, ovvero, per quanto di interesse in questa sede, il provvedimento con il quale, pur venendo meno i presupposti per l’assegnazione a un determinato circuito, l’amministrazione abbia negato la declassificazione. È un sindacato circoscritto al profilo dei vizi di legittimità dell’atto amministrativo. Non si estende, cioè, al merito della scelta, salvo in casi di assoluta contraddittorietà e manifesta irragionevolezza. assolutamente rimesso esclusivamente alla valutazione dell’Amministrazione penitenziaria. Si intende, allora, come esista un diritto alla assegnazione ad una sezione “comune”, quale momento d’attuazione del diritto al trattamento individualizzato, previsto dalla legge penitenziaria dagli articoli 1, comma 6, 13 e 14, comma 2. In difetto sarebbe sottratta al magistrato di sorveglianza la prima forma di controllo sulla conformità del trattamento di recupero del detenuto, trattamento che passa attraverso l’assegnazione ad un regime che assicuri l’obiettivo e la finalità della risocializzazione. Da ciò la legittimazione al ricorso, in ordine al pregiudizio, grave e attuale, che può derivare all’esercizio del diritto del detenuto dal mantenimento dell’assegnazione nel circuito differenziato. L’introduzione del reclamo giurisdizionale di cui all’art. 35-bis non muta il quadro. Il rimedio è stato introdotto per adeguare la normativa alla soluzione giurisprudenziale che, sull’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza 26/1999), riconosceva la tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti (SU, 25079/2003) con lo strumento della procedura prevista dall’art. 14-ter. Quindi, il reclamo ex artt. 35-bis e 69, comma 6, lett. b) è pacificamente ammissibile in presenza di “inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni della legge penitenziaria e del relativo regolamento dalla quale derivi al detenuto un attuale e grave pregiudizio. Rischia pertanto di essere forviante l’affermazione secondo cui non è possibile proporre reclamo giurisdizionale avverso il provvedimento di assegnazione ad una determinata sezione, mentre è possibile reclamare avverso un provvedimento - eventualmente collegato a tale assegnazione - che determini la violazione effettiva e concreta di uno specifico diritto del detenuto (Sez 1, 52534/2018), in difetto di una precisazione ulteriore che prevede come esso reclamo sia esperibile anche per la violazione del diritto a non subire un trattamento penitenziario non comune, in difetto dei presupposti legittimanti della differenziazione (quali, a titolo esemplificativo, la condizione di pericolosità di esposizione a rischio per l’ordine interno ed esterno) (Sez. 1, 43858/2019).

Alimentazione

L’art. 9, comma 1, stabilisce che ai detenuti sia assicurata «un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata», tra l’altro, «allo stato di salute». La sana alimentazione è garantita in quanto componente del diritto protetto, anche rispetto alla popolazione detenuta, dall’art. 32 Cost., a garanzia del quale si esercita senza dubbio il controllo del giudice di sorveglianza, a norma dell’art. 69, comma 6, lett. b), quale sostituito dall’art. 3, comma 1, lett. il DL 146/2013, convertito dalla L. 10/2014. L’art. 9, nel successivo comma 4, prescrive che «la quantità e la qualità del vitto giornaliero sono determinate da apposite tabelle approvate con decreto ministeriale». In connessione con la fonte primaria l’art. 11, comma 4, Reg. - nell’istituire tali tabelle, che svolgono una funzione integrativa del precetto legale - prevede (per quanto qui d’interesse) che esse siano distinte in base ai criteri di cui al primo comma dell’art. 9 della legge, e quindi anche in relazione al criterio dello stato di salute del detenuto, in cui certamente rientrano le patologie di natura alimentare; che siano redatte in conformità del parere dell’Istituto superiore della nutrizione; che siano periodicamente aggiornate. Ciò posto, non è certamente lecito al giudice sostituirsi agli organi tecnici ed amministrativi a ciò espressamente deputati e stabilire lui stesso ciò che rientri o non rientri nella nozione di alimentazione sana ed equilibrata. È viceversa compito del giudice quello di accertarsi del contenuto delle tabelle vittuarie; di verificare se, e in che misura, esse includessero effettivamente il pesce nella dieta settimanale, tenuto conto delle indicazioni specifiche eventualmente stabilite per i casi d’intolleranza o allergia alimentare; di far rispettare - in caso affermativo - le relative prescrizioni. La particolare dieta del ricorrente, nell’escludere taluni alimenti, ricomprende tipi di pesce assolutamente comuni, notoriamente reperibili sul mercato anche a prezzi economici. A fronte di ciò, e di una tabella vittuaria che dovesse includere una o più porzioni settimanali di pesce nella dieta, l’Amministrazione dovrebbe dare adeguato conto delle contingenti ragioni, di ordine organizzativo, finanziario, o di altra natura, che le impediscano di adeguarvisi, imponendo il bando totale dell’alimento dai pasti del detenuto (Sez. 1, 51209/2018).

Sono assoggettati al rimedio giurisdizionale, dal detenuto attivato, i soli provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria che incidono sui diritti soggettivi del detenuto, causando un pregiudizio grave e attuale, laddove, nel caso in esame, la norma regolamentare astrattamente applicabile - art. 12, comma 6, Reg., secondo cui «i prezzi dei generi in vendita» nell’esercizio commerciale interno all’istituto «devono adeguarsi a quelli esterni» dei generi corrispondenti, risultanti dalle informazioni fornite dall’Autorità comunale del luogo - ha natura direttiva e programmatica, non fondando situazioni di diritto soggettivo perfetto individualmente azionabili; né avendo il ricorrente allegato e dimostrato, come esattamente ritenuto dal giudice di merito, alcuna effettiva e riflessa compromissione del suo diritto (esso sì garantito dall’art. 9) ad una alimentazione sana, sufficiente ed equilibrata (Sez. 7, 10486/2019).

A fronte di un reclamo del detenuto, che in “riferimento al trattamento penitenziario individuale” individuava determinati comportamenti dell’Amministrazione penitenziaria come una “violazione al proprio diritto di libertà di culto religioso, rispetto al quale la dieta vegetariana deve ritenersi un corollario di pratica rituale”, l’essersi il magistrato di sorveglianza limitato a comunicare al ricorrente, all’esito di procedura informale, una relazione dell’amministrazione penitenziaria in merito alla non inclusione di maestri buddisti Zen nel novero dei ministri di culto abilitati all’ingresso nelle strutture penitenziarie ed un provvedimento in materia di vitto, assunto su reclamo di altro detenuto, si configuri effettivamente come “un mancato rispondere con motivazione specifica” al reclamo del detenuto, nel senso che “la comunicazione in questione” non può costituire, in effetti, “valida risposta sia sul piano procedimentale sia sul piano del contenuto” (Sez. 1, 41474/2013).

