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Art. 35-ter

Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3

della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo

e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati

1. Quando il pregiudizio di cui all’articolo 69, comma 6, lett. b), consiste, per un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, su istanza presentata dal detenuto, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio.

2. Quando il periodo di pena ancora da espiare è tale da non consentire la detrazione dell’intera misura percentuale di cui al comma 1, il magistrato di sorveglianza liquida altresì al richiedente, in relazione al residuo periodo e a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio. Il magistrato di sorveglianza provvede allo stesso modo nel caso in cui il periodo di detenzione espiato in condizioni non conformi ai criteri di cui all’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sia stato inferiore ai quindici giorni.

3. Coloro che hanno subito il pregiudizio di cui al comma 1, in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere possono proporre azione, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, di fronte al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio hanno la residenza. L’azione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere. Il tribunale decide in composizione monocratica nelle forme di cui agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. Il decreto che definisce il procedimento non è soggetto a reclamo. Il risarcimento del danno è liquidato nella misura prevista dal comma 2.

Rassegna di giurisprudenza

Caratteristiche generali e finalità dell’istituto

…Estensione della disciplina anche ai fatti verificatisi prima dell’entrata in vigore del DL 92/2014

La disciplina dei rimedi compensativi contenuta nei commi 1 e 2 dell’art. 35-ter trova applicazione anche per quei fatti dal detenuto dedotti, avanti il magistrato di sorveglianza, come costituenti violazione del divieto contenuto nell’art. 3 CEDU, verificatisi prima dell’entrata in vigore del 28 giugno 2014, giorno di entrata in vigore del DL 92/2014, convertito, con modificazioni, nella L. 117/2014 (Sez. 5, 4758/2020).

Il reclamo ai sensi dell’art. 35-ter è uno strumento di riparazione di natura atipica, con carattere prevalentemente indennitario, pertanto l’attualità del pregiudizio non è condizione necessaria di accoglibilità della domanda, essendo sufficiente il solo stato di detenzione, ed il suo fondamento non risiede nella legge ordinaria che lo ha introdotto, ma direttamente nella CEDU, di tal che la domanda, con la quale si prospetta una violazione del divieto di sottoporre un soggetto detenuto a trattamenti inumani o degradanti, è ammissibile anche per i pregiudizi subiti anteriormente al 26 giugno 2014 (Sez. 3 civile, 25409/2019).

…Durata e decorrenza del termine di prescrizione

Il diritto ad una somma di denaro pari a euro 8 per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 CEDU, previsto dall’art. 35-ter, comma 3, come introdotto dall’art. 1 DL 92/2014, convertito con modifiche dalla L. 117/2014, si prescrive in dieci anni, trattandosi di un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti ex lege sull’amministrazione penitenziaria; il termine di prescrizione decorre dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni, salvo che per coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del DL citato, rispetto ai quali, se non sono incorsi nelle decadenze previste dall’art. 2 DL 92/2014, il termine comincia a decorrere solo da tale data (SU civili, 11018/2018).

Nella materia inerente alla responsabilità dello Stato per contravvenzione a obblighi derivanti dalla CEDU, il riferimento specifico alla fonte di tale obbligazione si riscontra nell’ art. 1173 c.c. che fa derivare un’obbligazione dalla violazione di obblighi di legge costituente “fatto o atto idoneo a produrre obbligazioni”. Sul punto, è stato da tempo chiarito che l’obbligazione avente ad oggetto l’equa riparazione per la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, in caso di ingiusta detenzione, si configura non già come una obbligazione ex delicto, di matrice aquiliana, ma come obbligazione ex lege, come tale idonea, in base all’art. 1173 c.c., a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico. Nello stesso senso si sono pronunciate le Sezioni unite (SU civili, 11018/2018) che, in riferimento alla prescrizione del diritto all’indennizzo sancito dall’art. 35 ter, comma 3, trattandosi di un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti “ex lege” sull’amministrazione penitenziaria - integrata con quanto indicato dalla Corte EDU in materia di interpretazione dell’art. 3 CEDU - , ha sancito che il termine di prescrizione decorre dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle suindicate condizioni, salvo che per coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del DL 92/2014, rispetto ai quali, se non sono incorsi nelle decadenze previste dall’art. 2 del medesimo DL, il termine comincia a decorrere da tale data. Sicché non è più in discussione che la violazione degli obblighi di comportamento in ordine alle modalità di sconto della pena detentiva e di adeguamento delle strutture secondo le indicazioni date dalla legge penitenziaria e dai regolamenti di settore, da ritenersi come condizioni minime e imprescindibili per evitare che la detenzione si trasformi in un trattamento disumano e degradante, determini una responsabilità di tipo contrattuale, derivante dallo stretto rapporto che si instaura tra il soggetto attivo lo Stato - che dispone la custodia detentiva in carcere a scopo special-preventivo, punitivo e rieducativo e il soggetto passivo - il detenuto - che la subisce, quest’ultimo certamente titolare del diritto incomprimibile di ricevere un trattamento umano e non degradante conformemente a quanto disposto da ultimo dalla Corte EDU nella sentenza pilota Torreggiani ed altri c. Rada, emessa 1’8 gennaio 2013 (SU civili, 11018/2018), da cui deriva l’approntamento di tale rimedio processuale Quanto alla natura del “risarcimento per equivalente” per detenzione inumana, nonostante la terminologia utilizzata dal legislatore che assume che vengano riconosciuti “a titolo di risarcimento del danno” forme di risarcimento tanto con riferimento alla riduzione della pena, quanto con riferimento al compenso in denaro, le Sezioni unite (SU civili, 17274/2018), hanno condiviso quanto già più volte affermato dalle sezioni penali circa il fatto che si è in presenza di un “indennizzo”. In particolare, deve ritenersi che la previsione di “una somma di denaro pari ad otto euro per ciascuna giornata in cui è stato subito il pregiudizio, indica che il legislatore si è mosso in una logica di forfetizzazione della liquidazione che considera solo l’estensione temporale del pregiudizio, senza nessuna variazione in ragione della sua intensità e senza alcuna considerazione delle eventuali peculiarità del caso. Manca, difatti, il rapporto tra specificità del danno e quantificazione economica che caratterizza il risarcimento del danno alla persona, nonché ogni considerazione e valutazione del profilo soggettivo di «personalizzazione» del danno, proprio delle azioni risarcitorie. Il radicarsi della responsabilità nella violazione di obblighi gravanti “ex lege” sull’amministrazione penitenziaria nei confronti dei soggetti sottoposti alla custodia carceraria, e la natura di indennizzo, pertanto, sono tutti elementi che convergono nell’escludere l’applicabilità della regola specifica dettata per la prescrizione del “diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito” dall’art. 2947, comma 1, c.c. Quanto alla decorrenza del termine di prescrizione, per espressa previsione legislativa, l’azione dinanzi al Tribunale è soggetta ad un termine: “deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere”. Sul punto, i1 legislatore ha dettato anche una disciplina transitoria, contenuta nell’art. 2 del decreto, che riguarda due categorie di persone. Una parte della disciplina transitoria riguarda coloro che, alla data di entrata in vigore del DL 92/2014 avevano terminato la carcerazione. Il primo comma dell’art. 2 prevede che costoro possono proporre l’azione di cui al terzo comma dell’art. 35-ter, “entro il termine di decadenza di sei mesi decorrenti dalla stessa data” di entrata in vigore del decreto. Una diversa disciplina transitoria è prevista per “i detenuti e gli internati che abbiano già presentato ricorso” alla Corte EDU: costoro entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto possono presentare domanda ai sensi dell’art. 35- ter, qualora non sia intervenuta una decisione sulla ricevibilità del ricorso da parte della Corte”. I due commi successivi aggiungono che il ricorso deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’indicazione della data di presentazione del ricorso e la cancelleria del giudice adito deve informare il Ministero degli affari esteri di tutte le domande presentate nel semestre. Questo accade nel meccanismo a regime, perché, invece, con riferimento alle situazioni in cui la detenzione sia cessata prima dell’entrata in vigore della legge, il termine di prescrizione decorre da quest’ultima data, e cioè dal momento in cui il nuovo rimedio è stato introdotto nell’ordinamento. Come è stato affermato in dottrina, la prescrizione non è in via generale incompatibile con la decadenza. Né possono essere meccanicamente applicati alla materia in esame i principi affermati in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo. Le due discipline e, più a monte, le situazioni regolate, presentano elementi di analogia, ma anche incisive differenze, che impongono di evitare sovrapposizioni ricostruttive, fonte di possibili confusioni. Pertanto, se nell’ambito della disciplina transitoria dettata dall’art. 2 DL 92/2014 la prescrizione decorre dall’entrata in vigore della legge, questa forma di estinzione del diritto all’equo indennizzo rimarrà assorbita in tutti i casi in cui il diritto viene meno perché l’azione non è stata proposta nel termine di decadenza di sei mesi dalla entrata in vigore della legge. Al contrario, nel meccanismo a regime, potrà accadere che la prescrizione maturi in corso di detenzione e quindi prevalga sulla decadenza che, ai sensi dell’art. 1, decorre dalla cessazione dello stato di detenzione (la carcerazione difatti non costituisce impedimento al decorrere del termine di prescrizione con riferimento a pretese di natura civilistica) (Sez. 3 civile, 8770/2019)

…Tutela accordabile a coloro che, dopo aver subito un pregiudizio risarcibile, non siano più ristretti in carcere

L’art. 35-ter prevede due forme alternative di riparazione del pregiudizio conseguente alla detenzione in condizioni inumane cui associa anche la competenza di un diverso organo giudiziario. L’opzione per l’una o l’altra forma di tutela non è rimessa alla scelta del danneggiato ma alla sussistenza delle condizioni indicate dalla legge. Per il condannato che sia ancora in condizioni di detenzione è prevista la forma riparatoria in forma specifica della riduzione della pena detentiva ancora da espiare, da richiedere con istanza presentata dal detenuto al magistrato di sorveglianza. Il terzo comma prevede invece che chi abbia subito durante il suo periodo detentivo il pregiudizio conseguente alla detenzione in condizioni inumane, ma abbia terminato di espiare la pena detentiva in carcere possa proporre l’azione, anche personalmente, dinanzi al tribunale civile, per ottenere non più la riparazione in forma specifica, inattuabile essendo terminato il periodo detentivo, ma la tutela per equivalente. La legge quindi privilegia, per chi è in condizioni di fruirne, in conformità ai principi generali, la tutela riparatoria in forma specifica, consistente nel rimedio premiale della riduzione della pena ancora da espiare, in quanto essa è ritenuta maggiormente satisfattiva, rimuovendo la causa stessa del pregiudizio, ovvero limitando il periodo di detenzione in considerazione delle condizioni degradanti in cui si è svolta la sua concreta espiazione, mentre pone in posizione meramente residuale l’accesso alla tutela per equivalente, che può essere utilizzata (azionandola dinanzi al giudice civile) per compensare chi abbia effettivamente subito un periodo di detenzione in condizioni inumane, se e in quanto tale condizione sia terminata. La norma non affronta né risolve esplicitamente il problema del tipo di tutela accessibile da chi, pur non avendo ancora terminato di espiare la pena, si trovi però nel momento in cui presenta la sua domanda non ristretto in carcere perché sottoposto ad una misura alternativa (nel caso di specie, affidamento in prova ai servizi sociali). Tuttavia, tenuto conto della ratio della norma che, come sopra indicato, è quella di privilegiare il risarcimento in forma specifica, consistente nel rimedio premiale dello “sconto” della pena residua, rispetto a quello per equivalente, attivabile solo se la condizione detentiva è ormai definitivamente conclusa, e tenuto conto anche della strutturazione non alternativa, a scelta del danneggiato, dei due rimedi, ma della scelta legislativa di consentire l’accesso alla riparazione per equivalente solo ove non sia più possibile quella in forma specifica, si ritiene che il rimedio della reintegrazione in forma specifica sia quello unicamente attivabile anche da chi si trovi a dover scontare una misura alternativa alla detenzione, e quindi non sia attualmente soggetto alla restrizione in carcere. Va premesso che l’istanza ai sensi dell’art. 35-ter è uno strumento di riparazione di natura atipica, con carattere prevalentemente indennitario, che ha origine nella violazione di obblighi gravanti “ex lege” sull’amministrazione penitenziaria e trae il suo fondamento non dalla legge ordinaria che lo ha introdotto, ma direttamente nella CEDU (SU civili, 11018/2018) (di tal che la domanda, con la quale si prospetta una violazione del divieto di sottoporre un soggetto detenuto a trattamenti inumani o degradanti, è ammissibile anche per i pregiudizi subiti anteriormente al 26 giugno 2014). Il problema in esame è stato già esaminato e risolto, peraltro, dalla Cassazione penale, le cui conclusioni si condividono appieno, che ha avuto modo di precisare, richiamando la sentenza 204/2016 della Corte costituzionale, che il rimedio pecuniario è alternativo a quello della riduzione di pena in tutte le ipotesi in cui, pur in presenza di un trattamento inumano o degradante, il magistrato di sorveglianza versa nell’impossibilità di operare nell’immediatezza siffatta riduzione di pena (Cass. pen. 32280/2018, a proposito della situazione di un detenuto condannato all’ergastolo). In tutti gli altri casi, in cui ci sia una pena ancora da scontare, il rimedio predisposto dall’ordinamento è quello dell’istanza rivolta al magistrato di sorveglianza per ottenere una riduzione della durata della pena residua. Va a questo proposito puntualizzato che il condannato ammesso ad una misura alternativa non ha formalmente terminato di espiare la pena detentiva poiché si tratta di una misura provvisoria, revocabile con il ripristino del regime di detenzione, e che costituisce nient’altro che una forma di esecuzione della pena detentiva (come già affermato da Cass. pen. 47052/2017: “In tema di rimedi conseguenti alla violazione dell’art. 3 CEDU nei confronti di soggetti detenuti o internati, appartiene al magistrato di sorveglianza la competenza a provvedere sull’istanza riparatoria di cui all’art. 35-ter, proposta da soggetto in affidamento in prova ai servizi sociali, in quanto la misura alternativa costituisce una forma di esecuzione della pena detentiva"). Inoltre, appare più ragionevole, nell’ottica premiale della riduzione di pena, che anche il soggetto più meritevole, ammesso alla pena alternativa possa beneficiare dell’effetto premiale della riduzione del periodo ancora comunque da scontare in condizioni limitative della libertà personale, rispetto a quello meno meritevole, eventualmente rimasto in detenzione, che comunque potrebbe beneficiarne lo stesso per legge. Deve ritenersi infine che, il presupposto necessario per accedere al beneficio della riparazione in forma specifica mediante lo “sconto” sulla pena residua, da richiedere al TDS, sia il perdurante stato di restrizione del richiedente e non l’attualità del pregiudizio (in quanto il richiamo contenuto nell’art. 35-ter al pregiudizio di cui all’art. 69, comma 6, lett. b), opera ai fini dell’individuazione dello strumento processuale di cui si può avvalere il detenuto e del relativo procedimento, ma non si riferisce al presupposto della necessaria attualità del pregiudizio che rileva, invece, ai fini del diverso rimedio del reclamo, previsto dal citato art. 69 la cui finalità è quella di inibire la prosecuzione della violazione del diritto individuale da parte dell’amministrazione penitenziaria). In questo senso si è espressa Cass. pen. 19674/2017, che peraltro in motivazione aggiunge che deve, comunque, considerarsi attuale il pregiudizio che non è stato eliminato attraverso una forma di riparazione, anche se la causa che lo ha prodotto si sia temporalmente verificata nel passato. Piuttosto, ciò che è necessario ai fini della tutela in forma specifica è che la domanda riguardi pregressi periodi di carcerazione afferenti alla pena tuttora in corso di espiazione e non periodi di espiazione già conclusi (principio affermato da Cass. pen. 983/2017, in relazione ad un detenuto agli arresti domiciliari, in relazione alla cui condizione la Corte ha specificato che, diversamente, chi è sottoposto a detenzione domiciliare per periodi di carcerazione estranei alla pena in corso di espiazione, versando in una situazione assimilabile a quella di un soggetto libero, gode soltanto della più limitata tutela civilistica) (Sez. 3 civile, 17049/2019).

…Diritto del condannato all’ergastolo cui sia stato riconosciuto il rimedio riparatorio di ottenere la riduzione della pena in forma specifica

La questione centrale che costituisce l’oggetto del ricorso per cassazione è relativa al se il condannato all’ergastolo (anche per fatto ostativo) a favore del quale sia stato riconosciuto il diritto al rimedio riparatorio di cui all’art. 35-ter, per aver subito durante la restrizione trattamento contrario al senso di umanità, abbia o no diritto alla riduzione di pena in forma specifica (nel rapporto di 1:10) ovvero possa beneficiare del solo rimedio residuale del cd. ristoro patrimoniale (nella somma di euro 8,00 per ciascuno dei giorni trascorsi in carcerazione non conforme all’art. 3 CEDU). Il TDS con il provvedimento impugnato ha escluso la possibilità di un ristoro specifico, al cospetto di una pena perpetua. Ciò perché non si potrebbe, concettualmente e giuridicamente, ammettere alcuna detrazione, in fase di espiazione, ostandovi il testo normativo (art 35-ter) la natura della pena in esecuzione e la mancanza di una norma come l’art. 54. Unico rimedio possibile sarebbe, pertanto, quello accordato del ristoro economico. La tesi non convince. L’ergastolo è presente nel catalogo delle pene principali (art. 17) nell’architettura del codice penale vigente. Si tratta della pena massima. Di essa l’art. 22 c.p. ha evidenziato la naturale perpetuità e quattro aspetti strutturali (esecuzione in stabilimenti ad hoc -le case di reclusione-; isolamento notturno -ritenuto implicitamente abrogato-; obbligo del lavoro; possibilità di essere ammessi al lavoro all’aperto, una volta scontati almeno tre anni di pena). Nonostante l’anticipata esplicitazione del carattere di perpetuità della pena in esame si è assistito a una progressiva erosione della caratteristica in questione, con allargamento del principio di flessibilità della sua durata, in attuazione della regola di rieducazione (art. 27 Cost.) e del corollario di progressività del trattamento penitenziario. Non è un caso che già dal 1962 (L. 1634/1962) l’inclusione dell’ergastolo nell’area applicativa della liberazione condizionale (l’art. 176, comma 3, c.p. ammette oggi al beneficio dopo ventisei anni di espiazione) abbia aperto anche all’ergastolano, con riduzione del periodo di espiazione minimo, la possibilità di un ritorno alla società libera, ammissione, tra l’altro, possibile anche attraverso la concessione di grazia o di amnistia. La L. 663/1986 (cd. legge Gozzini) ha definito il periodo minimo, per l’accesso del condannato all’ergastolo alla liberazione condizionale, in 26 anni (restringendo l’arco precedente di espiazione in 28 anni); inoltre, al condannato all’ergastolo il legislatore del 1986, in relazione ai progressi compiuti nel percorso rieducativo intrapreso, ha riconosciuto la possibilità dopo 10 anni, di essere ammesso al lavoro all’esterno (art. 21, comma 1) e ai permessi-premio (art. 30-ter, comma 4, lett. d); dopo 20 anni, alla semilibertà (art. 50, comma 5). La riforma anzidetta, (adeguandosi alla sentenza della Corte costituzionale del 21 settembre 1983) ha ammesso che i termini per l’ammissione del condannato all’ergastolo al lavoro all’esterno, ai permessi-premio, alla semilibertà e alla liberazione condizionale possono ridursi di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata (a condizione che il condannato abbia “dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione"). Si tratta di aspetti materiali che caratterizzano la “nuova” conformazione della pena in questione e che permettono di ritenere che essa abbia, in concreto, perduto quel connotato strutturale di irrefragabile perpetuità, originariamente pensato e scritto dal legislatore del 1930. Ciò anche perché la pena, in generale, deve tendere “alla rieducazione del condannato” (art. 27 Cost.) e una restrizione in perpetuo, priva del carattere di flessibilità, risulterebbe ipso facto in antitesi concettuale con l’anzidetto precetto superprimario. Gli approdi interpretativi descritti non sono messi seriamente in discussione neppure dalle iniziative legislative cd. emergenziali, degli anni novanta, per effetto della “creazione” di una forma d’ergastolo esecutivamente connotato da un profilo cd. ostativo. La definizione di ostatività, impropriamente agganciata nel lessico quotidiano alla pena, a ben vedere, non ne muta affatto i tratti salienti. Essa definizione si lega, infatti, a particolari tipologie di delitti, oggetto di progressivi e cadenzati allargamenti, per i quali si prevedono sbarramenti in funzione dell’accesso a determinati benefici penitenziari, che risultano concedibili solo nel concorso di specifiche condizioni. Nel 1991 (DL 151/1991, convertito con L. 203/1991) è stato, invero, introdotto l’art. 4-bis. All’attualità, i condannati per alcuni gravissimi delitti, riconducibili in buona parte alla criminalità organizzata, comune e politica, non possono essere ammessi ai c.d. benefici penitenziari, né alle misure alternative alla detenzione — con l’eccezione della liberazione anticipata — se non in quanto abbiano ’utilmente’ collaborato con la giustizia ex art. 58-ter. All’"utile collaborazione” sono state poi equiparate, per impulso della Corte costituzionale, la collaborazione “impossibile” e la collaborazione “oggettivamente irrilevante” (art. 4-bis, comma 1- bis, introdotto con la L. 38/2009). Per tali ipotesi ritorna la condizione che siano stati acquisiti “elementi tali da far escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva”. La novità importante segnata dalla normativa indicata riguarda la liberazione condizionale. Anche questo istituto diventa accessibile ai condannati ex art. 4-bis, comma 1, alle stesse condizioni delle misure alternative (collaborazione con la giustizia). Resta, contrariamente, la possibilità di fruire della liberazione anticipata ex art. 54, beneficio che si rivela, tuttavia e in sostanza, privo di ragion d’essere, in assenza di collaborazione. Infine, a norma dell’art. 58-quater, nella versione del DL 152/1991, quando la condanna sia stata pronunciata per sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione o per sequestro di persona a scopo di estorsione seguiti dalla morte della vittima (art. 289-bis comma e art. 630 comma 3 c.p.) i condannati per tali delitti “non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati nel comma 1 dell’art. 4 bis se non abbiano effettivamente espiato..., nel caso dell’ergastolo, almeno ventisei anni di pena” (disposizione da ultimo dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza 149/2018). Dell’ergastolo cd. ostativo la Corte costituzionale si è, in generale, occupata anche nella sentenza 13550/2003. Si è escluso che l’art. 4-bis rendesse la pena ’effettivamente perpetua’ - ’irriducibile’, secondo la terminologia della Corte EDU - nei confronti del condannato non collaborante, escludendolo in via permanente e definitiva dal processo rieducativo, in contrasto con l’art. 27, comma 3, Cost. La disciplina attuale dell’ergastolo ostativo, facendo salve le ipotesi di collaborazione impossibile o irrilevante, sarebbe “significativamente volta a escludere qualsiasi automatismo degli effetti nel caso in cui la mancata collaborazione non possa essere imputata a una libera scelta del condannato”. Di qui la conclusione della Corte: “la disciplina censurata, subordinando l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia, che è rimessa alla scelta del condannato, non preclude in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio, e non si pone, quindi, in contrasto con il principio rieducativo enunciato dall’art. 27 comma 3 Cost.”. Ciò posto si deve osservare come la legittimità costituzionale dell’ergastolo è stata ritenuta dalla Corte costituzionale (sentenza 26469/1974) proprio in ragione della possibilità di accesso del condannato alla liberazione condizionale e del carattere polifunzionale della pena. In questa logica la Corte costituzionale (sentenza 27473/1983) ha affrontato il problema della legittimità dell’originaria disciplina contenuta nell’art. 54 che escludeva l’applicabilità della liberazione anticipata al condannato all’ergastolo e ha dichiarato la disciplina all’epoca in vigore incostituzionale, sottolineando come il raccordo tra le riduzioni della pena ex art. 54 e l’istituto della liberazione condizionale ex art. 176 c. p. fosse finalizzato a promuovere il reinserimento sociale del condannato, “finalità che il vigente ordinamento penitenziario, in attuazione del precetto del terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, persegue per tutti i condannati a pena detentiva, ivi compresi gli ergastolani”. La centralità della rieducazione come finalità prevalente sulla struttura della pena e sul suo carattere formale di perpetuità è tornata in altra decisione della medesima Corte costituzionale (sentenza 16179/1997). Si è, infatti, dichiarato illegittimo il divieto di riammettere alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo che abbia subito la revoca della liberazione condizionale. Ciò perché (art. 177, comma 1, c.p.; si sarebbe escluso il condannato all’ergastolo in modo permanente e assoluto dal processo rieducativo e di reinserimento sociale, in violazione del principio di cui all’art. 27, comma 3, Cost. Nella giurisprudenza della Corte EDU, il problema della compatibilità della pena perpetua con la Convenzione verte sull’art. 3 ("Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti"). Si è affermato nella giurisprudenza convenzionale il principio della cd. “pena perpetua riducibile”, requisito essenziale perché l’ergastolo possa considerarsi compatibile con l’art. 3 CEDU. In una sentenza del 2008 (relativa al caso Kafkaris c. Cipro) la Corte di Strasburgo considera decisivo che l’ordinamento statale preveda un meccanismo che permetta al condannato di tornare in libertà. In ciò starebbe l’essenza del principio di riducibilità della pena. Si tratta di una regola ribadita in diverse sentenze che affermano anche il principio di proporzione (sentenza Vinter c. Regno Unito, 2013, che richiama il concetto di un riesame funzionale a verificare i progressi del detenuto, durante l’esecuzione della pena). Ciò premesso sulle particolari connotazioni dell’ergastolo, si osserva che il giudice a quo era chiamato a decidere sulla domanda di riparazione proposta dal ricorrente, condannato alla pena anzidetta, detenuto che aveva dimostrato di aver trascorso parte della detenzione in condizioni disumane e aveva azionato il rimedio introdotto dall’art. 35-ter. La norma indicata è stata introdotta all’esito delle sollecitazioni provenienti dalla sentenza della Corte EDU 8 gennaio 2013 Torreggiani contro Italia e dalla decisione della Corte costituzionale 279/2013, affinché fosse garantita ai detenuti una riparazione effettiva per le violazioni CEDU derivate dal sovraffollamento carcerario in Italia. Essa disposizione assicura una riduzione della pena detentiva, ancora da espiare (nel rapporto di 1:10) e, quando ciò non sia possibile, riconosce un ristoro pecuniario. Che il rimedio non possa operare nei casi di ergastolo si evincerebbe, sostanzialmente, secondo il giudice territoriale, dalla natura della pena, di carattere perpetuo e che non si presterebbe, per detta ragione, ad alcuna forma di decurtazione. Si tratta di affermazione che induce, tuttavia, più di una perplessità. In primo luogo, il rimedio previsto dall’art. 35-ter consistente nella decurtazione di un giorno di pena detentiva per ogni dieci giorni di espiazione, in condizioni non conformi all’art. 3 CEDU, opera come “criterio regolatore generale”, cui si affianca, là dove non sia possibile una specifica applicazione, quello complementare del ristoro attraverso il tantundem pecuniario, riconoscendo una somma di denaro che equivalga alla lesione subita per il trattamento detentivo patito. Si è inteso costruire un sistema che predilige, innanzitutto, l’attribuzione di una riparazione in forma specifica, attraverso, cioè, la riduzione della pena in espiazione e, dunque, là dove ciò non risulta possibile, si è ammessa la possibilità di ricorrere a una riparazione per equivalente pecuniario, riconoscendo la somma di otto euro per ciascun giorno trascorso in condizioni restrittive, contrarie all’art. 3 CEDU. La Corte costituzionale, con la sentenza 204/2016, per i condannati che abbiano scontato una pena che renda ammissibile la liberazione condizionale, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione all’art. 35-ter ammettendo, in definitiva, che il magistrato di sorveglianza, in quel caso, possa riconoscere interamente il ristoro patrimoniale al detenuto, in espiazione dell’ergastolo. L’esame della Corte costituzionale si è appuntato su un caso in cui la questione rilevante era, tuttavia, relativa alla necessità di valutare la situazione in cui il soggetto ristretto avesse già raggiunto il limite temporale d’espiazione per fruire del beneficio della liberazione condizionale. Da ciò il passaggio argomentativo in cui la Corte stessa - nell’ammettere la priorità del rimedio in forma specifica (costituito cioè dalla riduzione di pena) - ha aggiunto che essa priorità non potesse significare preclusione nel caso in cui non ci fosse stata alcuna detrazione da operare. Nella vicenda sottoposta a scrutinio di costituzionalità si sarebbe potuto intendere anche che quel riferimento, alla mancanza di detrazioni da operare, non si collegasse all’impossibilità di provvedere in ragione della perpetuità dell’ergastolo, ma in funzione della circostanza che, nella vicenda concreta, il detenuto aveva già raggiunto il tetto d’espiazione che lo avrebbe ammesso alla misura della liberazione condizionale Si è, dunque, ritenuto che non sussistesse alcuno sbarramento al riconoscimento di un ristoro integrale pecuniario e che anzi la lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata imponesse quella soluzione, in ragione di un principio d’effettività della tutela giuridica. Il rimedio in forma specifica - che costituisce la regola riparatoria nella logica e nella ispirazione dell’istituto di cui all’art. 35-ter - è previsto dal sistema, incentrandone l’operatività sulla intera categoria delle pene detentive. Non rileva, cioè, attraverso richiami testuali, la distinzione tra temporaneità e perpetuità di essa pena. Nella categoria delle pene detentive rientrano sia le une che le altre. Le due forme di riparazione operano in termini paritetici per entrambe, non ravvisandosi fattori ostativi o preclusivi per un tipo di ristoro, rispetto all’altro, in ragione del tipo di pena, temporanea o perpetua. Anche rispetto all’ergastolo, allora, inteso come pena “perpetua”, nel significato e con le peculiarità che detta caratteristica ha assunto nel corso dell’evoluzione tracciata, la riparazione in forma specifica può avere un significato e il detenuto può mantenere un interesse obiettivo a invocarne l’applicazione. Ciò perché l’attribuzione di perpetuità che caratterizza quella tipologia di pena detentiva non è affatto assoluta, né irriducibile, ma tipicamente e strutturalmente relativa, nel senso che essa è certa nell’an e non nel suo termine finale. Il “quando” sarà, dunque, determinabile solo in via postuma e in fase di esecuzione, secondo l’andamento trattamentale e le stesse scelte dell’esecutando. È una pena in cui la perpetuità è, pertanto, solo nominale e la durata dell’afflizione è tendenzialmente “riducibile”, secondo una serie di eventualità che l’ordinamento offre al singolo detenuto e che dipendono da sue libere scelte. Ciò vale non solo per l’ergastolo, cd. comune, ma anche per i delitti ostativi, per i quali sia in esecuzione quella sanzione, con modalità esecutive di maggiore rigore. Anche nei casi di cui all’art. 4-bis, invero, l’ergastolo è suscettibile di essere rivisto nel suo termine finale, a seconda delle scelte operate dal detenuto. Costui potrebbe, infatti, essere ammesso ai benefici penitenziari collaborando con la giustizia e dando conto della cessazione del suo profilo di pericolosità sociale. Se questo è il quadro di riferimento non si comprende, allora, per quale ragione la lettura dell’art. 35-ter debba indurre una limitazione concettuale come quella che si ritiene esistente nel provvedimento impugnato, che finirebbe per connotare l’istituto in maniera restrittiva, attribuendo caratteristiche che vanno anche oltre il testo della legge. Si dovrebbe, cioè, ammettere, per via d’esegesi, che il detenuto in regime di espiazione di un ergastolo (anche di carattere cd. ostativo) non possa richiedere il risarcimento nella forma specifica e debba necessariamente accedere al solo ristoro economico, come unica forma di riparazione per la detenzione non conforme, pur a fronte di una pena che, per sua natura, è “riducibile e flessibile” e può vederlo destinatario di benefici penitenziari nel concorso dei presupposti di legge. Né appare risolutivo l’argomento collegato a una possibile carenza d’interesse del singolo istante, nel senso che, non essendo maturata a suo favore la condizione legittimante l’eventuale fruizione dell’anzidetta forma di liberazione condizionale o di altri benefici, per difetto di mancata collaborazione (a fronte d’ergastolo cd. ostativo) sarebbe preclusa la richiesta di riparazione in forma specifica e risulterebbe annullato l’interesse del medesimo detenuto a domandare la detrazione, nella forma anzidetta. Invero, anche in ipotesi in cui il richiedente detenuto non abbia maturato la decisione di collaborare e non abbia reso attuale il suo diritto all’accesso ai presupposti per il riconoscimento di benefici penitenziari egli conserva immutato l’interesse a ottenere il rimedio in questione e la quantificazione del numero di giorni da imputare, eventualmente in detrazione, a norma dell’art. 35-ter. Ragionare diversamente significherebbe creare una commistione di piani tra l’interesse a ottenere la riparazione specifica, per la lesione di un diritto fondamentale (al trattamento detentivo conforme) e l’interesse all’ammissione a forme premiali e/o misure alternative, che realizzano vicende trattamentali ben diverse, eventuali e successive, in funzione delle quali ha una rilevanza anche il periodo trascorso in detenzione e quello che si può considerare tale, anche in funzione della riparazione accordata secondo l’art. 35-ter. Si tratta, allora, di due questioni distinte. Esse, a ben vedere, non hanno nessi di collegamento se non quello legato al periodo di pena minima da scontare per essere ammessi a fruire di determinate misure di favore. Il quantum minimo d’espiazione è, d’altro canto, solo uno dei presupposti che caratterizza la possibile concessione di misure premiali. Nessuna disposizione impone che le condizioni di ammissione si realizzino contemporaneamente e che non possano, piuttosto, concretizzarsi in via susseguente, legittimando, così, il detenuto ad aspirare, in ipotesi d’ergastolo ostativo, al riconoscimento di una decurtazione in forma specifica ex art 35-ter, e a riservarsi la possibile scelta su una eventuale collaborazione. Il detenuto, anche in espiazione cd. ostativa, può conservare, dunque, l’interesse al riconoscimento della riparazione in forma specifica. Esso riconoscimento indirettamente potrebbe incidere sulla determinazione della sanzione scontata e, in concreto, potrebbe avere rilevanza in funzione dell’ammissione alla liberazione condizionale. La riparazione specifica integra, allora, un diritto proprio del detenuto. È una posizione, da un lato, legata alla violazione di un interesse inviolabile che ha tutela superprimaria e, dall’altro, che indirettamente può incidere sulla concessione della liberazione anzidetta, accrescendo, attraverso l’imputazione legale, la pena scontata. Non ha, allora, rilievo il richiamo alla mancata previsione dell’art. 54 in materia di liberazione anticipata e il difetto di una norma analoga che riconosca prerogativa similare al detenuto condannato all’ergastolo, in funzione del rimedio di cui all’art. 35-ter, per la liberazione condizionale. Basta qui annotare che si tratta di istituti profondamente diversi. L’art 35-ter è norma che può avere un’incidenza solo indiretta sulla concessione delle misure penitenziarie. Ciò perché può concorrere a determinare la pena scontata. Si tratta di una disposizione che ha un’altra finalità primaria e, dunque, lo scopo di ristorare il detenuto per una lesione inferta alla sua sfera giuridica. Una forma di riparazione che avviene nei termini indicati riconoscendo un ristoro specifico che si risolve in una fictio esecutiva e che permette di ritenere come pena “scontata”, a fronte dell’intervenuto riconoscimento di detenzione non conforme, quella subita secondo un criterio di imputazione legale nel rapporto di un giorno di abbuono a fronte di dieci subiti in violazione dell’art. 3 CEDU (1:10). La liberazione anticipata nella previsione di cui all’art. 54 ha scopo diverso. Si tratta di un rimedio che ha finalità trattamentale e che è legato alla positiva partecipazione all’opera di rieducazione. Il riconoscimento di 45 giorni aggiuntivi come pena espiata ogni sei mesi di detenzione ha l’obiettivo di contribuire alla rieducazione del condannato e a favorirne il reinserimento in funzione premiale e d’accelerazione dell’espiazione. Si intende, pertanto, come la liberazione anticipata -che rileva sul tempo minimo ai fini dell’ergastolo (26 anni di espiazione) e in caso di ergastolo ostativo nel concorso della collaborazione- non assolve a una finalità equiparabile a quella che il sistema assicura attraverso l’art. 35-ter al detenuto che abbia subito restrizione contraria al principio di umanità. Essa norma ha, piuttosto, lo scopo di ristorare il detenuto per il pregiudizio infertogli e lo fa attraverso la descritta forma specifica di ristoro (1:10). Là dove ciò non sia possibile, si interviene, in ragione dell’effettività della riparazione, attraverso il riconoscimento degli otto euro per ogni giorno di detenzione non conforme. Il diritto alla riparazione specifica si lega, allora, all’esecuzione di una pena detentiva, sia essa temporanea o cd perpetua. Ciò perché la perpetuità è un concetto relativo e da tempo eroso anche per le forme ostative dell’ergastolo stesso (da ultimo si rinvia alle considerazioni di Corte EDU nella sentenza Viola c. Italia) e risale essenzialmente a una libera scelta del detenuto. Da ciò discende che si può invocare il riconoscimento della riparazione specifica, anche là dove non si sia ancora assunta la decisione di collaborare e, dunque, non si sia attualizzato l’interesse a ottenere la misura penitenziaria o altro beneficio. La scelta di collaborare non è, invero, sottoposta a limiti temporali e anche il detenuto che sia stato in detenzione non conforme, per fatti cd. ostativi, ha facoltà di maturare quella decisione nel corso del suo trattamento, in funzione dell’accesso ai benefici stessi che, in difetto, gli risulterebbero preclusi. Da ciò il diritto di imputare alla detenzione in essere anche quella che sia stata riconosciuta ex art 35-ter come contraria al principio di umanità. Né si tratta di riconoscere crediti di pena da utilizzare attraverso imputazioni future e da impiegare in possibili vicende esecutive non attuali e di diverso contenuto trattamentale. Si è già anticipato che il modello in esame non si muove sul piano del credito di pena, né si alimenta d’una finalità di rieducazione in senso proprio. La rieducazione può rilevare come effetto “mediato” e “indiretto” della detenzione non conforme. Essa può risultare pregiudicata da condizioni detentive contrarie al senso di umanità. Lo scopo dell’istituto riparatorio in esame è, tuttavia, quello di assicurare tutela piena ed effettiva alla lesione di un diritto fondamentale del detenuto di ricevere un trattamento penitenziario conforme al sentimento di umanità. Quello introdotto dall’art. 35-ter è un istituto essenzialmente risarcitorio che assicura la riparazione per la lesione inferta. Si tratta, allora, del ripristino della sfera giuridica violata, attraverso il trattamento non conforme. In ciò sta la ragione che la sua operatività preveda essenzialmente come forma generale e principale di ristoro quella specifica e che il ristoro pecuniario, o per equivalente, campeggi solo in via secondaria e là dove il primo non sia possibile, perché si tratta di periodi inferiori a 15 giorni o perché non esiste più rapporto esecutivo in corso e il singolo soggetto sia stato scarcerato. In caso di pena dell’ergastolo spetta, contrariamente, al detenuto valutare se richiedere una riparazione economica o in forma specifica, considerando la natura del delitto in esecuzione (se ostativo o no), la possibilità di accedere a misure premiali e la durata di pena già espiata, valutazioni personalissime che possono involgere anche quelle ulteriori su una possibile scelta di collaborazione. Escludere la possibilità che il condannato all’ergastolo possa scegliere di beneficare della riparazione in forma specifica, significherebbe incidere su prerogative del singolo detenuto. Ciò perché la norma conforma il diritto alla riparazione alla pena detentiva espiata in condizioni contrarie al principio di umanità, ponendo quale referente di valutazione la restrizione in generale (temporanea o perpetua che sia). Non occorre allora verificare se siano attuali le condizioni per accedere a benefici penitenziari o alla liberazione condizionale. Ciò perché non si valuta se la domanda sia o no funzionale al riconoscimento di misure siffatte. Il tema oggetto di decisione è altro. Si tratta di accertare l’esistenza del diritto al risarcimento del danno richiesto per violazione dell’art. 3 CEDU e verificare la riconoscibilità del ristoro nella forma specifica anzidetta. L’uso che di esso il detenuto intenderà fare è aspetto che non rientra nell’ambito del sindacato dell’organo giurisdizionale. Là dove non intenda accedere a benefici penitenziari o alla liberazione condizionale, assumendo la decisione di non collaborare (per forme di ergastolo cd. ostativo) esso riconoscimento resterà privo di concreto risvolto e utilità, per il richiedente. Né avrà egli diritto a una conversione postuma, dovendo applicarsi il principio che sottostà alla regola della domanda, secondo cui electa una via non datur recursus ad alteram. Là dove intenda accedere alla collaborazione, nel concorso dei requisiti relativi, anche l’ergastolano avrà facoltà di richiedere che sia imputato il periodo riconosciutogli, ai fini della eventuale liberazione condizionale (Sez. 1, 41649/2019).