…Colloqui

L’ordinanza del magistrato di sorveglianza, confermata da quella impugnata, faceva riferimento ad una pronuncia di legittimità; in essa si affermava che la sottoposizione al regime carcerario differenziato di un detenuto non esclude, in via di principio, che lo stesso possa essere autorizzato ad avere colloqui visivi con altro detenuto sottoposto al regime dell’art. 41-bis, legato a questo da rapporti genitoriali o familiari, mediante forme di comunicazione controllabili a distanza (come la videoconferenza), tali da consentire la coltivazione della relazione parentale e, allo stesso tempo, da impedire il compimento di comportamenti fra presenti, idonei a generare pericolo per la sicurezza interna dell’istituto o per quella pubblica (Sez. 1, 7654/2015). In quella pronuncia si richiamava il diritto soggettivo del detenuto alla vita familiare ed al mantenimento mediante colloqui di relazioni dirette e di presenza con uno dei suoi più stretti congiunti, che gli era precluso anche in ragione dell’applicazione nei riguardi di tale congiunto del regime differenziato di cui all’art. 41-bis; questo consente l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna che si rivelino necessarie per prevenire contatti con l’organizzazione di appartenenza, nonché eventuali contrasti con elementi di gruppi contrapposti e l’interazione con detenuti o internati della stessa compagine o di altre a questa alleate. Si osservava che l’applicazione di detto regime “pregiudica anche la situazione detentiva del genitore in un settore della vita penitenziaria, cui l’ordinamento stesso assegna rilevanza quale strumento del percorso trattamentale, finalizzato al reinserimento sociale della persona, secondo quanto è deducibile da più fonti normative”. Le stesse venivano individuate nell’art. 28, che stabilisce che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare, o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”, norma di cui costituiscono attuazione le singole disposizioni dell’ordinamento penitenziario: ad esempio l’art. 18, comma 3, che espressamente assegna “particolare favore ... ai colloqui con i familiari”, intesi quali occasioni relazionali personali e dirette, perché strumento per il mantenimento dei contatti con quanti sono liberi ed impedire effetti negativi sulla personalità del detenuto, determinati dall’isolamento. Per tali ragioni, ai sensi dell’art. 1, comma 6, e dell’art. 15, i colloqui sono inseriti nel trattamento di chi è ristretto e assumono rilevanza anche ai fini dell’attività di recupero e rieducazione del condannato, tant’è che l’ art. 61, comma 1, lett. a), Reg., consente al direttore dell’istituto di concedere ulteriori colloqui a fronte di pareri positivi espressi dagli operatori del gruppo di osservazione e che la successiva norma dell’art. 73, comma 3, Reg., prescrive la conservazione del diritto ai colloqui con familiari e conviventi anche in caso di sottoposizione del detenuto alla sanzione disciplinare dell’isolamento con esclusione dalle attività in comune. La pronuncia osservava che “la disciplina fortemente limitativa dettata dall’art. 41-bis, sopra citata nei confronti di soggetti, dotati di particolare pericolosità, non li esclude dai colloqui, che piuttosto regolamenta con l’introduzione di limiti numerici e con la possibilità di adottare, mediante previsioni della normativa attuativa di rango secondario, modalità esecutive di particolare rigore”. Un’altra norma di riferimento era indicata nell’art. 8 CEDU, che prescrive che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare ...”, sicché eventuali ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto sono coperte da riserva di legge e devono essere giustificate da esigenze di sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, dei diritti e delle libertà altrui. Veniva evocata la giurisprudenza della Corte EDU, che ha stabilito, da un lato la necessità che la struttura penitenziaria realizzi qualche forma di controllo sui contatti tra il detenuto ed il mondo esterno, dall’altro che la detenzione, per quanto giustificata dalla condanna per gravi reati e da esigenze di tutela della collettività, non può sopprimere in modo assoluto la relazionalità e la vita affettiva mediante l’isolamento completo del prigioniero, che può produrre effetti negativi sulla personalità e la sua desocializzazione con pregiudizi irreversibili sul processo di reinserimento nel contesto civile. La pronuncia condivideva “il riconoscimento nella materia specifica all’amministrazione penitenziaria di poteri discrezionali, il cui uso è stato esercitato in funzione della tutela dell’ordine e della sicurezza, sia interna agli istituti, che nei riguardi della generalità dei cittadini sotto il profilo della prevenzione di ulteriori reati”; osservava, tuttavia, che “la forzata separazione di un padre dal figlio per un periodo di tempo così prolungato incide negativamente sul mantenimento della loro relazione affettiva, sulla vita familiare e sul rispettivo percorso trattamentale, integrando condizioni restrittive particolarmente penose ed avvilenti e precludendo in assoluto l’esercizio di un diritto soggettivo ai colloqui”; poneva, quindi, “il problema di come conciliare queste opposte esigenze in modo da non dare attuazione soltanto ad una di esse a scapito dell’altra”. Secondo la Corte, in quel procedimento “il Magistrato di Sorveglianza ha offerto una lettura parziale della normativa di riferimento, ha attribuito rilievo essenziale alle esigenze di contenimento della pericolosità qualificata del figlio del ricorrente, senza addentrarsi in una considerazione più ampia e di ordine sistematico delle disposizioni di legge diverse dall’art. 41 bis, ed egualmente applicabili al caso, ad esempio dell’art. 28 e delle finalità perseguite mediante l’istituto dei colloqui visivi quale strumento per la coltivazione della relazione genitoriale e, suo tramite, per l’espressione della personalità del detenuto. Non si è dunque prospettata la possibilità di una soluzione che contemperi nel caso specifico, al di fuori di qualunque generalizzazione e per ragioni umanitarie che tengano conto delle privazioni subite dal detenuto in via ininterrotta per quasi due decenni, le esigenze di ordine interno all’istituto e di ordine pubblico con il diritto soggettivo del detenuto ai colloqui mediante un sistema tecnico che garantisca la visione dell’immagine senza comportare spostamenti e contatti fisici diretti”. La Corte aveva cura di precisare che la praticabilità di tale soluzione avrebbe dovuto essere verificata in sede di merito, ma la affermava a livello di principio, riscontrando il vizio di violazione di legge denunciato dal ricorrente; evocava il ricorso alla videoconferenza, “ossia a forme di comunicazione controllabili a distanza e tali da impedire il compimento di comportamenti tra presenti, possibile fonte di pericolo per la sicurezza interna dell’istituto o per quella pubblica, in quanto correlati all’attività di organizzazioni criminose di stampo mafioso ancora attive ed operanti nelle aree geografiche di provenienza dei detenuti coinvolti.” Il magistrato di sorveglianza avrebbe dovuto condurre la verifica demandata, rapportandola ai principi esposti (Sez. 1, 16557/2019).