Peculiarità del procedimento

…Competenza del magistrato di sorveglianza anche quando manchi la possibilità della compensazione mediante riduzione del periodo detentivo

Sulla base di una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata dell’art. 35-ter, coincidente nella specie con gli esiti cui conduce una interpretazione logico-sistematica, va riconosciuta la competenza del magistrato di sorveglianza ad adottare il provvedimento di ristoro economico nel caso di periodo di detenzione trascorso in condizioni disumane, anche in mancanza di qualsiasi collegamento con un’effettiva riduzione del periodo detentivo, come avviene nell’ipotesi di soggetto sottoposto a pena perpetua; anzi, la validità della piena autonomia del ristoro pecuniario a prescindere da una riduzione della pena da espiare, si desume anche da quanto sancito dall’ultimo periodo del secondo comma della suddetta norma, che riconosce la competenza del magistrato di sorveglianza ad adottare il provvedimento di contenuto economico (Sez. 6 civile, 20830/2019).

…Obbligo di accertamento dei fatti del magistrato di sorveglianza

Nel caso di contestazione specifica, da parte del detenuto ricorrente, dei dati forniti dall’amministrazione penitenziaria in ordine alla superficie delle camere di detenzione nonché di quella degli arredi fissi e dei letti nelle stesse camere collocati, in funzione dell’accertamento relativo allo spazio idoneo al movimento di ciascun detenuto in tali camere, il magistrato di sorveglianza è in linea di principio tenuto, avvalendosi dei poteri officiosi di acquisizione della prova sul punto di cui all’art. 666, comma 5, c.p.p., ad effettuare atti di istruzione diretti all’accertamento di tali fatti, ovvero ad indicare specificamente le ragioni per le quali ritenga non necessari tali atti di istruzione (Sez. 5, 4758/2020).

…Riparto dell’onere della prova

Nei procedimenti instaurati ai sensi dell'art. 35 ter, le allegazioni dell'istante sul fatto costitutivo della lesione, addotte a fondamento di una domanda sufficientemente determinata e riscontrata sotto il profilo dell'esistenza e della decorrenza della detenzione, sono assistite da una presunzione relativa di veridicità del contenuto, per effetto della quale incombe sull'Amministrazione penitenziaria l'onere di fornire idonei elementi di valutazione di segno contrario (In sentenza la Corte ha citato due recenti precedenti; rispetto al primo, la direzione della casa di reclusione in cui l'istante era stato ristretto non era stata in grado di fornire elementi conoscitivi sulle condizioni della detenzione atteso il cospicuo lasso di tempo trascorso mentre, nel secondo, è stata menzionata l'omessa attivazione dei poteri di verifica d'ufficio, necessaria ove sussista una condizione di incertezza probatoria non altrimenti superabile) (Sez. 1, 18387/2022).

L’art. 35-ter, comma 3 prevede un rimedio giudiziale di natura sia preventiva che riparatoria, da svolgersi con rito camerale, per coloro che ritengono di subire o di avere subito un pregiudizio durante l’applicazione della misura di restrizione della libertà personale in carcere. Il procedimento de quo è stato inserito nel corpo della legge penitenziaria che regola tale settore all’indomani della sentenza pilota Torreggiani ed altri c. Italia emessa dalla Corte EDU l’8 gennaio 2013, con la quale si è stabilito il principio secondo cui il collocamento di un detenuto in uno “spazio” pro capite inferiore ai tre metri quadrati di superficie calpestabile, da considerare come spazio minimo vitale, integra l’ipotesi di trattamento inumano e degradante: tale principio, pertanto, costituisce oggi il fondamentale parametro para-costituzionale, di matrice convenzionale, con cui accertare il rispetto degli artt. 10, 2, 13 e 27, comma 3, Cost. e degli artt. 1, comma 1, 6, commi 1 e 4, Ordinamento penitenziario. In successive pronunce, la Corte di Strasburgo ha indicato il metodo con cui valutare la sussistenza della violazione dell’art. 3 CEDU da parte dello Stato. Emblematico è il caso Mursic c. Croatia del 20 Ottobre 2016, in cui la Corte, dopo avere confermato che lo standard predominante di valutazione della sussistenza di condizioni di vivibilità è l’attribuzione di una superficie calpestabile di tre metri quadrati per i detenuti trattenuti in celle occupate da più detenuti (§ 136), ha chiarito che tale solo fattore, per quanto idoneo a fondare una grave presunzione di violazione, non valga come regola generale di giudizio: in tale caso l’amministrazione penitenziaria può provare che vi sono stati ulteriori e concomitanti fattori in grado di compensare la mancata attribuzione di spazio vitale all’interno delle stanze occupate (§137). Pertanto, la presunzione grave è superata se le seguenti condizioni siano cumulativamente provate : 1) la riduzione dello “spazio” vitale si presenti per brevi, occasionali e minori circostanze temporali, secondo i parametri indicati al §130 della decisione; 2) tale riduzione sia accompagnata da un sufficiente grado di libertà di movimento o da adeguate attività fuori dalla cella; 3) il detenuto sia collocato in una struttura che, in linea generale, possa definirsi appropriata, e non sussistano altre situazioni di aggravio delle condizioni di detenzione (§134). Nei casi, poi, in cui lo spazio di vivibilità riguardi celle in cui risulti l’assegnazione di 3-4 mq di superficie pro-capite, il fattore “spazio” assume ancora rilievo nella considerazione della sussistenza di adeguate condizioni di detenzione. In tale caso la violazione sussiste se il fattore “spazio” si associa ad altri aspetti di trattamento inappropriato correlati, in particolare, all’accesso ad attività fuori dalla cella, alla presenza di aria o luce naturale, alla aerazione dei locali, all’ adeguatezza della temperatura interna, alla possibilità di utilizzo riservato di sanitari, in conformità con le basilari esigenze igienico-sanitarie (§§ 139 e 106). La Corte EDU, inoltre, sottolinea che, al di sopra della superficie di 4 mq. pro capite di superficie calpestabile, devono comunque essere considerate le condizioni di vivibilità indicate nei paragrafi 48, 53, 55, 59 e 63-64 della decisione, che riguardano tutti gli aspetti con cui si svolge il programma di trattamento (Story and Others v. Malta, nos. 56854/13, 57005/13 e 57043/13, §§ 112-113, 29 Ottobre 2015). La Corte, infine, sottolinea il ruolo preventivo che le strutture di detenzione hanno nel monitorare le condizioni in cui avviene il trattamento dei detenuti e nell’indicare gli standard di applicazione della misura detentiva, che costituiscono ulteriori parametri per valutare la complessiva condotta tenuta dall’amministrazione statuale in relazione agli obblighi di cui all’art. 3 CEDU. Tutto quanto sopra rilevato è utile per evidenziare l’ampio margine di valutazione affidato ai giudici di merito nel considerare la sussistenza o meno di una violazione dell’art. 3 CEDU che, certamente, non è limitato alla misura dei metri quadri pro capite di superficie nelle celle occupate da più detenuti, ma all’esame, comparato, di altri elementi ancora più importanti, attinenti all’intero programma di sconto di pena applicato al detenuto e all’idoneità della struttura e dei servizi correlati a garantire un trattamento a salvaguardia della dignità umana. Pertanto, il fattore “spazio” è un elemento necessario per misurare, con diverso peso e in misura inversamente proporzionale, gli altri fattori inerenti al complessivo trattamento. Oltre a tale test, indicato dalla Corte EDU, si aggiunge quello, indicato dall’art 27 Cost., sulla finalità rieducativa della pena: concetto che, ovviamente, riconduce alla questione della sufficiente e idonea offerta di attività “riabilitative” interne, confacenti alla personalità del detenuto, in rapporto al tempo di permanenza nella struttura. Sotto il profilo degli obblighi da rispettare per garantire un trattamento “non inumano e degradante”, l’ordinamento penitenziario in vigore dal 1975, e i regolamenti attuativi che si sono succeduti nel tempo, contengono già in sé il nucleo centrale degli obblighi che lo Stato ha per garantire un regime di restrizione della libertà personale secondo i principi conformi all’art. 27 Cost., in sintonia con quanto indicato dalla Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 3 CEDU. Pertanto i parametri indicati dalla Corte EDU forniscono un utile metodo di analisi per valutare il rispetto delle norme interne, che generalmente rinviano a una valutazione di “adeguatezza” del trattamento offerto e delle strutture in cui esso si svolge. La norma di cui all’art. 35-ter, comma 3, inserita nella legge sull’ordinamento penitenziario immediatamente dopo la condanna dello Stato italiano intervenuta a seguito della decisione pilota “Torreggiani” sopra richiamata della Corte EDU, si pone a chiusura della “rete di protezione” cui hanno diritto i soggetti detenuti, e in definitiva sancisce un agile strumento processuale di accesso alla giustizia, prevedendo che i soggetti che si sentono lesi nei loro diritti possano proporre azione, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, di fronte al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio hanno la residenza, che si pronuncia con decreto non soggetto a reclamo sul diritto a un indennizzo quale conseguenza delle violazioni. La norma definisce anche i parametri con cui liquidare la misura del risarcimento per il danno in atto o definitivamente ricevuto, da quantificare in termini di riduzione di pena o di indennizzo monetario commisurato a ogni giorno di pena, a seconda della permanenza o meno dello stato di detenzione. Il rito previsto è camerale e, come tale, regolato dagli artt. 737 e ss. c.p.c. In proposito, giova sottolineare che, all’indomani della condanna subita nel caso Torreggiani, la Corte EDU ha dato atto dei positivi risultati ottenuti dallo Stato italiano per porre rimedio alle sistemiche violazioni dei suoi obblighi di protezione, determinate soprattutto dalla situazione di sovraffollamento carcerario. Sulla situazione italiana, infatti, la Corte EDU è tornata a decidere con la sentenza del 16 settembre 2014 nella causa Stella c. Italia e, in tale sede, ad appena un anno di distanza dalla sentenza-pilota, ha rilevato che lo Stato italiano ha reagito prontamente creando un nuovo ricorso interno di natura preventiva, che permette alle persone detenute di lamentare dinanzi all’autorità giudiziaria le condizioni materiali di detenzione, nonché un ricorso “riparatorio” che prevede un indennizzo per le persone che hanno già subito una detenzione in violazione della Convenzione (§ 41 della decisione). Ha quindi esaminato analiticamente e valutato positivamente la disciplina del ricorso preventivo (§§ 45-54) e quella del ricorso riparatorio (§§ 55-62). In particolare, quanto alla riduzione di pena prevista dall’art. 35-ter ord. pen., ha ritenuto che essa costituisca “una riparazione appropriata”, oltre a contribuire a risolvere il problema del sovraffollamento. Quanto, infine, alla compensazione pecuniaria, ha ritenuto che l’importo del risarcimento previsto dal diritto interno, anche se inferiore a quello fissato dalla Corte, non potesse essere considerato irragionevole e privare il rimedio del requisito della effettività, pur riservandosi un eventuale riesame della questione della effettività del ricorso in discussione, affidato a una valutazione di coerenza, uniformità e compatibilità della tutela accordata con le esigenze della Convenzione (punti n. 62 e 67). Sicché la garanzia di uno strumento processuale duttile e facilmente accessibile per il detenuto, in grado di prevenire e, al tempo stesso, di risarcire le violazioni in termini di compensazione di pena ovvero, ove già espiata quest’ultima, di liquidazione del danno in termini monetari, costituisce certamente la chiave di volta del sistema per consentire il graduale passaggio da una tutela “riparatoria” di tipo di risarcitorio, a una tutela in senso lato “preventiva”, idonea a spingere le amministrazioni penitenziarie e lo Stato che vigila su di esse ad effettuare un costante monitoraggio sul trattamento elargito ai detenuti, per renderlo effettivamente ossequioso dei diritti fondamentali. Al di là della complessità del giudizio che si richiede al giudice una volta avviato tale procedimento dal detenuto, è comunque certo che per la Corte EDU l’onere della prova dell’adempimento conforme ai principi sanciti dalla Convenzione, mediante il meccanismo di presunzioni come sopra diversamente modulate, grava sempre sulla struttura chiamata a rispondere della violazione di obblighi di protezione e di norme di comportamento. La deduzione della violazione di detti obblighi da parte dello Stato, nel nostro ordinamento, determina, difatti, una responsabilità di tipo contrattuale, derivante dallo stretto rapporto che si instaura tra il soggetto attivo - lo Stato - che dispone la custodia detentiva in carcere e il soggetto passivo - il detenuto - che la subisce, quest’ultimo certamente titolare del diritto incomprimibile di non ricevere un trattamento inumano e degradante. Sicché la presunzione di responsabilità che deriva a seconda del grado di violazione riscontrata reagisce all’interno di tale tipo di responsabilità. In relazione alla natura degli obblighi di protezione gravanti sullo Stato, il riferimento specifico alla natura contrattuale - e non extracontrattuale - di tale obbligazione si riscontra nell’ art. 1173 c.c. che la fa derivare dalla violazione di obblighi di legge, costituente “fatto o atto idoneo a produrre obbligazioni”. In casi assimilabili alla presente fattispecie, si è già sancito che l’obbligazione avente ad oggetto l’equa riparazione per la violazione dell’art. 6, paragrafo 1 CEDU, in caso di ingiusta detenzione, si configura non già come una obbligazione ex delicto, di matrice aquiliana, ma come obbligazione ex lege, come tale riconducibile, in base all’art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico.  Quanto al regime della prova in tema di responsabilità contrattuale, deve operarsi una ulteriore riflessione sul corretto riparto relativi oneri, proprio in ragione delle presunzioni sopra indicate che gravano sullo Stato in caso di inadempimento. In tema di violazione di obblighi contrattuali, una valutazione in termini di “maggiore vicinanza della prova” non può riferirsi alla prova del nesso causale e del danno lamentato dal “creditore”, che rimane a carico di quest’ultimo (Sez. 3 civile, 20812/2018). Per regola generale, normalmente è onere dell’attore che si assume creditore allegare specificamente l’inadempimento e dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta inadempiente e il danno di cui chiede ristoro (onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, comprese le presunzioni, che la condotta dell’obbligato è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno), con la conseguenza che se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere quel nesso risultato assolutamente incerto, la domanda deve essere rigettata. In tale materia, tuttavia, occorre ancora una volta sottolineare che la deduzione di violazione di specifici obblighi di rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti ristretti in case di detenzione determina una presunzione di grave responsabilità dello Stato in ordine alle modalità di esecuzione del trattamento, in ragione dello stretto rapporto che si instaura tra il soggetto attivo - lo Stato - che dispone della potestà punitiva e il soggetto passivo - il detenuto - che la subisce in condizioni di restrizione della libertà personale, quest’ultimo certamente titolare del diritto incomprimibile di non ricevere un trattamento inumano e degradante durante il periodo di sconto della pena. Pertanto la situazione di squilibrio che si crea all’origine tra chi dispone di tale potestà e chi la subisce non può non riverberarsi sul piano processuale. La giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità per il danno causato da attività pericolosa da emotrasfusione, ha ancora di recente affermato che la prova - che grava sull’attore danneggiato - del nesso causale intercorrente tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV, può essere fornita - ove risulti provata l’idoneità di tale condotta a provocare il contagio - anche con il ricorso alle presunzioni, in difetto di predisposizione (o anche solo di produzione in giudizio), da parte della struttura sanitaria, della documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente, e ciò in applicazione del criterio della vicinanza della prova (Sez. 3 civile, 5961/2016). Inoltre, sempre ragionando sul piano processuale, in tale materia va correttamente applicato non solo il principio di vicinanza della prova, che in tal caso aggrava la posizione della parte pubblica chiamata a rispondere del proprio inadempimento, ma anche il principio di non contestazione, contenuto nel primo comma dell’art. 115 c.p.c., il quale generalmente opera, indifferentemente, nei confronti del convenuto, come dell’attore (Sez. 3 civile, 8647/2016). Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, il principio di contestazione tempestiva (con il relativo corollario della non necessità di prova riguardo ai fatti non tempestivamente contestati) deve essere inteso nel senso che è dovere, per il giudice, di ritenere non necessaria la prova di fatti specifici che non siano espressamente contestati. Si è infatti affermato che ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o convenuto) un onere di allegazione (e prova), l’altra parte ha l’onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi tale fatto pacifico e non più gravata la controparte del relativo onere probatorio. Sicché, in tema di prova, ex art. 115, comma 1, c.p.c., una circostanza dedotta da una parte può ritenersi pacifica - in difetto di una norma o di un principio che vincoli alla contestazione specifica - se essa sia esplicitamente ammessa dalla controparte o se questa, pur non contestandola in modo specifico, abbia improntato la difesa su circostanze o argomentazioni incompatibili col suo disconoscimento. Quando, invece, la mancata espressa contestazione della circostanza si fonda sull’assunto della non pertinenza del fatto dedotto al giudizio in corso, per il carattere generico di tale contestazione, la parte non è esonerata dall’onere di provare il fatto stesso e, in mancanza di tale prova, il ricorso alle presunzioni è rimesso alla discrezionalità del giudice di merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente e correttamente motivato. Il giudice del merito, pertanto, prima di iniziare la valutazione delle allegazioni delle parti, deve operare una primaria distinzione tra fatti che una parte è tenuta a provare, tenendo conto della regola di distribuzione degli oneri probatori sopra esposti, e i fatti specificamente allegati dalla controparte che la parte è onerata a contestare nel rispetto del principio del contraddittorio, altrimenti dati per pacifici. Tale meccanismo, descritto nell’art. 115, comma 1, c.p.c., vale solo per la parte che si sia costituita con instaurazione di regolare contraddittorio, e non certamente per la parte che sia rimasta assente dal procedimento, nei confronti della quale la contumacia non può valere né come mancata contestazione, né come elemento di inversione degli oneri probatori. Lo Stato che rimane contumace, pertanto, non è esonerato dai propri gravosi oneri probatori, diversamente modulati a seconda delle violazioni dedotte che creano presunzioni di inadempimento, mentre se si costituisce ha l’onere di contestare gli addebiti e di provare il proprio adempimento, sulla base della distribuzione degli oneri probatori sopra descritti. Il secondo comma dell’art. 115 c.p.c. consente, poi, al giudice di attenuare in parte il principio di disponibilità delle prove e di non contestazione come regolato dal primo comma, attraverso le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, da intendersi tuttavia “come fatto acquisito dalla collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile o incontestabile” (Cass. civ. 14063/2014). In tale contesto, pertanto, si pone anche la questione della rilevanza probatoria, come “fatto notorio” (strumento di prova peraltro diverso dalle sopra ricordate massime di esperienza), ovvero come argomento di prova “atipica”, delle relazioni pubblicate dagli enti autorizzati a effettuare un “osservatorio” sulle condizioni dei detenuti nei vari istituti del territorio nazionale, che il detenuto o lo Stato potrebbero produrre come prova delle condizioni in cui è stato applicato il trattamento. Poiché tali relazioni - autorizzate dal Ministero, ma non costituenti documenti pubblici - (come, ad esempio, i rapporti dell’Osservatorio Associazione Antigone), hanno per oggetto le condizioni generali degli istituti penitenziari messi sotto osservazione da tali associazioni, ma non sono direttamente riferibili al trattamento effettivamente ricevuto dal detenuto, con tutta la complessità che tale giudizio coinvolge, l’utilizzo di tale strumento potrebbe contribuire ad arricchire un procedimento valutativo di prove diversamente acquisite, ma non a colmare un vuoto probatorio. Il fatto “notorio” introduce nel processo fatti acquisiti dalla collettività con un tale grado di certezza da apparire indubitabili o incontestabili, non potendo quindi concernere quegli elementi valutativi che implicano nozioni particolari che non posseggono un grado di univocità e di sicura percezione (Sez. 5 civile, 14063/2014). Conseguentemente, ove - come nel caso in questione - lo Stato si sia costituito, il semplice fatto che contesti i fatti addotti dalla controparte mediante produzioni documentali, e il ricorrente non sia stato in grado di contrastare adeguatamente la documentazione offerta e di fornire la prova contraria con documentazione più attinente al trattamento effettivamente ricevuto, alla luce della regola di vicinanza della prova deve ritenersi che tale circostanza non esoneri lo Stato dallo specifico obbligo di provare, attraverso idonea documentazione, l’adempimento specifico dei propri obblighi in tutto il periodo di trattamento, senza possibilità di avvalersi del principio di non contestazione, alla luce dell’insegnamento della stessa Corte EDU (Corte EDU, Ogica c. Romania, n. 24708/03 del 27 maggio 2010). Ove lo Stato non si costituisca e rimanga contumace, tale fatto non è poi idoneo ad invertire la regola probatoria come sopra delineata, che rimane a carico dello Stato stesso, indicato come inadempiente. Qualora, poi, la documentazione prodotta dal ricorrente si dimostri insufficiente a delineare i termini del complessivo “inadempimento” allegato, e ciò a prescindere dalla contestazione della controparte e dalla sua contumacia, vengono certamente in gioco, a favore della parte ricorrente, ma non dell’amministrazione resistente in grado di disporre di appropriati mezzi di prova - nei confronti della quale vale la cd. strong presumption di inadempimento, riferita nel precedente Mugic c. Croatia del 20 Ottobre 2016 sopra richiamato -, sia il ragionamento per presunzione, che i poteri integrativi e officiosi del giudice previsti dal rito camerale prescelto dal legislatore per dirimere tale controversia. Nel rito camerale previsto dall’art. 35-ter della legge penitenziaria, ove è oltretutto previsto che il ricorrente possa agire anche in assenza dì difesa tecnica, la possibilità d’intervento del pubblico ministero sta a significare che il giudice è chiamato a disporre non solo di diritti delle parti, ma soprattutto a regolare interessi di rilievo pubblico, con il potere/dovere di attivare, se del caso, i suoi poteri di acquisire informazioni ex officio utili per accertare l’effettivo trattamento ricevuto o per compiere ulteriori valutazioni tecniche sullo stato dei luoghi. In particolare, il giudizio de quo richiede al giudice di scrutinare se lo Stato, chiamato a rispondere del suo operato, abbia effettivamente assolto al suo primario obbligo di rispettare le disposizioni di legge volte a scongiurare che l’applicazione della pena detentiva si trasformi in un trattamento inumano e degradante, e pertanto impone la verifica dell’effettivo - e non solo formale - adempimento degli obblighi di cui il ricorrente ha dedotto la violazione. Pertanto, in tale contesto, sebbene l’inerzia difensiva del titolare della potestà punitiva non potrà mai giocare a favore di quest’ultimo, tuttavia in talune ipotesi potrebbe rendersi necessario accertare la congruenza delle allegazioni offerte dal ricorrente, se ritenute troppo generiche. A tal fine soccorre il potere d’ufficio del giudice di “assumere informazioni”, conferito dall’art. 738, comma 3, c.p.c., da intendersi certamente quale meccanismo riequilibratore di un procedimento in cui la parte ricorrente, nella maggior parte dei casi, non è nella possibilità di avere pronto e immediato accesso ai dati relativi ai luoghi effettivamente occupati durante il periodo di detenzione e al programma di trattamento cui in concreto è stato sottoposto (spesso in istituti diversi), dato il breve termine di decadenza (sei mesi) previsto per l’esperimento di tale procedimento. Nel rito camerale di cui all’art. 738, comma 3, c.p.c., difatti, sebbene le regole processuali che lo disciplinano richiedano che gli oneri di prova siano ripartiti equamente tra le parti e che il giudizio si svolga nel rispetto del contraddittorio, ad armi pari, deve ravvisarsi un vero e proprio, parallelo dovere di cooperazione del giudice nell’accertamento dei fatti rilevanti ove risulti che la parte che agisce sia privo di difesa tecnica e le prove non siano facilmente accessibili per la parte che vi è onerata, e ciò in ragione del principio di effettività della tutela accordata dall’ordinamento a diritti di indubbia matrice costituzionale e convenzionale (SU civili, 27310/2008, in materia di poteri del giudice con riguardo all’accertamento dello status di rifugiato; v. anche l’espresso richiamo al consolidato principio di effettività della tutela indicato nella sentenza della Corte EDU dell’uomo del 16 settembre 2014, nella causa Stella c. Italia) (Sez. 3 civile, 31556/2018).