…Corrispondenza

L’art. 41 -bis, comma 2-quater, lett. a) e c), nel testo novellato dalla L. 94/2009 (recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica"), consente all’Amministrazione penitenziaria di adottare, tra le misure di elevata sicurezza interna ed esterna volte a prevenire contatti del detenuto in regime differenziato con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri, riviste e stampa in genere. Ciò in ragione della possibilità che libri e riviste costituiscano veicolo di comunicazioni illecite tra il detenuto e esponenti dell’organizzazione criminale di appartenenza che si trovino in libertà. Al medesimo fine, il DAP aveva adottato, il 6/11/2011, una prima circolare (identificata dal n. 8845/2011), recante un complesso di disposizioni in ordine all’ingresso, alla circolazione e alla detenzione della stampa nell’ambito delle sezioni degli istituti penitenziari destinate ad accogliere i detenuti in regime speciale, con cui era stato stabilito che qualsiasi tipo di stampa autorizzata (quotidiani, riviste, libri) potesse essere acquistata dai detenuti in regime speciale solo nell’ambito dell’istituto, tramite l’impresa di mantenimento o personale delegato dalla direzione, con conseguente divieto di ricevere libri e riviste provenienti dall’esterno, e in particolare dai familiari, sia a mezzo posta sia tramite consegna in occasione dei colloqui, così come di trasmettere, all’esterno, tale materiale da parte del detenuto. Tali disposizioni erano state, successivamente, disapplicate con provvedimenti di alcuni magistrati di sorveglianza, secondo cui esse avrebbero leso i diritti di informazione e di studio dei detenuti, introducendo penalizzanti ostacoli all’acquisizione dei testi necessari per l’esercizio di tali diritti, incidendo, altresì, sulla libertà di corrispondenza, sancita dall’art. 15 Cost. I provvedimenti di disapplicazione della circolare ministeriale erano stati, tuttavia, annullati dalla Corte di cassazione, secondo cui l’Amministrazione penitenziaria aveva regolarmente esercitato il «potere regolamentare» per la concreta applicazione delle restrizioni stabilite dall’ordinamento penitenziario, senza rendere inutilmente più gravoso lo speciale trattamento e senza un’inutile compressione dei diritti costituzionalmente garantiti anche al detenuto (cfr. tra le altre, Sez. 1, 1774/2015). Inoltre, secondo la giurisprudenza di legittimità, la ricezione e lo scambio della stampa non avrebbero potuto essere ricondotti al concetto di «corrispondenza» in senso stretto (Sez. 1, 19204/2015), essendo quest’ultima limitata alle forme di comunicazione del proprio pensiero a persone determinate tramite scritti, sostitutiva della comunicazione verbale e strumentale al mantenimento delle relazioni interpersonali e affettive e non comprensiva, pertanto, della ricezione dall’esterno, tramite servizio postale, di pubblicazioni - quali libri e riviste - che riportano il pensiero di terzi. E proprio per le limitazioni nella ricezione della stampa, dalla sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis derivava la sottoposizione a una disciplina speciale, derogatoria di quella dettata dall’art. 18-ter, giustificata dal più elevato livello di pericolosità del detenuto (Sez. 1, 1774/2015). Va, peraltro, osservato che la stessa giurisprudenza di legittimità aveva anche osservato, condivisibilmente, come la mancata consegna, al detenuto in regime speciale, di pacchi postali contenenti libri o riviste provenienti dall’esterno non potesse assimilarsi al «trattenimento» della stampa di cui all’art. 18-ter, comma 5, demandato, da tale disposizione, all’AG. Ciò in quanto, diversamente dal trattenimento, la mancata consegna non sottraeva gli stampati alla disponibilità tanto del mittente quanto del destinatario, ma aveva il solo effetto di non consentire l’ingresso dei libri e delle riviste nell’istituto, ferma restando la facoltà del mittente di pretenderne in qualunque momento la restituzione; sicché, in definitiva, la mancata consegna configurava un semplice “respingimento” (Sez. 1, 50158/2014), analogo a quello che l’Amministrazione penitenziaria poteva disporre nei casi in cui un pacco postale o gli oggetti in esso contenuti non fossero conformi alla normativa di ordinamento penitenziario o alle prescrizioni del regolamento interno di istituto. 4.2. A fronte dell’indirizzo giurisprudenziale prima ricordato, che aveva riconosciuto la correttezza dell’azione amministrativa, il DAP aveva emanato, in data 11/2/2014, una nuova circolare, con la quale aveva ripristinato le disposizioni della circolare oggetto dei provvedimenti di disapplicazione. La relativa disciplina è stata, infine, ritenuta compatibile con i principi della Carta fondamentale da parte della Corte costituzionale, la quale, con sentenza 122/2017, ha ritenuto che le disposizioni in questione non violassero la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), intesa nel suo significato passivo di diritto di essere informati e del diritto allo studio (artt. 33 e 34 Cost.), sottolineando come il diritto dei detenuti in regime speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di loro scelta non fosse limitato da tale disciplina, essendo agli stessi semplicemente imposto di servirsi, per la relativa acquisizione, dell’istituto penitenziario, al fine di evitare che il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di comunicazioni occulte con l’esterno. E parimenti infondata è stata ritenuta la censura di violazione della libertà di corrispondenza (art. 15 Cost.), non potendo la trasmissione di libri e riviste rientrare nella nozione di «corrispondenza» in quanto inidonei a fungere da veicolo di comunicazione di un pensiero proprio del mittente, indirizzato in modo specifico ed esclusivo al destinatario, posto che, in tal modo opinando, si sarebbe dovuto riconoscere alla persona detenuta, in nome della libertà di corrispondenza, il diritto di scambiare con l’esterno, senza alcuna restrizione quali-quantitativa - fin tanto che non intervenisse uno specifico provvedimento limitativo dell’AG - non soltanto libri e riviste, ma qualsiasi tipo di oggetto (Sez. 1, 5211/2020).

È consolidato l’orientamento secondo il quale il divieto all’utilizzo di determinati strumenti di comunicazione (nella specie contatti di tipo informatico) non costituisce limitazione alla libertà di corrispondenza (Sez. 7, 18394/2019).

…Diritto allo studio

Il ricorrente ha prospettato la lesione di un diritto soggettivo, il diritto allo studio, cui lo stesso ordinamento penitenziario assegna rilevanza quale strumento del percorso trattamentale, finalizzato al reinserimento sociale della persona: l’art. 19, comma 4, stabilisce che “ è agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari ed equiparati”; l’art. 42 prevede i trasferimenti per motivi di studio; l’art. 44 Reg. prevede particolari agevolazioni per il compimento degli studi universitari dei detenuti e degli internati che risultino iscritti ai corsi di studio o che siano in possesso dei requisiti per l’iscrizione a tali corsi. La prospettazione dell’istante involge, pertanto, un diritto soggettivo e articola doglianze che ne investono la tutela, così incidendo sulla qualificazione della domanda e sul modello procedimentale da adottare. Va, infatti, rammentato che, se la domanda, implicitamente o esplicitamente, afferma di denunciare la violazione di un diritto e sia prima facie configurabile una posizione giuridica inquadrabile nella categoria del diritto soggettivo, il fondamento della domanda è quel diritto e la procedura giurisdizionale va doverosamente adottata (Sez. 1, 414174/2013). Il ricorso da parte del magistrato di sorveglianza alla procedura semplificata prevista dall’art. 666, comma 2, c.p.p. (espressamente richiamato nell’art. 35-bis, comma 1, che disciplina le forme giurisdizionali del reclamo previsto in materia di violazione dei diritti dei detenuti), che consente di evitare la fissazione dell’udienza camerale e il conseguente contraddittorio delle parti, è legittimo nelle sole ipotesi di manifesta infondatezza del reclamo per difetto delle condizioni di legge ovvero perché lo stesso costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi; proprio perché prevede l’esonero dall’osservanza del principio, di rango costituzionale, del contraddittorio, la norma deve ritenersi di stretta interpretazione, e la sua applicazione deve essere circoscritta ai soli casi in cui la presa d’atto della mancanza delle condizioni di legge non implichi giudizi di merito o valutazioni discrezionali. La decisione assunta de plano in assenza dei presupposti di legge ha determinato, pertanto, una nullità di ordine generale di carattere assoluto, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento ai sensi degli artt. 178 e 179 c.p.p., sotto il profilo della violazione del principio del contraddittorio processuale e dell’omesso avviso della fissazione dell’udienza all’interessato e al suo difensore, la cui presenza è obbligatoria nel procedimento giurisdizionale di reclamo, giusta il richiamo alle forme procedimentali dell’art. 678 (che rinvia a sua volta all’art. 666 comma 4) c.p.p., operato dall’art. 35-bis, comma 1 (Sez. 1, 55041/2017).