…Termine per il reclamo

Il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento adottato in materia di rimedi risarcitori o compensativi ai sensi dell’art. 35-ter è pari a quindici giorni, decorrenti dalla data della notifica dell’avviso di deposito del provvedimento, secondo quanto stabilito dal comma 4 dell’art. 35-bis, che prevede il cennato termine per i procedimenti disciplinati, come quello qui in rilievo, dall’art. 69, comma 6, lett. b) (Sez. 1, 1629/2020).

Casistica

…Condizioni complessive del trattamento detentivo e sua incidenza ai fini dell’eventuale ricorrenza di un trattamento disumano e degradante nell’accezione dell’art. 3 CEDU

Nella cella nella quale il detenuto è obbligato a rimanere per un lungo periodo di tempo senza poter uscire diventa rilevantissimo stabilire se il letto singolo è ancorato al suolo - non è, cioè, mobile – e quindi i detenuti all'interno della cella non possono utilizzare lo spazio dallo stesso occupato per camminare e per spostarsi o se, invece, non è ancorato al suolo, consentendo la possibilità di spostarlo durante il giorno per specifiche necessità, al pari delle sedie e di tavolini, e, quindi, di utilizzare il relativo spazio (Il principio affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 6551 del 24/09/2020, dep. 2021, Ministero della Giustizia, Rv. 280433, faceva espresso riferimento allo spazio occupato dal letto a castello per affermare che, non essendo lo stesso spostabile, la superficie dallo stesso occupata deve essere detratta da quella complessiva della stanza al fine di verificare il rispetto della superficie minima pro-capite; ma non si affermava, al contrario, che la superficie occupata dai letti singoli non debba essere detratta: la detrazione deve essere operata se i letti singoli sono ancorati al suolo, perché non sono, in questo caso, "mobili", mentre non deve esserlo se possono essere spostati) (Sez. 1, 18681/2022).

Nel caso in cui lo spazio minimo sia inferiore alla quota-limite di 3 mq, il trattamento degradante è compensabile con: a) la brevità della permanenza in tale condizione; b) l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella; c) l’adeguata offerta di attività esterne alla cella; d) le buone condizioni complessive dell’istituto; e) l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti (Corte EDU, Grande Camera, Mursic c. Croazia, 20.10.2016).

In tema di rimedio risarcitorio ex art. 35-ter, ai fini dell’accertamento della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, se lo spazio delle celle è inferiore ai tre metri quadrati esiste una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU superabile - in applicazione dei principi affermati dalla sentenza della Grande Camera della Corte EDU, 20 ottobre 2016, Mursic v. Croazia - solo attraverso la valutazione dell’esistenza di adeguati fattori compensativi che si individuano nella durata della restrizione carceraria, nei margini della libertà di circolazione concessa fuori dalla cella, nell’offerta di attività esterne alla cella e nel decoro complessivo delle condizioni di detenzione. Viceversa, qualora lo spazio individuale minimo assicurato al detenuto, una volta scomputati gli arredi fissi, sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati, vanno presi in considerazione gli ulteriori aspetti che determinano la complessiva offerta del trattamento detentivo, come la mancanza di aria o di luce, i difetti della condizione igienica, la carenza di assistenza sanitaria o l’assenza di offerte ricreative o culturali. Nell’ipotesi, quindi, di spazio minimo individuale tra i tre e i quattro metri quadrati, ciò che rileva, ai fini del trattamento inumano o degradante, è un’offerta trattamentale complessiva gravemente carente (Sez. 1, 910/2020).

La giurisprudenza della Corte EDU ha enunciato una serie di principi, di seguito riassunti, i quali, come detto, definiscono l’ambito applicativo della fattispecie di cui all’art. 35-ter, costituendo il presupposto in base al quale il giudice nazionale deve stabilire se un determinato regime penitenziario integri, o non, un trattamento “inumano e degradante” (Corte EDU, Grande Chambre, sentenza Mursic c. Croazia, 20/10/2016): a) il giudizio sulla compatibilità delle condizioni detentive con l’art. 3 CEDU “non può essere ridotto ad un calcolo del numero di metri quadrati assegnati al detenuto”, dovendo tenersi conto delle complessive condizioni trattamentali mediante una valutazione unitaria; b) nel contesto di tale valutazione unitaria delle generali condizioni di detenzione, riveste, comunque, carattere preminente il fattore “spazio”, il quale, pertanto, determina, nel caso in cui il detenuto in una camera collettiva abbia a disposizione meno di tre metri quadrati calpestabili, una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 CEDU; c) tale presunzione qualificata è superabile e confutabile in presenza di fattori specifici che possano adeguatamente compensare la mancanza di spazio personale, quali, fra l’altro, un’adeguata attività trattamentale da svolgersi fuori dalla camera e le generali condizioni igieniche delle strutture penitenziarie; d) uno spazio in camera superiore ai tre metri quadrati, di per sé solo - specie se comunque inferiore a 4 metri quadrati - non depone, in ogni caso, per l’adeguatezza delle condizioni di detenzione, sussistendo pur sempre la violazione dell’art. 3 CEDU se a uno spazio limitato in camera si aggiungano condizioni detentive deteriori (quali, tra l’altro, la carenza di opportunità trattamentali, l’assenza di corretta aerazione dei locali, la mancanza di intimità nel bagno, precarie situazioni sanitarie o igieniche). Alla stregua dei parametri sopra enunciati, il giudice nazionale è, dunque, chiamato a verificare: a) se sussiste la presunzione qualificata derivante da un insufficiente spazio a disposizione del detenuto (calcolato al netto dei sanitari e degli arredi fissi); b) se tale presunzione sia o no controbilanciata (e, quindi, superata) da altri fattori concernenti le complessive condizioni detentive del ricorrente. Qualora, poi, lo spazio a disposizione del singolo detenuto sia superiore al limite dei tre metri quadrati e inferiore a quello dei 4 metri quadrati, sarà necessario indagare, sulla base delle specifiche allegazioni del detenuto, sulla presenza di condizioni generali di detenzione che, comunque, depongano per una violazione del divieto di trattamenti “inumani e degradanti”. La Corte alsaziana, tuttavia, con la decisione resa nel caso Mursic C. Croazia non ha affrontato, in modo espresso, il tema delle concrete modalità di computo dello spazio minimo individuale, limitandosi a osservare che “la superficie totale della cellula non deve comprendere quella dei sanitari (...). Al contrario, il calcolo della superficie disponibile nella camera di detenzione deve includere lo spazio occupato dai mobili. L’importante è determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella camera, secondo quanto già affermato nelle precedenti pronunce Ananyev e altri c. Russia del 10/01/2012 e Belyayev c. Russia del 17/10/2013. In particolare, la prima di queste sentenze, al punto 148, aveva stabilito - che la superficie complessiva della camera deve essere tale da consentire ai detenuti di muoversi liberamente tra gli elementi di arredamento (si veda, nella giurisprudenza successiva, anche Grande Camera, 16/12/2016, Klaufia ed altri c. Italia). Coerentemente con questa impostazione, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che nel novero degli elementi che non devono essere inclusi nel computo dello spazio minimo vitale vi siano, oltre ai servizi igienici, gli armadi e gli altri arredi tendenzialmente fissi in maniera stabile alle pareti o al suolo, atteso che il mobilio inamovibile non consente, per definizione, la possibilità, per i detenuti, di muoversi normalmente nella camera. E tra gli oggetti esclusi dal computo sono stati inclusi anche i letti che presentino la struttura “a castello”, da ritenersi certamente ostativi al libero movimento e alla piena fruizione dello spazio della camera di detenzione da parte del detenuto, avendo essi un peso tale da non poter essere spostati e avendo una conformazione tale da non consentire, di norma, il mantenimento della struttura eretta, restringendo a loro volta, come gli armadi, l’area ove muoversi (Sez. 1, 41211/2017). Viceversa, si è ritenuto che debbano essere inclusi nel computo tutti gli articoli amovibili, come gli sgabelli o i tavoli, e tutti quegli oggetti che di fatto non impediscano l’utilizzo dello spazio per il movimento, come nel caso degli stessi letti “non a castello” (Sez. 1, 40523/2017). E si è condivisibilmente ribadito che una volta eventualmente riscontrata, alla stregua dei criteri sopra menzionati, l’inadeguatezza dello spazio minimo, essa possa ritenersi in concreto compensata dall’esistenza di situazioni specifiche, quali la limitata durata della restrizione carceraria, la possibilità di ampi spazi di circolazione fuori dalla camera, l’offerta di attività da svolgere in ampi spazi fuori dalle celle, il decoro complessivo delle condizioni di detenzione, anche in rapporto alle condizioni igieniche e ai servizi forniti (Sez. 1, 3291/2020).

Esiste una forte presunzione di trattamento disumano a fronte della disponibilità di uno spazio minimo inferiore ai 3 mq., valutabile alla luce dei cosiddetti criteri compensativi (tra cui, la brevità della permanenza, l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella, l’adeguata offerta di attività esterne, le buone condizioni complessive dell’istituto e l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento). Quanto alle modalità di computo dello spazio minimo, il detenuto deve avere la possibilità di muoversi all’interno della cella, con la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici, ma anche quello occupato da mobili arredi e da strutture tendenzialmente fisse nonché da quegli arredi, che seppur teoricamente amovibili, siano in realtà di peso consistente e di ingombro evidente, quale può essere, ad esempio, un letto a castello (Sez. 1, 51496/2019).

Lo “spazio minimo individuale in cella collettiva” va inteso come la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto e idonea al movimento e allo svolgimento delle attività quotidiane attraverso cui si esplicano le funzioni essenziali che caratterizzano i gesti di vita ordinaria. Ciò ha indotto a ritenere che si debba detrarre dalla complessiva superficie lo spazio destinato ai servizi igienici, ma anche quello occupato da mobili, arredi e da strutture tendenzialmente fisse nonché da quegli arredi, che seppur teoricamente rimuovibili, siano in realtà di peso consistente e di ingombro evidente, quale può essere, ad esempio, un letto a castello. Contrariamente si è ritenuto che non debba essere detratto lo spazio occupato dal letto singolo, poiché assolve una funzione poliedrica e permette lo svolgimento di attività anche diurne diverse dal riposo. Si è anche osservato che, come criterio di calcolo dello spazio minimo abitabile, da riconoscere a ciascun detenuto, sia da adottare quello della superficie funzionale a consentire la libertà di movimento individuale nella camera di soggiorno e pernottamento, senza escludere dal computo gli arredi non fissi al suolo e necessari alle primarie esigenze di alimentazione e riposo del detenuto. Tra essi v’è indubbiamente il tavolo, le sedie e l’indicato letto singolo. Il punto centrale del ragionamento è di stabilire se i detenuti abbiano la possibilità di muoversi normalmente nella cella, secondo quanto già affermato in precedenti pronunce (Ananyev e altri c. Russia del 10/1/2012 e Belyayev c. Russia del 17/10/2013). Ciò posto si deve rilevare che affinché lo spazio sia “vivibile” per assolvere altre funzioni, di vita quotidiana, non occorre che esso debba essere valutato solo in funzione del moto e deve essere oggetto di una verifica complessiva. Esso spazio non è ipso facto ristretto o negativamente connotato da quegli arredi rimovibili, come gli sgabelli o il tavolo. Ciò perché la superficie occupata dal tavolo (di dimensioni non eccessive) concorre alla definizione della vivibilità dell’ambiente. L’arredo risulta, infatti, utilizzabile per una serie di attività (dalla lettura, alle esigenze connesse alla scrittura, allo studio e all’alimentazione, tutte funzioni primarie e coessenziali al vivere quotidiano). Anche lo spazio occupato dagli armadietti non infissi al suolo - che non creano ingombri al movimento per la posizione di allocazione e che sono necessari per appoggiare oggetti e per riporvi effetti personali e necessari alla vita detentiva - non è negativamente conformato dalla presenza degli arredi. Essi concorrono alla “vivibilità” dell’ambiente e non alterano la sostanziale superficie “disponibile” anche per il movimento all’interno della stanza di restrizione, proprio in ragione della specifica sistemazione che non interessa il piano di calpestio della stanza di permanenza (Sez. 1, 38933/2019).