I detenuti non hanno il diritto soggettivo di avvalersi dell’assistenza in alcune materie didattiche di un insegnante dell’istituto scolastico presso ii quale sono iscritti. Non si deve, invero, confondere il diritto soggettivo con le modalità del suo esercizio e, mentre la negazione del primo integra lesione suscettibile di reclamo al magistrato di sorveglianza, le modalità di esplicazione del diritto restano affidate alle scelte discrezionali dell’Amministrazione penitenziaria in funzione delle esigenze di ordine e disciplina interna, che, ove non manifestamente irragionevoli ovvero sostanzialmente inibenti la fruizione del diritto, non sono sindacabili in sede giurisdizionale (Sez. 7, 2478/2018).

…Elevato indice di vigilanza

L’inserimento nel circuito EIV, volto ad assicurare, nell’ambito dei poteri di organizzazione e sicurezza degli istituti, l’ordine interno e la personale incolumità dei detenuti, non è assimilabile ai provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 14-bis (sottoposizione a regime di sorveglianza particolare) e 41-bis, comma 2, perchè, senza limitare la partecipazione al trattamento rieducativo ed alle attività consentite dal regolamento interno, stabilisce soltanto, per ragioni di opportunità, la collocazione del soggetto in determinati istituti o sezioni a sorveglianza rafforzata, con la prescrizione di cautele dettate non solo in relazione alla sua particolare pericolosità, ma anche al fine di evitare atti di autolesionismo o aggressioni da parte di altri detenuti. Ne consegue che il relativo provvedimento, di esclusiva e discrezionale competenza dell’Amministrazione penitenziaria, ove non ecceda la funzione tipica che gli è propria non è in sè suscettibile di ledere diritti soggettivi e si sottrae quindi al controllo del magistrato di sorveglianza, mentre possono costituire ammissibile oggetto di reclamo le singole disposizioni o atti esecutivi che siano in concreto lesivi dei diritti incomprimibili del detenuto (Sez. 1, 46269/2007).

…Permanenza all’aperto

La sovrapposizione tra permanenza all’aria aperta e tempo dedicato alla socialità (come proposta nella circolare DAP del 2017) costituisce una operazione non corretta, perchè accomuna senza ragione due differenti ipotesi, la cui unica connotazione comune (lo stare al di fuori della camera detentiva) mostra gli aspetti della irrilevanza ai fini che qui interessano; - la permanenza all’aria aperta risponde a primarie esigenze igienico-sanitarie e la limitazione della durata ad una sola ora può avvenire non già in via generale - tramite una circolare- ma solo in rapporto ad esigenze eccezionali da motivarsi in concreto, nei confronti del singolo detenuto (come previsto dall’art. 16 comma 3 Reg.) ; - l’interpretazione sistematica delle disposizioni di legge va sempre operata in riferimento a canoni di ragionevolezza e di rispetto dei contenuti delle norme costituzionali, il che porta a ritenere possibili limitazioni ’ulteriori’ dei diritti riconosciuti dalla legge ai soggetti in esecuzione della pena solo lì dove funzionali, in concreto, ad esigenze di ordine e sicurezza interne agli istituti, risolvendosi - in caso contrario - in un incremento di afflittività non rispondente ai contenuti dell’art. 27 comma 3 Cost. Va pertanto ribadito che il contenuto della circolare ministeriale - in tale parte - introduce una illegittima modalità di restrizione, in via generale (sia pure per un insieme di soggetti raggiunti dal decreto di sottoposizione al regime differenziato) di un diritto soggettivo alla fruizione di due ore di permanenza all’aperto giornaliere, la cui limitazione richiede, per converso, l’adozione di un provvedimento motivato che dia conto di particolari ragioni relative al singolo detenuto. Peraltro va anche rilevato che con modifica legislativa (D. Lgs. 123/2018) del testo dell’art. 10, il limite legale minimo di permanenza all’aperto è stato elevato a quattro ore, con possibile restrizione - in caso di giustificati motivi - ad un tempo non inferiore alle due ore e tale nuovo assetto normativo rafforza ulteriormente le conclusioni cui si è pervenuta la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, 24827/2019).

La semplice lettura dell’art. 16 Reg. (che si occupa sia della permanenza all’aperto che delle attività in comune) e dell’art. 12 (in materia di attività in comune) evidenzia la netta distinzione fra le ore d’aria e quelle di socialità sotto il profilo dell’ambito spaziale e delle modalità delta fruizione proprio in ragione della diversità funzionale delle due figure. Indicazioni nello stesso senso si traggono dall’art. 36 Reg. Una sistematica lettura che mostra come l’unica condizione in comune fra la permanenza all’aria e la socialità sia rappresentata dallo star fuori dalla cella, ossia da qualcosa cui non è associabile alcunché di rilevante ai fini di cui trattasi. E deve essere ancora sottolineato che la permanenza all’aperto adempie in modo evidente a primarie finalità di contenimento degli effetti della privazione della libertà, secondo specifiche esigenze di natura sanitaria e psicologica, sì da ammettersi, come rilevato, solo eccezionali limitazioni previa specifica decisione. Il comma 2-quater dell’art. 41-bis alla lett. f), proprio perché rinvia per i limiti ai casi di cui all’art. 10, smentisce la possibilità in termini generali di comprimere la permanenza sotto le due ore, ferme restando le cautele da assicurare quanto alle condizioni di comunicazione. La «socialità» invece costituisce fruizione che attiene a ben altre esigenze, trattandosi del tempo da trascorrere in compagnia all’infuori dell’attività di lavoro e di studio, di modo che in tal caso rilevano non già le condizioni igienico - sanitarie, bensì i profili della tendenziale funzione rieducativa della pena, da tenere presente anche al cospetto di detenuti sottoposti al regime di cui trattasi. Una fungibilità fra le due fruizioni - quella sostenuta nel ricorso (evocando solo motivi di tutela diversamente assicurabili secondo altre specifiche modalità consentite) - che rimane pertanto smentita dalla razionale e coerente lettura di tutte le disposizioni sopra citate che vengono nella specie ad assumere rilevanza (Sez. 1, 48860/2018).

Il provvedimento genetico, emesso dal magistrato di sorveglianza, sul reclamo proposto dal detenuto, riguardava la disapplicazione del regolamento interno di istituto, nella parte in cui prevedeva il limite massimo di due ore giornaliere di permanenza fuori dalla cella e la rinuncia forzata all’uso delle sale di socializzazione nel caso di fruizione di due ore di permanenza all’aperto. Da tale disapplicazione discendeva che il reclamante aveva il diritto di beneficiare di un massimo di due ore all’aria aperta, nel quale non potevano essere compresi i periodi di socialità trascorsi nei locali interni della stessa struttura penitenziaria. Tale provvedimento trae il suo fondamento da una lettura ineccepibile del combinato disposto degli artt. 10, comma 1, e 41-bis, comma 2-quater, lett. f), per effetto del quale la permanenza all’aperto del detenuto sottoposto al regime detentivo speciale non può essere superiore a due ore al giorno e in gruppi di non più di quattro persone, nelle quali non possono essere comprese le frazioni orarie trascorse nelle sale di socialità dell’istituto penitenziario. Si osserva, in proposito, che, nel dettare tale disciplina, il legislatore italiano intende riferirsi alla permanenza del detenuto all’aperto e non già al suo stazionamento fuori dalla cella dove è ristretto ma all’interno dell’istituto penitenziario. Sul punto, non si può che richiamare la giurisprudenza di legittimità, secondo cui: «In tema di condizioni di detenzione la “permanenza all’aperto”, prevista dall’art. 10, non può consistere in una mera permanenza al di fuori della cella (nella specie nelle sale di biblioteca, palestra ecc.), dovendo essa svolgersi, secondo la previsione dell’art. 16 Reg., all’aria aperta» (Sez. 1, 44609/2018). D’altra parte, il silenzio dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), in ordine alle limitazioni all’attività di socialità svolta fuori dalla cella ma all’interno della struttura penitenziaria non può che interpretarsi nel senso dell’espansione, sul punto, della disciplina ordinaria, le cui regole sono finalizzate a garantire l’umanità della pena, ad assicurare la funzione rieducativa del trattamento sanzionatorio e a impedire la compressione del diritto alla salute del detenuto, non giustificata da effettive e comprovate ragioni di sicurezza. Né può essere interpretato nella direzione invocata dalla disposizione in esame il secondo periodo dello stesso art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), che non fa alcun riferimento alle attività di socialità in questione, limitandosi ad affermare: «Saranno inoltre adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi». Occorre, al contempo, evidenziare che la ricomprensione dell’ora di socialità all’interno delle due ore di permanenza all’aperto non appare armonica con le finalità, tra loro eterogenee, alle quali rispondono gli istituti della socialità e della permanenza negli spazi aperti, atteso che nel primo caso si perseguono obiettivi culturali e relazionali non riscontrabili nel caso della permanenza all’aperto, che risponde alla diversa esigenza di garantire il diritto alla salute psico-fisica del detenuto. La giurisprudenza di legittimità, del resto, ha già affermato che gli istituti della socialità e della permanenza negli spazi aperti non possono essere assimilati sul piano delle esigenze di politica criminale che vi sono sottese, anche alla luce «del dato letterale, che rimanda all’aria aperta e non certo alla presenza fuori dalla camera di detenzione, oltre che dall’argomento sistematico costituito dal fatto che l’art. 10 che costituisce chiaramente la norma generale di riferimento, definisce la permanenza all’aperto come permanenza all’aria aperta, come chiarito anche dall’art. 16 Reg., che a tale disposizione dà attuazione, prevedendo, al comma 2, che in quei frangenti vengano utilizzati “spazi all’aperto”, se possibile non interclusi tra fabbricati, ma in luoghi maggiormente esposti all’aria e alla luce, venendo la permanenza assicurata per periodi adeguati, anche attraverso le valutazioni dei servizi sanitario e psicologico» (Sez. 1, 44609/2018). In altri termini, la previsione dell’art. art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), non giustifica un’equiparazione tra la permanenza del detenuto all’interno della struttura carceraria per finalità di socialità e la sua permanenza all’aperto, in ragione del fatto che, come evidenziato dal provvedimento impugnato, tale equiparazione «comprime il diritto alla salute e al benessere psicofisico senza ragione [...]», non comportando alcun incremento alla sicurezza o alla prevenzione dei rapporti intramurari tra soggetti sottoposti al regime detentivo speciale. A tali considerazioni occorre aggiungere che la soluzione ermeneutica seguita nel caso in esame dal Tribunale di sorveglianza appare conforme al principio, espresso dalla Corte costituzionale, secondo cui l’estensione e «la portata dei diritti dei detenuti può [...] subire restrizioni di vario genere unicamente in vista delle esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere [...]», con la conseguenza che «in assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, non compatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost.» (Corte costituzionale, sentenza 135/2013). Ne discende che la compressione di un diritto, quale quello alla salute del detenuto, può essere giustificato soltanto in quanto corrisponda a una maggiore tutela accordata a un interesse sovraordinato, quale quello dell’ordine e della sicurezza pubblica. La ricorrenza di tali sovraordinate esigenze di tutela veniva correttamente esclusa dal Tribunale di sorveglianza, avuto riguardo al fatto che alle limitazioni poste alla fruizione del periodo all’aria aperta non corrispondeva un incremento della tutela assicurata alle esigenze di ordine e sicurezza pubblica, posto che l’ammissione all’aria aperta del detenuto sarebbe comunque avvenuta con le medesime persone con cui il detenuto avrebbe fruito dell’ora di socialità, con le quali avrebbe potuto comunicare liberamente. Queste conclusioni, naturalmente, non comportano che, che in caso di comprovate esigenze di ordine e sicurezza pubblica, non possa farsi luogo, per tale categoria di detenuti, alla riduzione della durata della permanenza all’aria aperta. Tuttavia, in questi casi, la relativa limitazione deve conseguire all’adozione di un provvedimento motivato della direzione dell’istituto penitenziario, che dia adeguatamente conto dei “motivi eccezionali” richiesti dall’art. 10, comma 1, i quali non potranno essere desunti presuntivamente nei confronti del singolo detenuto, sulla base del solo decreto ministeriale di applicazione regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis (Sez. 1, 15572/2019).

Nel caso in cui lo spazio minimo sia inferiore alla quota-limite di 3 mq, il trattamento degradante è compensabile con: a) la brevità della permanenza in tale condizione; b) l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella; c) l’adeguata offerta di attività esterne alla cella; d) le buone condizioni complessive dell’istituto; e) l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti (Corte EDU, Grande Camera, Mursic c. Croazia, 20.10.2016).

In tema di rimedio risarcitorio ex art. 35-ter, ai fini dell’accertamento della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, se lo spazio delle celle è inferiore ai tre metri quadrati esiste una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU superabile - in applicazione dei principi affermati dalla sentenza della Grande Camera della Corte EDU, 20 ottobre 2016, Mursic v. Croazia - solo attraverso la valutazione dell’esistenza di adeguati fattori compensativi che si individuano nella durata della restrizione carceraria, nei margini della libertà di circolazione concessa fuori dalla cella, nell’offerta di attività esterne alla cella e nel decoro complessivo delle condizioni di detenzione. Viceversa, qualora lo spazio individuale minimo assicurato al detenuto, una volta scomputati gli arredi fissi, sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati, vanno presi in considerazione gli ulteriori aspetti che determinano la complessiva offerta del trattamento detentivo, come la mancanza di aria o di luce, i difetti della condizione igienica, la carenza di assistenza sanitaria o l’assenza di offerte ricreative o culturali. Nell’ipotesi, quindi, di spazio minimo individuale tra i tre e i quattro metri quadrati, ciò che rileva, ai fini del trattamento inumano o degradante, è un’offerta trattamentale complessiva gravemente carente (Sez. 1, 910/2020).