A fronte di una detenzione sostanzialmente e interamente aperta, in cui il soggetto ristretto non è tenuto a sottostare ad una permanenza continua in cella durante le ore del giorno ed ha ampia e libera facoltà di uscire dalla stanza e di muoversi partecipando ad attività sociali e comuni, non ha significato decisivo l’esame sulla superficie disponibile in cella. Ciò perché la stanza di restrizione non è impiegata come ambiente in cui espletare le attività quotidiane, ma esclusivamente come luogo di riposo e per dormire, svolgendo il detenuto ogni attività all’esterno di essa (Sez. 1, 41652/2019).

La giurisprudenza di legittimità è concorde e affatto consolidata nel senso che l’ordinamento non riconosce la pretesa del detenuto all’applicazione dell’isolamento notturno in termini di situazione giuridica attiva suscettibile di tutela giurisdizionale. Il PG ha chiesto il rigetto del ricorso mediante adesivo richiamo alla sentenza di Sez. 1, 22072/2011, e, cioè, sul presupposto della intervenuta abolizione (per effetto della entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario) dell’isolamento notturno del quale il ricorrente invoca la applicazione. Siffatta premessa non pare irrefutabile. La tesi abolizionista pretende di trarre fondamento disposizione dell’art. 6, comma 2,  il quale stabilisce: «I locali [degli istituti di pena] destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti»; osserva, quindi, che la legge «non distingue[..] la pena da eseguire»; e argomenta che, in base alla disposizione finale dell’art. 89, comma 1, contenente la abrogazione di «ogni altra norma incompatibile con» l’ordinamento penitenziario, gli articoli 22, 23 e 25 c.p. devono reputarsi «implicitamente modificati» nel senso della abrogazione della previsione dell’isolamento notturno in essi contenuta. L’assunto non è condivisibile. L’argomento - al pari di ogni altro fondato su disposizioni concernenti la edilizia penitenziaria - appare, per vero, alquanto debole in quanto prova troppo. Dopotutto, a differenza dell’abrogato art. 23 RD 787/1931, recante il Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, che contemplava espressamente tra gli stabilimenti di pena ordinari anche «gli ergastoli », il vigente art. 61, comma 1, non annovera più gli ergastoli tra gli istituti per la esecuzione delle pene, senza che per ciò, evidentemente, la intervenuta soppressione degli stabilimenti penitenziari in parola consenta di accreditare la conclusione della abolizione della pena perpetua (art. 110, comma 5, Reg.). Sul piano del dato positivo deve, piuttosto, rilevarsi che proprio il citato art. 89, comma 1, contiene nella prima parte l’abrogazione espressa di varie disposizioni del codice penale (e del codice di rito all’epoca vigente): «Sono abrogati gli articoli [...] del codice penale etc.». Mentre nessuna menzione opera in relazione agli artt. 22, 23 e 25 c.p. per stabilire la abolizione dell’isolamento notturno. Ma, anche a voler trascurare l’argomento a silentio, la supposta incompatibilità tra gli artt. 22, 23 e 25 c.p., nella parte in cui prescrivono l’isolamento, e l’art. 6 appare francamente discutibile. La disposizione in parola, contenuta nel Capo II (Condizioni generali) del Titolo I (Principi direttivi), riguarda tutti gli edifici penitenziari e non i soli istituti per la esecuzione delle pene principali detentive (Titolo II, Capo I, art. 61). Orbene la generale previsione anche di «camere dotate di un» solo posto risulta affatto compatibile con la applicazione dell’isolamento notturno come stabilito dagli artt. 22, 23 e 25 c.p. Sicché dal combinato disposto degli artt. 6 e 89 non pare possano inferirsi la abrogazione delle succitate disposizioni codicistiche in parte qua e l’abolizione dell’isolamento notturno. Tanto precisato, va ribadito il principio di diritto - conferendo continuità al relativo indirizzo - secondo il quale l’isolamento notturno si configura come modalità di esecuzione della pena in termini di maggiore afflittività sicché non è configurabile un interesse giuridicamente apprezzabile del detenuto a instare per l’inasprimento del proprio trattamento penitenziario e a dolersi, mediante ricorso per cassazione, del provvedimento del magistrato di sorveglianza che ne abbia respinto il reclamo per l’omessa attuazione. E affatto calzante si rivela, in proposito, la considerazione che la «logica sanzionatoria» alla base della previsione dell’isolamento notturno «non può, con effetti di conclamata distonia sistemica, trasformarsi in una logica contraria» nella prospettiva, cioè, della richiesta di tutela del detenuto (Sez. 1, 20142/2011). Né, infine, ha giuridico pregio il concorrente richiamo del ricorrente alla «legislazione europea» per suffragare la pretesa di allocazione in cella singola. La giurisprudenza di legittimità non ignora che la Raccomandazione del Comitato dei Ministri della Comunità Europea, del 12 febbraio 1987, al punto 8 della seconda parte delle Regole minime per il trattamento dei detenuti, recita: «I detenuti devono in linea di principio essere alloggiati durante la notte in camere individuali, salvo nel caso in cui sia considerata vantaggiosa una sistemazione in comune con altri detenuti. Quando una camera è in comune, deve essere occupata da detenuti riconosciuti adatti ad essere alloggiati in queste condizioni». La disposizione - al pari delle analoghe «Regole minime per il trattamento dei detenuti» della Risoluzione ONU del 30 agosto 1955 - non ha, tuttavia - come la giurisprudenza di legittimità ha ben chiarito - carattere cogente e, dunque, ben può sopportare eccezioni anche a causa di difficoltà strutturali od organizzative. In conclusione la rilevata carenza di qualsivoglia situazione giuridica attiva, tutelabile in sede giurisdizionale, in capo al detenuto per la allocazione in cella singola (Sez. 1, 21309/2017).

…Vestiario e corredo

Il reclamo al magistrato di sorveglianza risulta ammissibile allorquando si versi al cospetto di un pregiudizio grave ed attuale. Il requisito di gravità, per essere suscettibile di giustiziabilità deve assumere un minimum di consistenza strutturale e non può rivelarsi con connotati di tale lievità da apprezzarsi, piuttosto, come un puro disagio o fastidio (fattispecie in cui è stata esclusa la gravita del pregiudizio subito da un detenuto cui è stata negata la consegna di un pettine) (Sez. 7, 9071/2017).

Il divieto di detenere più di tre asciugamani non comporta alcun pregiudizio a diritti soggettivi del detenuto ed in particolare del suo diritto alla salute (Sez. 7, 35532/2018).

…Igiene personale

L’articolo 3 CEDU proibisce, in termini assoluti, la tortura o le pene o i trattamenti inumani o degradanti, indipendentemente dalle circostanze e dal comportamento della vittima, fermo restando che il maltrattamento, per assumere rilievo ai fini della previsione convenzionale, deve raggiungere un livello minimo di gravità. La valutazione di tale livello minimo è relativa: dipende da tutte le circostanze della causa, quali la durata del trattamento, i suoi effetti fisici e mentali e, in alcuni casi, il sesso, l’età e le condizioni di salute della vittima. La Corte EDU, nella sentenza Mursic c. Croazia, ha aggiunto (par. 49) che il maltrattamento che raggiunge tale livello minimo di gravità comporta generalmente una effettiva lesione personale o un’intensa sofferenza fisica o mentale. Tuttavia, anche in assenza di tali circostanze, un trattamento che umili o svilisca la persona, mostrando mancanza di rispetto o sminuendo la sua dignità umana, o che susciti sensazioni di paura, angoscia, o inferiorità, tali da vincere la sua resistenza morale e fisica, può essere definito degradante e rientrare anch’esso nell’ambito della proibizione prevista dall’articolo 3. Ancora, si è sottolineato che la sofferenza e l’umiliazione in questione devono in ogni caso eccedere l’inevitabile componente di sofferenza e umiliazione connessa alla detenzione. Lo Stato deve assicurare che le condizioni di detenzione siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità e il metodo di esecuzione della pena non sottopongano la persona a dolori o privazioni d’intensità superiore al livello di sofferenza che discende, inevitabilmente, dalla detenzione, e che, date le esigenze di ordine pratico della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano adeguatamente garantiti. In tale contesto, si collocano le regole penitenziarie europee (European Prison Rules), oggetto della Raccomandazione R (2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri del Consiglio d’Europa, che, anche nella versione più recente, circoscrive nei termini seguenti le regole igieniche da osservare nei luoghi di detenzione (art. 19): «Tutti i locali di ciascun carcere devono essere mantenuti in perfetto stato e sempre puliti. 2. Le celle e gli altri locali assegnati ad un detenuto al momento della sua incarcerazione devono essere puliti. 3. I detenuti devono disporre di un accesso immediato ai servizi igienici che siano salubri e rispettino la loro intimità. 4. Devono essere previste strutture adeguate affinché ciascun detenuto possa usufruire di bagni e docce a temperatura adattata al clima, se possibile giornalmente, ma almeno due volte alla settimana (o più frequentemente se necessario), conformemente ai principi generali di igiene. 5. I detenuti devono occuparsi dell’igiene personale, della pulizia dei loro abiti e della cella. 6. Le autorità penitenziarie devono fornire loro i mezzi necessari, segnatamente gli articoli da toilette, gli utensili e i prodotti di pulizia. 7. Speciali provvedimenti devono essere adottati per rispondere alle necessità igieniche delle donne». Anche in una dimensione più ampia, si osserva che le United Nations Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners (the Mandela Rules), A/C.3/70/L. 3, 29 September 2015, nella regola n. 15, si limitano a prevedere che le installazioni sanitarie siano adeguate a garantire il soddisfacimento delle esigenze naturali, quando necessario, in condizioni di pulizia e di decenza (Sez. 1, 30469/2019).

Fermo restando che l’uso dell’acqua corrente calda nel locale bagno annesso a ciascuna camera costituisce elemento del servizio igienico prescritto dall’ordinamento (ex art. 7 DPR. 230/2000), la sua mancanza non si traduce necessariamente in un trattamento disumano o degradante se siano presenti gli altri fattori di riequilibrio messi a punto dalla giurisprudenza della Corte EDU (Sez. 1, 44866/2017).

Il reclamo al magistrato di sorveglianza risulta ammissibile allorquando si versi al cospetto di un pregiudizio grave ed attuale. Il requisito di gravità, per essere suscettibile di giustiziabilità deve assumere un minimum di consistenza strutturale e non può rivelarsi con connotati di tale lievità da apprezzarsi, piuttosto, come un puro disagio o fastidio (fattispecie in cui è stata esclusa la gravita del pregiudizio subito da un detenuto cui è stata negata la consegna di un pettine) (Sez. 7, 9071/2017).

…Alimentazione

L’art. 9, comma 1, stabilisce che ai detenuti sia assicurata «un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata», tra l’altro, «allo stato di salute». La sana alimentazione è garantita in quanto componente del diritto protetto, anche rispetto alla popolazione detenuta, dall’art. 32 Cost., a garanzia del quale si esercita senza dubbio il controllo del giudice di sorveglianza, a norma dell’art. 69, comma 6, lett. b), quale sostituito dall’art. 3, comma 1, lett. il DL 146/2013, convertito dalla L. 10/2014. L’art. 9, nel successivo comma 4, prescrive che «la quantità e la qualità del vitto giornaliero sono determinate da apposite tabelle approvate con decreto ministeriale». In connessione con la fonte primaria l’art. 11, comma 4, Reg. - nell’istituire tali tabelle, che svolgono una funzione integrativa del precetto legale - prevede (per quanto qui d’interesse) che esse siano distinte in base ai criteri di cui al primo comma dell’art. 9 della legge, e quindi anche in relazione al criterio dello stato di salute del detenuto, in cui certamente rientrano le patologie di natura alimentare; che siano redatte in conformità del parere dell’Istituto superiore della nutrizione; che siano periodicamente aggiornate. Ciò posto, non è certamente lecito al giudice sostituirsi agli organi tecnici ed amministrativi a ciò espressamente deputati e stabilire lui stesso ciò che rientri o non rientri nella nozione di alimentazione sana ed equilibrata. È viceversa compito del giudice quello di accertarsi del contenuto delle tabelle vittuarie; di verificare se, e in che misura, esse includessero effettivamente il pesce nella dieta settimanale, tenuto conto delle indicazioni specifiche eventualmente stabilite per i casi d’intolleranza o allergia alimentare; di far rispettare - in caso affermativo - le relative prescrizioni. La particolare dieta del ricorrente, nell’escludere taluni alimenti, ricomprende tipi di pesce assolutamente comuni, notoriamente reperibili sul mercato anche a prezzi economici. A fronte di ciò, e di una tabella vittuaria che dovesse includere una o più porzioni settimanali di pesce nella dieta, l’Amministrazione dovrebbe dare adeguato conto delle contingenti ragioni, di ordine organizzativo, finanziario, o di altra natura, che le impediscano di adeguarvisi, imponendo il bando totale dell’alimento dai pasti del detenuto (Sez. 1, 51209/2018).

Sono assoggettati al rimedio giurisdizionale, dal detenuto attivato, i soli provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria che incidono sui diritti soggettivi del detenuto, causando un pregiudizio grave e attuale, laddove, nel caso in esame, la norma regolamentare astrattamente applicabile - art. 12, comma 6, Reg., secondo cui «i prezzi dei generi in vendita» nell’esercizio commerciale interno all’istituto «devono adeguarsi a quelli esterni» dei generi corrispondenti, risultanti dalle informazioni fornite dall’Autorità comunale del luogo - ha natura direttiva e programmatica, non fondando situazioni di diritto soggettivo perfetto individualmente azionabili; né avendo il ricorrente allegato e dimostrato, come esattamente ritenuto dal giudice di merito, alcuna effettiva e riflessa compromissione del suo diritto (esso sì garantito dall’art. 9) ad una alimentazione sana, sufficiente ed equilibrata (Sez. 7, 10486/2019).

A fronte di un reclamo del detenuto, che in “riferimento al trattamento penitenziario individuale” individuava determinati comportamenti dell’Amministrazione penitenziaria come una “violazione al proprio diritto di libertà di culto religioso, rispetto al quale la dieta vegetariana deve ritenersi un corollario di pratica rituale”, l’essersi il magistrato di sorveglianza limitato a comunicare al ricorrente, all’esito di procedura informale, una relazione dell’amministrazione penitenziaria in merito alla non inclusione di maestri buddisti Zen nel novero dei ministri di culto abilitati all’ingresso nelle strutture penitenziarie ed un provvedimento in materia di vitto, assunto su reclamo di altro detenuto, si configuri effettivamente come “un mancato rispondere con motivazione specifica” al reclamo del detenuto, nel senso che “la comunicazione in questione” non può costituire, in effetti, “valida risposta sia sul piano procedimentale sia sul piano del contenuto” (Sez. 1, 41474/2013).