La giurisprudenza della Corte EDU ha enunciato una serie di principi, di seguito riassunti, i quali, come detto, definiscono l’ambito applicativo della fattispecie di cui all’art. 35-ter, costituendo il presupposto in base al quale il giudice nazionale deve stabilire se un determinato regime penitenziario integri, o non, un trattamento “inumano e degradante” (Corte EDU, Grande Chambre, sentenza Mursic c. Croazia, 20/10/2016): a) il giudizio sulla compatibilità delle condizioni detentive con l’art. 3 CEDU “non può essere ridotto ad un calcolo del numero di metri quadrati assegnati al detenuto”, dovendo tenersi conto delle complessive condizioni trattamentali mediante una valutazione unitaria; b) nel contesto di tale valutazione unitaria delle generali condizioni di detenzione, riveste, comunque, carattere preminente il fattore “spazio”, il quale, pertanto, determina, nel caso in cui il detenuto in una camera collettiva abbia a disposizione meno di tre metri quadrati calpestabili, una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 CEDU; c) tale presunzione qualificata è superabile e confutabile in presenza di fattori specifici che possano adeguatamente compensare la mancanza di spazio personale, quali, fra l’altro, un’adeguata attività trattamentale da svolgersi fuori dalla camera e le generali condizioni igieniche delle strutture penitenziarie; d) uno spazio in camera superiore ai tre metri quadrati, di per sé solo - specie se comunque inferiore a 4 metri quadrati - non depone, in ogni caso, per l’adeguatezza delle condizioni di detenzione, sussistendo pur sempre la violazione dell’art. 3 CEDU se a uno spazio limitato in camera si aggiungano condizioni detentive deteriori (quali, tra l’altro, la carenza di opportunità trattamentali, l’assenza di corretta aerazione dei locali, la mancanza di intimità nel bagno, precarie situazioni sanitarie o igieniche). Alla stregua dei parametri sopra enunciati, il giudice nazionale è, dunque, chiamato a verificare: a) se sussiste la presunzione qualificata derivante da un insufficiente spazio a disposizione del detenuto (calcolato al netto dei sanitari e degli arredi fissi); b) se tale presunzione sia o no controbilanciata (e, quindi, superata) da altri fattori concernenti le complessive condizioni detentive del ricorrente. Qualora, poi, lo spazio a disposizione del singolo detenuto sia superiore al limite dei tre metri quadrati e inferiore a quello dei 4 metri quadrati, sarà necessario indagare, sulla base delle specifiche allegazioni del detenuto, sulla presenza di condizioni generali di detenzione che, comunque, depongano per una violazione del divieto di trattamenti “inumani e degradanti”. La Corte alsaziana, tuttavia, con la decisione resa nel caso Mursic C. Croazia non ha affrontato, in modo espresso, il tema delle concrete modalità di computo dello spazio minimo individuale, limitandosi a osservare che “la superficie totale della cellula non deve comprendere quella dei sanitari (...). Al contrario, il calcolo della superficie disponibile nella camera di detenzione deve includere lo spazio occupato dai mobili. L’importante è determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella camera, secondo quanto già affermato nelle precedenti pronunce Ananyev e altri c. Russia del 10/01/2012 e Belyayev c. Russia del 17/10/2013. In particolare, la prima di queste sentenze, al punto 148, aveva stabilito - che la superficie complessiva della camera deve essere tale da consentire ai detenuti di muoversi liberamente tra gli elementi di arredamento (si veda, nella giurisprudenza successiva, anche Grande Camera, 16/12/2016, Klaufia ed altri c. Italia). Coerentemente con questa impostazione, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che nel novero degli elementi che non devono essere inclusi nel computo dello spazio minimo vitale vi siano, oltre ai servizi igienici, gli armadi e gli altri arredi tendenzialmente fissi in maniera stabile alle pareti o al suolo, atteso che il mobilio inamovibile non consente, per definizione, la possibilità, per i detenuti, di muoversi normalmente nella camera. E tra gli oggetti esclusi dal computo sono stati inclusi anche i letti che presentino la struttura “a castello”, da ritenersi certamente ostativi al libero movimento e alla piena fruizione dello spazio della camera di detenzione da parte del detenuto, avendo essi un peso tale da non poter essere spostati e avendo una conformazione tale da non consentire, di norma, il mantenimento della struttura eretta, restringendo a loro volta, come gli armadi, l’area ove muoversi (Sez. 1, 41211/2017). Viceversa, si è ritenuto che debbano essere inclusi nel computo tutti gli articoli amovibili, come gli sgabelli o i tavoli, e tutti quegli oggetti che di fatto non impediscano l’utilizzo dello spazio per il movimento, come nel caso degli stessi letti “non a castello” (Sez. 1, 40523/2017). E si è condivisibilmente ribadito che una volta eventualmente riscontrata, alla stregua dei criteri sopra menzionati, l’inadeguatezza dello spazio minimo, essa possa ritenersi in concreto compensata dall’esistenza di situazioni specifiche, quali la limitata durata della restrizione carceraria, la possibilità di ampi spazi di circolazione fuori dalla camera, l’offerta di attività da svolgere in ampi spazi fuori dalle celle, il decoro complessivo delle condizioni di detenzione, anche in rapporto alle condizioni igieniche e ai servizi forniti (Sez. 1, 3291/2020).

Esiste una forte presunzione di trattamento disumano a fronte della disponibilità di uno spazio minimo inferiore ai 3 mq., valutabile alla luce dei cosiddetti criteri compensativi (tra cui, la brevità della permanenza, l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella, l’adeguata offerta di attività esterne, le buone condizioni complessive dell’istituto e l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento). Quanto alle modalità di computo dello spazio minimo, il detenuto deve avere la possibilità di muoversi all’interno della cella, con la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici, ma anche quello occupato da mobili arredi e da strutture tendenzialmente fisse nonché da quegli arredi, che seppur teoricamente amovibili, siano in realtà di peso consistente e di ingombro evidente, quale può essere, ad esempio, un letto a castello (Sez. 1, 51496/2019).

A fronte di una detenzione sostanzialmente e interamente aperta, in cui il soggetto ristretto non è tenuto a sottostare ad una permanenza continua in cella durante le ore del giorno ed ha ampia e libera facoltà di uscire dalla stanza e di muoversi partecipando ad attività sociali e comuni, non ha significato decisivo l’esame sulla superficie disponibile in cella. Ciò perché la stanza di restrizione non è impiegata come ambiente in cui espletare le attività quotidiane, ma esclusivamente come luogo di riposo e per dormire, svolgendo il detenuto ogni attività all’esterno di essa (Sez. 1, 41652/2019).

…Procreazione assistita

La previsione normativa del diritto di detenuti ed internati di richiedere di essere visitati a proprie spese da un sanitario di fiducia non legittima la richiesta di ammissione alla procedura di accesso alla procreazione medicalmente assistita, dal momento che il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita non rientra nella nozione di profilassi e cura della salute. Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritta ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico; l’impedimento al rapporto non è equiparabile a sterilità o infertilità, esattamente come lo stato di lontananza del coniuge non integra il presupposto richiesto dalla legge per accedere alla procedura di inseminazione artificiale (Sez. 1, 20673/2007).

In relazione alla richiesta del condannato di ammissione al programma di procreazione medicalmente assistita, il magistrato di sorveglianza è tenuto a pronunciarsi, valutando la tutelabilità concreta della pretesa avanzata, secondo un criterio di proporzione tra esigenze di sicurezza sociale e penitenziaria e interesse della singola persona (Sez. 1, 7791/2008).

…Rapporti familiari

Le limitazioni alla possibilità di incontrare i familiari, in presenza della facoltà comunque riconosciuta di comunicare a distanza con comunicazioni telefoniche e con la corrispondenza scritta, in grado di mantenere le relazioni affettive, non possono intendersi quali forme di compressione della libertà del detenuto, non funzionali all’esecuzione della pena detentiva e contrarie al senso di umanità, quindi ai precetti costituzionali che presiedono all’espiazione carceraria (Sez. 1, 57813/2017).

Ai sensi dell’art. 1, comma 6 e dell’art. 15, i colloqui sono inseriti nel trattamento di chi è ristretto e assumono rilevanza anche ai fini dell’attività di recupero e rieducazione del condannato, tant’è che l’art. 61, comma 1, lett. a) Reg., consente al direttore dell’istituto di concedere ulteriori colloqui a fronte di pareri positivi espressi dagli operatori del gruppo di osservazione e che la successiva norma dell’art. 73, comma 3, stesso DPR, prescrive la conservazione del diritto ai colloqui con familiari e conviventi anche in caso di sottoposizione del detenuto alla sanzione disciplinare dell’isolamento con esclusione dalle attività in comune. A ciò si aggiunge che anche la disciplina fortemente limitativa dettata dall’art. 41-bis sopra citata nei confronti di soggetti, dotati di particolare pericolosità, non li esclude dai colloqui, che piuttosto regolamenta con l’introduzione di limiti numerici e con la possibilità di adottare, mediante previsioni della normativa attuativa di rango secondario, modalità esecutive di particolare rigore. Del pari anche l’art. 8 CEDU prescrive che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare...”, sicchè eventuali ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto sono coperte da riserva di legge e devono essere giustificate da esigenze di sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, dei diritti e delle libertà altrui. In particolare, la Corte EDU ha avuto modo di occuparsi più volte della compatibilità delle disposizioni degli ordinamenti nazionali, che, nel disciplinare le modalità di esecuzione della pena detentiva, di per sé comportante per sua natura limitazioni alla vita individuale e familiare per il distacco forzato che realizza, prescrivono in vario modo l’isolamento dei detenuti ed inibiscono colloqui con i familiari, con il principio che vieta trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 CEDU; ha quindi stabilito da un lato la necessità che la struttura penitenziaria realizzi qualche forma di controllo sui contatti tra il detenuto ed il mondo esterno (Corte EDU, Sez. 2, Messina c/ Italia, 8/6/1999), dall’altro che la detenzione, per quanto giustificata dalla condanna per gravi reati e da esigenze di tutela della collettività, non può sopprimere in modo assoluto la relazionalità e la vita affettiva mediante l’isolamento completo del prigioniero, che può produrre effetti negativi sulla personalità e la sua desocializzazione con pregiudizi irreversibili sul processo di reinserimento nel contesto civile (Corte EDU, Sez. 2, Van der Ven c. Paesi Bassi, 4/2/2003) (Sez. 1, 7654/2015).