Sono violati gli artt. 9 e 14 CEDU allorché uno Stato non accolga la richiesta di un detenuto di fede buddista, la cui convinzione religiosa implichi la necessità di una dieta vegetariana, di potersi alimentare con pasti privi di carne (Corte EDU, 18429/06, Jakobski c. Polonia).

Il culto seguito da un detenuto, cui consegua la scelta di una dieta vegetariana, comporta che lo Stato debba assicurargli la possibilità di professare il culto medesimo anche nelle scelte alimentari, risultando altrimenti violato l’art. 9 CEDU (Corte EDU, Vartic c. Romania, 17 dicembre 2013).

…Permanenza all’aperto

La sovrapposizione tra permanenza all’aria aperta e tempo dedicato alla socialità (come proposta nella circolare DAP del 2017) costituisce una operazione non corretta, perchè accomuna senza ragione due differenti ipotesi, la cui unica connotazione comune (lo stare al di fuori della camera detentiva) mostra gli aspetti della irrilevanza ai fini che qui interessano; - la permanenza all’aria aperta risponde a primarie esigenze igienico-sanitarie e la limitazione della durata ad una sola ora può avvenire non già in via generale - tramite una circolare- ma solo in rapporto ad esigenze eccezionali da motivarsi in concreto, nei confronti del singolo detenuto (come previsto dall’art. 16 comma 3 Reg.) ; - l’interpretazione sistematica delle disposizioni di legge va sempre operata in riferimento a canoni di ragionevolezza e di rispetto dei contenuti delle norme costituzionali, il che porta a ritenere possibili limitazioni ’ulteriori’ dei diritti riconosciuti dalla legge ai soggetti in esecuzione della pena solo lì dove funzionali, in concreto, ad esigenze di ordine e sicurezza interne agli istituti, risolvendosi - in caso contrario - in un incremento di afflittività non rispondente ai contenuti dell’art. 27 comma 3 Cost. Va pertanto ribadito che il contenuto della circolare ministeriale - in tale parte - introduce una illegittima modalità di restrizione, in via generale (sia pure per un insieme di soggetti raggiunti dal decreto di sottoposizione al regime differenziato) di un diritto soggettivo alla fruizione di due ore di permanenza all’aperto giornaliere, la cui limitazione richiede, per converso, l’adozione di un provvedimento motivato che dia conto di particolari ragioni relative al singolo detenuto. Peraltro va anche rilevato che con modifica legislativa (D. Lgs. 123/2018) del testo dell’art. 10, il limite legale minimo di permanenza all’aperto è stato elevato a quattro ore, con possibile restrizione - in caso di giustificati motivi - ad un tempo non inferiore alle due ore e tale nuovo assetto normativo rafforza ulteriormente le conclusioni cui si è pervenuta la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, 24827/2019).

La semplice lettura dell’art. 16 Reg. (che si occupa sia della permanenza all’aperto che delle attività in comune) e dell’art. 12 (in materia di attività in comune) evidenzia la netta distinzione fra le ore d’aria e quelle di socialità sotto il profilo dell’ambito spaziale e delle modalità delta fruizione proprio in ragione della diversità funzionale delle due figure. Indicazioni nello stesso senso si traggono dall’art. 36 Reg. Una sistematica lettura che mostra come l’unica condizione in comune fra la permanenza all’aria e la socialità sia rappresentata dallo star fuori dalla cella, ossia da qualcosa cui non è associabile alcunché di rilevante ai fini di cui trattasi. E deve essere ancora sottolineato che la permanenza all’aperto adempie in modo evidente a primarie finalità di contenimento degli effetti della privazione della libertà, secondo specifiche esigenze di natura sanitaria e psicologica, sì da ammettersi, come rilevato, solo eccezionali limitazioni previa specifica decisione. Il comma 2-quater dell’art. 41-bis alla lett. f), proprio perché rinvia per i limiti ai casi di cui all’art. 10, smentisce la possibilità in termini generali di comprimere la permanenza sotto le due ore, ferme restando le cautele da assicurare quanto alle condizioni di comunicazione. La «socialità» invece costituisce fruizione che attiene a ben altre esigenze, trattandosi del tempo da trascorrere in compagnia all’infuori dell’attività di lavoro e di studio, di modo che in tal caso rilevano non già le condizioni igienico - sanitarie, bensì i profili della tendenziale funzione rieducativa della pena, da tenere presente anche al cospetto di detenuti sottoposti al regime di cui trattasi. Una fungibilità fra le due fruizioni - quella sostenuta nel ricorso (evocando solo motivi di tutela diversamente assicurabili secondo altre specifiche modalità consentite) - che rimane pertanto smentita dalla razionale e coerente lettura di tutte le disposizioni sopra citate che vengono nella specie ad assumere rilevanza (Sez. 1, 48860/2018).

Il provvedimento genetico, emesso dal magistrato di sorveglianza, sul reclamo proposto dal detenuto, riguardava la disapplicazione del regolamento interno di istituto, nella parte in cui prevedeva il limite massimo di due ore giornaliere di permanenza fuori dalla cella e la rinuncia forzata all’uso delle sale di socializzazione nel caso di fruizione di due ore di permanenza all’aperto. Da tale disapplicazione discendeva che il reclamante aveva il diritto di beneficiare di un massimo di due ore all’aria aperta, nel quale non potevano essere compresi i periodi di socialità trascorsi nei locali interni della stessa struttura penitenziaria. Tale provvedimento trae il suo fondamento da una lettura ineccepibile del combinato disposto degli artt. 10, comma 1, e 41-bis, comma 2-quater, lett. f), per effetto del quale la permanenza all’aperto del detenuto sottoposto al regime detentivo speciale non può essere superiore a due ore al giorno e in gruppi di non più di quattro persone, nelle quali non possono essere comprese le frazioni orarie trascorse nelle sale di socialità dell’istituto penitenziario. Si osserva, in proposito, che, nel dettare tale disciplina, il legislatore italiano intende riferirsi alla permanenza del detenuto all’aperto e non già al suo stazionamento fuori dalla cella dove è ristretto ma all’interno dell’istituto penitenziario. Sul punto, non si può che richiamare la giurisprudenza di legittimità, secondo cui: «In tema di condizioni di detenzione la “permanenza all’aperto”, prevista dall’art. 10, non può consistere in una mera permanenza al di fuori della cella (nella specie nelle sale di biblioteca, palestra ecc.), dovendo essa svolgersi, secondo la previsione dell’art. 16 Reg., all’aria aperta» (Sez. 1, 44609/2018). D’altra parte, il silenzio dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), in ordine alle limitazioni all’attività di socialità svolta fuori dalla cella ma all’interno della struttura penitenziaria non può che interpretarsi nel senso dell’espansione, sul punto, della disciplina ordinaria, le cui regole sono finalizzate a garantire l’umanità della pena, ad assicurare la funzione rieducativa del trattamento sanzionatorio e a impedire la compressione del diritto alla salute del detenuto, non giustificata da effettive e comprovate ragioni di sicurezza. Né può essere interpretato nella direzione invocata dalla disposizione in esame il secondo periodo dello stesso art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), che non fa alcun riferimento alle attività di socialità in questione, limitandosi ad affermare: «Saranno inoltre adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi». Occorre, al contempo, evidenziare che la ricomprensione dell’ora di socialità all’interno delle due ore di permanenza all’aperto non appare armonica con le finalità, tra loro eterogenee, alle quali rispondono gli istituti della socialità e della permanenza negli spazi aperti, atteso che nel primo caso si perseguono obiettivi culturali e relazionali non riscontrabili nel caso della permanenza all’aperto, che risponde alla diversa esigenza di garantire il diritto alla salute psico-fisica del detenuto. La giurisprudenza di legittimità, del resto, ha già affermato che gli istituti della socialità e della permanenza negli spazi aperti non possono essere assimilati sul piano delle esigenze di politica criminale che vi sono sottese, anche alla luce «del dato letterale, che rimanda all’aria aperta e non certo alla presenza fuori dalla camera di detenzione, oltre che dall’argomento sistematico costituito dal fatto che l’art. 10 che costituisce chiaramente la norma generale di riferimento, definisce la permanenza all’aperto come permanenza all’aria aperta, come chiarito anche dall’art. 16 Reg., che a tale disposizione dà attuazione, prevedendo, al comma 2, che in quei frangenti vengano utilizzati “spazi all’aperto”, se possibile non interclusi tra fabbricati, ma in luoghi maggiormente esposti all’aria e alla luce, venendo la permanenza assicurata per periodi adeguati, anche attraverso le valutazioni dei servizi sanitario e psicologico» (Sez. 1, 44609/2018). In altri termini, la previsione dell’art. art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), non giustifica un’equiparazione tra la permanenza del detenuto all’interno della struttura carceraria per finalità di socialità e la sua permanenza all’aperto, in ragione del fatto che, come evidenziato dal provvedimento impugnato, tale equiparazione «comprime il diritto alla salute e al benessere psicofisico senza ragione [...]», non comportando alcun incremento alla sicurezza o alla prevenzione dei rapporti intramurari tra soggetti sottoposti al regime detentivo speciale. A tali considerazioni occorre aggiungere che la soluzione ermeneutica seguita nel caso in esame dal Tribunale di sorveglianza appare conforme al principio, espresso dalla Corte costituzionale, secondo cui l’estensione e «la portata dei diritti dei detenuti può [...] subire restrizioni di vario genere unicamente in vista delle esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere [...]», con la conseguenza che «in assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, non compatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost.» (Corte costituzionale, sentenza 135/2013). Ne discende che la compressione di un diritto, quale quello alla salute del detenuto, può essere giustificato soltanto in quanto corrisponda a una maggiore tutela accordata a un interesse sovraordinato, quale quello dell’ordine e della sicurezza pubblica. La ricorrenza di tali sovraordinate esigenze di tutela veniva correttamente esclusa dal Tribunale di sorveglianza, avuto riguardo al fatto che alle limitazioni poste alla fruizione del periodo all’aria aperta non corrispondeva un incremento della tutela assicurata alle esigenze di ordine e sicurezza pubblica, posto che l’ammissione all’aria aperta del detenuto sarebbe comunque avvenuta con le medesime persone con cui il detenuto avrebbe fruito dell’ora di socialità, con le quali avrebbe potuto comunicare liberamente. Queste conclusioni, naturalmente, non comportano che, che in caso di comprovate esigenze di ordine e sicurezza pubblica, non possa farsi luogo, per tale categoria di detenuti, alla riduzione della durata della permanenza all’aria aperta. Tuttavia, in questi casi, la relativa limitazione deve conseguire all’adozione di un provvedimento motivato della direzione dell’istituto penitenziario, che dia adeguatamente conto dei “motivi eccezionali” richiesti dall’art. 10, comma 1, i quali non potranno essere desunti presuntivamente nei confronti del singolo detenuto, sulla base del solo decreto ministeriale di applicazione regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis (Sez. 1, 15572/2019).

Nel caso in cui lo spazio minimo sia inferiore alla quota-limite di 3 mq, il trattamento degradante è compensabile con: a) la brevità della permanenza in tale condizione; b) l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella; c) l’adeguata offerta di attività esterne alla cella; d) le buone condizioni complessive dell’istituto; e) l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti (Corte EDU, Grande Camera, Mursic c. Croazia, 20.10.2016).

In tema di rimedio risarcitorio ex art. 35-ter, ai fini dell’accertamento della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, se lo spazio delle celle è inferiore ai tre metri quadrati esiste una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU superabile - in applicazione dei principi affermati dalla sentenza della Grande Camera della Corte EDU, 20 ottobre 2016, Mursic v. Croazia - solo attraverso la valutazione dell’esistenza di adeguati fattori compensativi che si individuano nella durata della restrizione carceraria, nei margini della libertà di circolazione concessa fuori dalla cella, nell’offerta di attività esterne alla cella e nel decoro complessivo delle condizioni di detenzione. Viceversa, qualora lo spazio individuale minimo assicurato al detenuto, una volta scomputati gli arredi fissi, sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati, vanno presi in considerazione gli ulteriori aspetti che determinano la complessiva offerta del trattamento detentivo, come la mancanza di aria o di luce, i difetti della condizione igienica, la carenza di assistenza sanitaria o l’assenza di offerte ricreative o culturali. Nell’ipotesi, quindi, di spazio minimo individuale tra i tre e i quattro metri quadrati, ciò che rileva, ai fini del trattamento inumano o degradante, è un’offerta trattamentale complessiva gravemente carente (Sez. 1, 910/2020).

La giurisprudenza della Corte EDU ha enunciato una serie di principi, di seguito riassunti, i quali, come detto, definiscono l’ambito applicativo della fattispecie di cui all’art. 35-ter, costituendo il presupposto in base al quale il giudice nazionale deve stabilire se un determinato regime penitenziario integri, o non, un trattamento “inumano e degradante” (Corte EDU, Grande Chambre, sentenza Mursic c. Croazia, 20/10/2016): a) il giudizio sulla compatibilità delle condizioni detentive con l’art. 3 CEDU “non può essere ridotto ad un calcolo del numero di metri quadrati assegnati al detenuto”, dovendo tenersi conto delle complessive condizioni trattamentali mediante una valutazione unitaria; b) nel contesto di tale valutazione unitaria delle generali condizioni di detenzione, riveste, comunque, carattere preminente il fattore “spazio”, il quale, pertanto, determina, nel caso in cui il detenuto in una camera collettiva abbia a disposizione meno di tre metri quadrati calpestabili, una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 CEDU; c) tale presunzione qualificata è superabile e confutabile in presenza di fattori specifici che possano adeguatamente compensare la mancanza di spazio personale, quali, fra l’altro, un’adeguata attività trattamentale da svolgersi fuori dalla camera e le generali condizioni igieniche delle strutture penitenziarie; d) uno spazio in camera superiore ai tre metri quadrati, di per sé solo - specie se comunque inferiore a 4 metri quadrati - non depone, in ogni caso, per l’adeguatezza delle condizioni di detenzione, sussistendo pur sempre la violazione dell’art. 3 CEDU se a uno spazio limitato in camera si aggiungano condizioni detentive deteriori (quali, tra l’altro, la carenza di opportunità trattamentali, l’assenza di corretta aerazione dei locali, la mancanza di intimità nel bagno, precarie situazioni sanitarie o igieniche). Alla stregua dei parametri sopra enunciati, il giudice nazionale è, dunque, chiamato a verificare: a) se sussiste la presunzione qualificata derivante da un insufficiente spazio a disposizione del detenuto (calcolato al netto dei sanitari e degli arredi fissi); b) se tale presunzione sia o no controbilanciata (e, quindi, superata) da altri fattori concernenti le complessive condizioni detentive del ricorrente. Qualora, poi, lo spazio a disposizione del singolo detenuto sia superiore al limite dei tre metri quadrati e inferiore a quello dei 4 metri quadrati, sarà necessario indagare, sulla base delle specifiche allegazioni del detenuto, sulla presenza di condizioni generali di detenzione che, comunque, depongano per una violazione del divieto di trattamenti “inumani e degradanti”. La Corte alsaziana, tuttavia, con la decisione resa nel caso Mursic C. Croazia non ha affrontato, in modo espresso, il tema delle concrete modalità di computo dello spazio minimo individuale, limitandosi a osservare che “la superficie totale della cellula non deve comprendere quella dei sanitari (...). Al contrario, il calcolo della superficie disponibile nella camera di detenzione deve includere lo spazio occupato dai mobili. L’importante è determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella camera, secondo quanto già affermato nelle precedenti pronunce Ananyev e altri c. Russia del 10/01/2012 e Belyayev c. Russia del 17/10/2013. In particolare, la prima di queste sentenze, al punto 148, aveva stabilito - che la superficie complessiva della camera deve essere tale da consentire ai detenuti di muoversi liberamente tra gli elementi di arredamento (si veda, nella giurisprudenza successiva, anche Grande Camera, 16/12/2016, Klaufia ed altri c. Italia). Coerentemente con questa impostazione, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che nel novero degli elementi che non devono essere inclusi nel computo dello spazio minimo vitale vi siano, oltre ai servizi igienici, gli armadi e gli altri arredi tendenzialmente fissi in maniera stabile alle pareti o al suolo, atteso che il mobilio inamovibile non consente, per definizione, la possibilità, per i detenuti, di muoversi normalmente nella camera. E tra gli oggetti esclusi dal computo sono stati inclusi anche i letti che presentino la struttura “a castello”, da ritenersi certamente ostativi al libero movimento e alla piena fruizione dello spazio della camera di detenzione da parte del detenuto, avendo essi un peso tale da non poter essere spostati e avendo una conformazione tale da non consentire, di norma, il mantenimento della struttura eretta, restringendo a loro volta, come gli armadi, l’area ove muoversi (Sez. 1, 41211/2017). Viceversa, si è ritenuto che debbano essere inclusi nel computo tutti gli articoli amovibili, come gli sgabelli o i tavoli, e tutti quegli oggetti che di fatto non impediscano l’utilizzo dello spazio per il movimento, come nel caso degli stessi letti “non a castello” (Sez. 1, 40523/2017). E si è condivisibilmente ribadito che una volta eventualmente riscontrata, alla stregua dei criteri sopra menzionati, l’inadeguatezza dello spazio minimo, essa possa ritenersi in concreto compensata dall’esistenza di situazioni specifiche, quali la limitata durata della restrizione carceraria, la possibilità di ampi spazi di circolazione fuori dalla camera, l’offerta di attività da svolgere in ampi spazi fuori dalle celle, il decoro complessivo delle condizioni di detenzione, anche in rapporto alle condizioni igieniche e ai servizi forniti (Sez. 1, 3291/2020).