La decisione impugnata ha negato al ricorrente la possibilità di incontro visivo col figlio, parimenti detenuto e sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41-bis, per l’ostacolo frapposto da ragioni di sicurezza e di opportunità, valutate in modo discrezionale dall’amministrazione penitenziaria, secondo le prerogative organizzative e regolamentari, assegnatele dall’ordinamento. Va premesso che anche prima dell’intervento delle modifiche all’ordinamento penitenziario, apportate dalla L. 10/2014, si era già affermata da parte della giurisprudenza di legittimità e costituzionale, la sindacabilità in sede giurisdizionale, mediante reclamo al magistrato di sorveglianza, dei provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria incidenti sulle posizioni soggettive del detenuto, in funzione di tutela sia di veri e propri diritti soggettivi, che di meri interessi legittimi, quando coinvolti dal regime di trattamento. Nel caso di specie viene in rilievo il diritto soggettivo del ricorrente alla vita familiare ed al mantenimento mediante colloqui di relazioni dirette e di presenza con uno dei suoi più stretti congiunti, preclusogli anche in ragione dell’applicazione nei riguardi di tale congiunto del regime differenziato di cui all’41-bis, che, com’è noto, al comma 2-quater lett. a) consente l’adozione nei confronti di detenuti condannati o sottoposti a procedimento per reati specifici di particolare gravità e significativi di spiccata pericolosità sociale, di “misure di elevata sicurezza interna ed esterna che si rivelino necessarie per prevenire contatti con l’organizzazione di appartenenza”, nonché eventuali contrasti con elementi di gruppi contrapposti e l’interazione con detenuti o internati della stessa compagine o di altre a questa alleate. Per contro, la sua applicazione pregiudica anche la situazione detentiva del genitore in un settore della vita penitenziaria, cui l’ordinamento stesso assegna rilevanza quale strumento del percorso trattamentale, finalizzato al reinserimento sociale della persona, secondo quanto è deducibile da più fonti normative. Invero, il testo principale di riferimento nella materia è costituito dall’art. 28, il quale stabilisce che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare, o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”; lo scopo perseguito da tale previsione è quello di impedire che l’abbandono delle abitudini di vita individuale e familiare acquisite in stato di libertà, imposto dall’espiazione della pena in ambito carcerario, comprometta il mantenimento delle relazioni affettive ed i sentimenti verso i congiunti. Ne costituiscono attuazione le singole disposizioni dell’ordinamento penitenziario, ad esempio l’art. 18, comma 3, che espressamente assegna “particolare favore ... ai colloqui con i familiari”, intesi quali occasioni relazionali personali e dirette, perché strumento per il mantenimento dei contatti con quanti sono liberi ed impedire effetti negativi sulla personalità del detenuto, determinati dall’isolamento. Per tali ragioni, ai sensi dell’art. 1, comma 6 e dell’art. 15, i colloqui sono inseriti nel trattamento di chi è ristretto e assumono rilevanza anche ai fini dell’attività di recupero e rieducazione del condannato, tant’è che l’art. 61, comma 1, lett. a) Reg., consente al direttore dell’istituto di concedere ulteriori colloqui a fronte di pareri positivi espressi dagli operatori del gruppo di osservazione e che la successiva norma dell’art. 73, comma 3, Reg. prescrive la conservazione del diritto ai colloqui con familiari e conviventi anche in caso di sottoposizione del detenuto alla sanzione disciplinare dell’isolamento con esclusione dalle attività in comune. A ciò si aggiunge che anche la disciplina fortemente limitativa dettata dall’art. 41-bis sopra citata nei confronti di soggetti, dotati di particolare pericolosità, non li esclude dai colloqui, che piuttosto regolamenta con l’introduzione di limiti numerici e con la possibilità di adottare, mediante previsioni della normativa attuativa di rango secondario, modalità esecutive di particolare rigore. Del pari anche l’art. 8 CEDU prescrive che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare...”, sicchè eventuali ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto sono coperte da riserva di legge e devono essere giustificate da esigenze di sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, dei diritti e delle libertà altrui. In particolare, la Corte EDU ha avuto modo di occuparsi più volte della compatibilità delle disposizioni degli ordinamenti nazionali, che, nel disciplinare le modalità di esecuzione della pena detentiva, di per sé comportante per sua natura limitazioni alla vita individuale e familiare per il distacco forzato che realizza, prescrivono in vario modo l’isolamento dei detenuti ed inibiscono colloqui con i familiari, con il principio che vieta trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 CEDU; ha quindi stabilito da un lato la necessità che la struttura penitenziaria realizzi qualche forma di controllo sui contatti tra il detenuto ed il mondo esterno (Corte EDU, Sez. 2, Messina c. Italia, 8/6/1999), dall’altro che la detenzione, per quanto giustificata dalla condanna per gravi reati e da esigenze di tutela della collettività, non può sopprimere in modo assoluto la relazionalità e la vita affettiva mediante l’isolamento completo del prigioniero, che può produrre effetti negativi sulla personalità e la sua desocializzazione con pregiudizi irreversibili sul processo di reinserimento nel contesto civile (Corte EDU, Sez. 2, Van der Ven c. Paesi Bassi, 4/2/2003). Ebbene, la valutazione del caso specifico dell’interessato, che dal 1996, quindi da quasi vent’anni non può incontrare il figlio perché entrambi ristretti in carceri diversi ed il secondo sottoposto alla sospensione delle regole ordinarie detentive, deve essere considerato alla luce delle norme e dei principi generali sopra richiamati, che l’ordinanza non ha considerato. Pur essendo condivisibile il riconoscimento nella materia specifica all’amministrazione penitenziaria di poteri discrezionali, il cui uso è stato esercitato in funzione della tutela dell’ordine e della sicurezza, sia interna agli istituti, che nei riguardi della generalità dei cittadini sotto il profilo della prevenzione di ulteriori reati, è altrettanto innegabile che la forzata separazione di un padre dal figlio per un periodo di tempo così prolungato incide negativamente sul mantenimento della loro relazione affettiva, sulla vita familiare e sul rispettivo percorso trattamentale, integrando condizioni restrittive particolarmente penose ed avvilenti e precludendo in assoluto l’esercizio di un diritto soggettivo ai colloqui. Si pone dunque il problema di come conciliare queste opposte esigenze in modo da non dare attuazione soltanto ad una di esse a scapito dell’altra. A tal fine si evidenzia che il magistrato di sorveglianza ha offerto una lettura parziale della normativa di riferimento, ha attribuito rilievo essenziale alle esigenze di contenimento della pericolosità qualificata del figlio del ricorrente, senza addentrarsi in una considerazione più ampia e di ordine sistematico delle disposizioni di legge diverse dall’art. 41-bis ed egualmente applicabili al caso, ad esempio dell’art. 28. e delle finalità perseguite mediante l’istituto dei colloqui visivi quale strumento per la coltivazione della relazione genitoriale e, suo tramite, per l’espressione della personalità del detenuto. Non si è dunque prospettato la possibilità di una soluzione che contemperi nel caso specifico, al dì fuori di qualunque generalizzazione e per ragioni umanitarie che tengano conto delle privazioni subite dal detenuto in via ininterrotta per quasi due decenni, le esigenze di ordine interno all’istituto e di ordine pubblico con il diritto soggettivo del detenuto ai colloqui mediante un sistema tecnico che garantisca la visione dell’immagine senza comportare spostamenti e contatti fisici diretti. Tale soluzione, la cui praticabilità va verificata in sede di merito, ma la cui ammissibilità va affermata a livello di principio nel riscontrare il vizio di violazione di legge denunciato dal ricorrente, si traduce in concreto nel ricorso alla videoconferenza, ossia a forme di comunicazione controllabili a distanza e tali da impedire il compimento di comportamenti tra presenti, possibile fonte di pericolo per la sicurezza interna dell’istituto o per quella pubblica, in quanto correlati all’attività di organizzazione criminose di stampo mafioso ancora attive ed operanti nelle aree geografiche di provenienza dei detenuti coinvolti (Sez. 1, 7654/2015).

…Religione e pratiche di culto

È illegittimo il provvedimento del magistrato di sorveglianza che rigetta la richiesta di un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis, intesa ad ottenere l’autorizzazione ad incontrare in via permanente un ministro del culto dei testimoni di Geova per lo studio e l’approfondimento dei testi biblici a norma dell’art. 26, comma 4, ferma restando l’esigenza che il colloquio venga autorizzato con modalità tali da assicurare l’ordine e la sicurezza dell’istituto penitenziario. Ne consegue che, in linea di massima, non pare possibile negare ad un credente - ed a maggior ragione ad un testimone di Geova, per il quale è importante lo studio della bibbia - almeno una qualche forma di approccio con il ministro del proprio culto, al fine di poter approfondire lo studio dei testi biblici, ferma restando l’esigenza che il colloquio si svolga con modalità tali da assicurare l’ordine e la sicurezza dell’istituto carcerario (Sez. 1, 20797/2011).

A fronte di un reclamo del detenuto, che in “riferimento al trattamento penitenziario individuale” individuava determinati comportamenti dell’Amministrazione penitenziaria come una “violazione al proprio diritto di libertà di culto religioso, rispetto al quale la dieta vegetariana deve ritenersi un corollario di pratica rituale”, l’essersi il magistrato di sorveglianza limitato a comunicare al ricorrente, all’esito di procedura informale, una relazione dell’amministrazione penitenziaria in merito alla non inclusione di maestri buddisti Zen nel novero dei ministri di culto abilitati all’ingresso nelle strutture penitenziarie ed un provvedimento in materia di vitto, assunto su reclamo di altro detenuto, si configuri effettivamente come “un mancato rispondere con motivazione specifica” al reclamo del detenuto, nel senso che “la comunicazione in questione” non può costituire, in effetti, “valida risposta sia sul piano procedimentale sia sul piano del contenuto” (Sez. 1, 41474/2013).

Sono violati gli artt. 9 e 14 CEDU allorché uno Stato non accolga la richiesta di un detenuto di fede buddista, la cui convinzione religiosa implichi la necessità di una dieta vegetariana, di potersi alimentare con pasti privi di carne (Corte EDU, 18429/06, Jakobski c. Polonia).

Il culto seguito da un detenuto, cui consegua la scelta di una dieta vegetariana, comporta che lo Stato debba assicurargli la possibilità di professare il culto medesimo anche nelle scelte alimentari, risultando altrimenti violato l’art. 9 CEDU (Corte EDU, Vartic c. Romania, 17 dicembre 2013).