Esiste una forte presunzione di trattamento disumano a fronte della disponibilità di uno spazio minimo inferiore ai 3 mq., valutabile alla luce dei cosiddetti criteri compensativi (tra cui, la brevità della permanenza, l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella, l’adeguata offerta di attività esterne, le buone condizioni complessive dell’istituto e l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento). Quanto alle modalità di computo dello spazio minimo, il detenuto deve avere la possibilità di muoversi all’interno della cella, con la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici, ma anche quello occupato da mobili arredi e da strutture tendenzialmente fisse nonché da quegli arredi, che seppur teoricamente amovibili, siano in realtà di peso consistente e di ingombro evidente, quale può essere, ad esempio, un letto a castello (Sez. 1, 51496/2019).

A fronte di una detenzione sostanzialmente e interamente aperta, in cui il soggetto ristretto non è tenuto a sottostare ad una permanenza continua in cella durante le ore del giorno ed ha ampia e libera facoltà di uscire dalla stanza e di muoversi partecipando ad attività sociali e comuni, non ha significato decisivo l’esame sulla superficie disponibile in cella. Ciò perché la stanza di restrizione non è impiegata come ambiente in cui espletare le attività quotidiane, ma esclusivamente come luogo di riposo e per dormire, svolgendo il detenuto ogni attività all’esterno di essa (Sez. 1, 41652/2019).

…Diritto alla salute

La valutazione di compatibilità delle condizioni di salute con il regime carcerario - e il conseguente rigetto di un'istanza di rinvio della pena per motivi di salute - impedisce di ritenere sussistenti i presupposti per il riconoscimento di un trattamento inumano o degradante derivante dalla carcerazione stessa ai sensi dell'art. 35 ter risultando contraddittorio affermare che, essendo il medesimo organo a decidere le due istanze (il tribunale di sorveglianza, sia pure come giudice dell'impugnazione nel caso del rimedio risarcitorio) ed essendo lo stesso il criterio da adottare per la decisione dell'una e dell'altra domanda, una detenzione che non è stata rinviata ex art. 147 CP possa dar luogo ad un risarcimento ex art. 35 ter (Sez. 1, 16682/2022).

Il sistema dell’assistenza sanitaria penitenziaria, disciplinato dall’art. 11, prevede che in ogni istituto penitenziario vi siano un servizio medico ed un servizio farmaceutico rispondenti alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati e che si disponga, inoltre, dell’opera di almeno uno specialista in psichiatria; cure ed accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari dell’istituto vengono eseguiti previo trasferimento del detenuto in ospedali o luoghi di cura esterni. Con specifico riguardo alle visite mediche, è prevista una visita medica generale all’atto dell’ingresso nell’istituto allo scopo di accertare eventuali malattie fisiche o psichiche; i sanitari hanno l’obbligo di visitare quotidianamente gli ammalati e coloro che ne facciano richiesta e di segnalare immediatamente la presenza di malattie che richiedono particolari indagini e cure specialistiche. La tutela del diritto alla salute delle persone private della libertà personale si ricava, in primo luogo, in via interpretativa dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e dalla CEDU, che sostanzialmente fanno riferimento al divieto di sottoporre i detenuti a trattamenti disumani e degradanti, sulla scorta di principi giurisprudenziali ricavati dalla Corte EDU, che riconducono il diritto alla salute nell’alveo dei diritti garantiti in ambito internazionale, quale corollario del diritto alla vita e della dignità umana. Vi sono, poi, le Regole penitenziarie europee, ove si afferma che la finalità del trattamento consiste nel «salvaguardare la salute e la dignità» dei condannati nella prospettiva del loro reinserimento sociale (art. 3 delle Regole penitenziarie europee), nonché la deliberazione approvata dall’ONU (dicembre 1982) in materia di «Principi di etica medica per il personale sanitario in ordine alla protezione dei detenuti», nella quale è previsto che «gli esercenti le attività sanitarie incaricati di prestare cure a persone detenute o comunque private della libertà, hanno il dovere di proteggerne la salute fisica e mentale, nello stesso modo che li impegna nei confronti delle persone libere». Tali principi e regole si pongono in linea sia con il principio di umanizzazione sia con la finalità rieducativa della pena, se ed in quanto entrambi postulano il perseguimento di una piena ed efficace tutela del diritto alla salute del condannato, posto che solo una condizione di benessere psico-fisico dello stesso può garantire il suo recupero e perciò il suo reinserimento sociale. In tal senso quindi, in ossequio all’art. 27 Cost. ed ai suoi corollari, il detenuto ha diritto alla tutela della sua salute sia fisica che mentale, posto che in effetti la pena può svolgere la propria funzione rieducativa verosimilmente su una persona mentalmente in grado di comprenderne la portata e il significato. Inoltre, al fine di meglio garantire il diritto inviolabile in questione, la riforma della medicina penitenziaria (D.Lgs. 230/1999) ha previsto il trasferimento della sanità degli istituti di pena dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale, con ciò - in ossequio al principio di sussidiarietà verticale - imponendo la collaborazione e la integrazione, ciascuna nel proprio ambito, alle diverse istituzioni dello Stato. L’art. 11, nella seconda parte del comma 5, dispone che l’assistenza sanitaria sia prestata, nel corso della permanenza nell’istituto «con periodici e frequenti riscontri, indipendentemente dalle richieste degli interessati», con ciò ponendo un obbligo di controllo delle condizioni sanitarie generali dei detenuti, che deve essere periodico e frequente, specie in presenza di situazioni soggettive meritevoli di particolare attenzione, in considerazione di peculiari condizioni psico-fisiche derivanti anche da una pregressa storia clinica che caratterizzi il detenuto come soggetto potenzialmente “a rischio” sanitario. Più in generale, va ricordato che la possibilità per il detenuto di fruire di cure mediche appropriate anche nella condizione di restrizione carceraria, oltre a porsi in linea con la normativa di principio, costituisce il presupposto fondante la linea di demarcazione tra la compatibilità e l’incompatibilità delle condizioni psico-fisiche della persona con il regime carcerario; tale rilievo, desumibile dal sistema di norme costituito dagli artt. 299, comma 4-ter, c. p. p., 147 n. 2 c.p. e 47-ter, comma 1-ter, impone un’interpretazione del testo normativo conforme all’obiettivo di associare la privazione della libertà personale al costante controllo delle condizioni di salute della persona (Sez. 4, 58363/2018).

Il giudice deve tener conto, indipendentemente dalla compatibilità o meno dell’infermità con le possibilità di assistenza e cura offerte al condannato dal sistema carcerario, anche dell’esigenza di non ledere il fondamentale diritto alla salute e il divieto di trattamenti’ contrari al senso di umanità, previsti dagli artt. 32 e 27 Cost.: occorre, cioè, verificare concretamente se le patologie, pur curabili in istituto e mediante il ricorso all’istituto di cui all’art. 11, non comportino condizioni di vita che producano sofferenze aggiuntive al detenuto, con una detenzione contraria al senso di umanità e, quindi, priva di finalità rieducativa (Sez. 1, 26325/2019).

Il ricorrente ha inteso prospettare nel reclamo la «rilevanza» di una specifica questione (la mancata prestazione del trattamento fisioterapico) in sede di qualificazione dell’offerta trattamentale come «non conforme» ai contenuti dell’art. 3 CEDU, rappresentando dunque l’incidenza di tale omissione al fine di ritenere integrato il trattamento vietato dalla legge perchè «inumano o degradante». La doglianza - ferma restando la valutazione dei suoi contenuti in rapporto alla complessiva qualità dell’offerta trattamentale oggetto di verifica - è ammissibile e va valutata nel merito, posto che il richiamo, contenuto nella disposizione regolatrice, ai contenuti dell’art. 3 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, implica la rilevanza del tema dell’offerta di prestazioni sanitarie adeguate. Va ribadito, infatti, che la violazione dei contenuti dell’art. 3 CEDU può determinarsi in virtù di condotte di inosservanza - da parte dell’amministrazione penitenziaria -, dei diritti fondamentali della persona umana, sottoposta al trattamento rieducativo, la cui individuazione ed il cui livello di gravità va apprezzato in concreto, come la stessa Corte EDU ha avuto modo, in più occasioni, di affermare (si vedano i contenuti della decisione emessa dalla Grande Camera nel caso Labita c. Italia del 6 aprile 2000, ove si è affermato che: la Corte ricorda che per rientrare nell’ambito dell’articolo 3, un maltrattamento deve raggiungere un minimo di gravità. La valutazione di questo minimo è relativa per definizione; la stessa dipende dall’insieme dei dati relativi al caso, e in particolare dalla durata del trattamento, dai suoi effetti fisici e mentali nonché, talvolta, dal sesso, dall’età e dallo stato di salute della vittima (Sez. 1, 52526/2018).

Il differimento della esecuzione della pena ovvero la detenzione domiciliare applicata in luogo del differimento, concernono situazioni in cui risulti che la permanenza nella struttura carceraria - per la inadeguatezza delle terapie praticate, l’inidoneità del centro clinico penitenziario ovvero per l’impossibilità o l’insufficienza, avuto riguardo anche al solo criterio della necessaria tempestività, del ricorso alle strutture esterne di cui all’art. 11 - sia tale da esporre il detenuto a pericolo di vita o comunque a condizioni inumane, oggettivamente inaccettabili. La valutazione in punto di incompatibilità tra regime detentivo carcerario e condizioni di salute del recluso, ovvero la verificazione della possibilità che il mantenimento dello stato di detenzione di persona gravemente debilitata e/o ammalata costituisca un trattamento inumano o degradante, va effettuata tenendo comparativamente conto delle condizioni complessive, soggettive e di salute, del recluso, delle condizioni della detenzione, della offerta terapeutica in regime intramurale, e implica perciò una valutazione circa la concreta adeguatezza delle possibilità di cura e assistenza assicurate nella situazione specifica a quel particolare detenuto. Ma su tale concreta adeguatezza non può incidere tuttavia l’eventuale ingiustificato rifiuto di sottoporsi a trattamenti e terapie proveniente dal detenuto medesimo. Manifestamente infondata è, quindi, la doglianza difensiva con la quale si contesta il rilevo conferito dal provvedimento all’atteggiamento non collaborativo ed anzi oppositivo del detenuto: l’eventuale situazione di sofferenza deliberatamente autoprodotta - realizzata cioè mediante un comportamento ostile, che nel caso in esame, secondo l’insindacabile apprezzamento dei giudici del merito, va dalla mancanza di collaborazione nelle visite al rifiuto opposto al ricovero in un centro riabilitativo per la cura delle patologie e problematiche di mobilità - non può difatti essere presa in considerazione ai fini del bilanciamento tra esigenze di salvaguardia dei diritti fondamentali ed obblighi di effettività della risposta punitiva, posto che non è consentita la tutela del diritto abusato, esercitato in funzione di un risultato estraneo alla sua causa (per il rilievo dato al comportamento ostruzionistico del ricorrente (Sez. 7, 40090/2019).

Il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica, ai sensi dell’art. 147, comma 1, n. 2, c.p. mira a evitare che l’esecuzione della pena avvenga in contrasto con il diritto alla salute e il senso di umanità, costituzionalmente garantiti, quando la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare altre rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere cure e trattamenti non praticabili in regime di detenzione intramuraria, neppure mediante ricovero in ospedali civili o altri luoghi esterni di cura ai sensi dell’art. 11. Pertanto, a fronte dell’istanza di rinvio della esecuzione della pena per grave infermità fisica ai sensi dell’art. 147, comma 1, n. 2, il giudice deve valutare se le condizioni di salute del condannato siano o meno compatibili con le finalità rieducative della pena e con le possibilità concrete di reinserimento sociale conseguenti alla rieducazione. Qualora, all’esito di tale valutazione, tenuto conto della natura della infermità e di un’eventuale prognosi infausta quoad vitam a breve scadenza, l’espiazione di una pena appaia contraria al senso di umanità per le eccessive sofferenze da essa derivanti, ovvero appaia priva di significato rieducativo per l’impossibilità di proiettare in un futuro gli effetti della sanzione sul condannato, deve trovare applicazione l’istituto del differimento previsto dal codice penale (Sez. 7, 1055/2019).

…Attività culturali, ricreative e sportive

In tema di rimedio risarcitorio ex art. 35-ter, ai fini dell’accertamento della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, se lo spazio delle celle è inferiore ai tre metri quadrati esiste una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU superabile - in applicazione dei principi affermati dalla sentenza della Grande Camera della Corte Edu, 20 ottobre 2016, Mursic v. Croatia - solo attraverso la valutazione dell’esistenza di adeguati fattori compensativi che si individuano nella durata della restrizione carceraria, nei margini della libertà di circolazione concessa fuori dalla cella, nell’offerta di attività esterne alla cella e nel decoro complessivo delle condizioni di detenzione (Sez. 5, 53731/2018). Viceversa, qualora lo spazio individuale minimo assicurato al detenuto, una volta scomputati gli arredi fissi, sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati, vanno presi in considerazione gli ulteriori aspetti che determinano la complessiva offerta del trattamento detentivo, come la mancanza di aria o di luce, i difetti della condizione igienica, la carenza di assistenza sanitaria o l’assenza di offerte ricreative o culturali (Sez. 1, 51502/2019).