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Computer crimes e competenza territoriale del Giudice per le indagini preliminari

1. Come è noto, nel dare esecuzione alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica, aperta alle ratifiche a Budapest il 23 novembre del 2001[1], la legge 18 marzo 2008, n. 48, ha apportate rilevanti modifiche al Codice di procedura penale, non tutte strettamente imposte dal rispetto degli obblighi internazionali in questione[2]. Infatti, in assenza di soluzioni “a rime baciate” imposte dal testo convenzionale, il legislatore, lungi dal realizzare una pedissequa riproposizione delle norme convenzionali, sembra aver colto nell’adozione della normativa pattizia l’occasione per realizzare in maniera più celere un intervento riformatore già meditato da tempo e fortemente sollecitato dalla dottrina più attenta a segnalare le difficoltà riscontrate nell’utilizzo dei tradizionali istituti processuali in materia probatoria a fronte di uno sviluppo tecnologico che ne ha determinato una crescente inadeguatezza[3].

Sulla base di tali premesse, l’intervento legislativo del 2008 ha finito per assumere una portata assai più ampia rispetto all’intento dichiarato del mero adeguamento della disciplina nazionale sui reati informatici alla normativa internazionale. Ad un esame più attento, infatti, è facile cogliere nella novella legislativa importanti ripercussioni sulla più generale disciplina delle attività di indagine e sul diritto delle prove penali, tout court, indipendentemente cioè dal fatto che il procedimento penale abbia ad oggetto un reato informatico, un reato comune commesso solo occasionalmente con il mezzo informatico o, addirittura, un illecito del tutto privo di un collegamento diretto alla dimensione tecnologica[4]: in altre parole, nel dettare nuovi paradigmi normativi per la raccolta delle c.d. evidenze elettroniche, la legge 48 del 2008, muovendo dalla presa di coscienza della rilevanza oggi assunta dall’informatica pressoché in ogni fattispecie criminosa[5], è andata oltre il ristretto campo dei computer crimes[6], dettando delle norme suscettibili di trovare generale applicazione in tutte le inchieste penali in cui la prova di un elemento del reato può essere ricercato attraverso gli strumenti ed i supporti informatici.

Pur muovendo da questa alto compito, la legge n. 48, cit., non ha mancato, tuttavia, di presentare evidenti criticità e non pochi aspetti problematici, imputabili, a dispetto della delicatezza della materia, ad incongruenze e ad un uso poco accorto della tecnica legislativa.

2. Un esempio eloquente delle difficoltà cui ha dato luogo, sin dalle sue prime applicazioni, la nuova normativa in materia di reati informatici è offerto dalla sentenza con cui la Prima Sezione della Corte di Cassazione (sent. n. 45078, depositata il 4 dicembre 2008) ha recentemente risolto un conflitto di competenza sorto fra g.i.p distrettuale e g.i.p. territoriale.

Nello specifico, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, a seguito della richiesta del pubblico ministero di rinnovazione della misura cautelare già emessa ex art. 27 c.p.p. dal g.i.p. del Tribunale di Nola, ha impugnato il provvedimento con cui quest’ultimo dichiarava la propria incompetenza sui delitti di cui all’art. 640-ter c.p., benché commessi nell’ambito della propria competenza territoriale ordinaria.

Tale declaratoria di incompetenza era motivata nel provvedimento contestato facendo riferimento alla recente introduzione, ad opera della l. 48/2008, del comma 3-quinquies all’art. 51 c.p.p., a norma del quale i computer crimes sono stati ricompresi fra i reati attribuiti alla competenza del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto[7].

Il g.i.p del Tribunale di Nola, pur rilevando che la legge di ratifica della Convenzione sulla criminalità informatica non aveva apportato alcuna modifica all’art. 328 c.p.p. (disciplinante le competenze del giudice per le indagini preliminari), ha ritenuto che, in tema di reati informatici, dall’attribuzione della competenza al p.m. del capoluogo del distretto doveva farsi discendere un implicito conferimento di competenza al giudice per le indagini preliminari dello stesso tribunale: in altre parole, pur in presenza di un difetto di coordinamento da parte del legislatore del 2008, si sosteneva comunque la competenza territoriale del g.i.p. del tribunale del capoluogo del distretto, dal momento che avrebbe trovato applicazione un principio ricavabile dal sistema in base al quale il giudice per le indagini preliminari è sempre quello presso il quale si trova il pubblico ministero competente.

A tale provvedimento si opponeva il g.i.p. del Tribunale di Napoli (tribunale del capoluogo di distretto), sollevando conflitto negativo di competenza innanzi alla Corte di Cassazione. Nel sollevare conflitto, il g.i.p. del Tribunale di Napoli negava l’esistenza di un principio implicito nel sistema per il quale la competenza territoriale del giudice per le indagini preliminari si determina in base alla competenza del p.m., valendo semmai il principio contrario. In assenza di un’esplicita previsione sull’intervento del giudice nel procedimento, al g.i.p. del Tribunale di Napoli appariva inammissibile ricavare tali conseguenze dalla disciplina delle competenze d’indagine del pubblico ministero distrettuale. A conclusioni diverse osta il principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge ex art. 25, co. 1, Cost (“nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”), la cui portata è tale da impedire l’applicazione in tema di competenza del criterio analogico di cui all’art. 12 delle Preleggi.

Ulteriore conferma dell’esclusione della competenza del g.i.p. distrettuale era poi vista nella circostanza che, ogniqualvolta si era proceduto a novellare l’art. 51 c.p.p. al fine di distrettualizzare le funzioni del pubblico ministero – prima in materia di reati mafiosi[8], poi per quelli di matrice terroristica[9] – il legislatore contestualmente aveva sempre operato una modifica dell’art. 328 c.p.p. al fine di ricomprendere nelle competenze del g.i.p. distrettuale la competenza sugli stessi reati.

3. Chiamata a dirimere il conflitto, la Corte di Cassazione ha accolto senza riserve l’impostazione seguita dal g.i.p. del Tribunale di Napoli, ritenendo applicabili per determinare la competenza del g.i.p. gli ordinari criteri di ripartizione della competenza territoriale, pur a seguito dell’ampliamento delle attribuzioni del pubblico ministero distrettuale.

Del resto, sarebbe stato alquanto peregrino aspettarsi dalla Cassazione una ricostruzione diversa da quella prospettata, essendo fuor di dubbio che il Codice di procedura penale del 1988 abbia adottato il principio generale secondo cui il pubblico ministero trae la titolarità delle proprie funzioni dalla competenza del giudice del dibattimento presso il quale è istituito (art. 51, co. 3, c.p.p.), facendo così diventare le regole sulla competenza giurisdizionale regole sulle attribuzioni del pubblico ministero[10].

Ordinariamente, infatti, le attribuzioni del p.m. sono derivate e serventi rispetto alla disciplina della competenza del giudice, nel senso che esse si modellano e si delimitano in esatta corrispondenza alle regole di ripartizione della competenza tra giudici di cui agli artt. 4 ss. c.p.p.[11]

Ne consegue che, in mancanza di apposita previsione legislativa, il g.i.p. non può ricavare dalle norme sulla competenza del pubblico ministero un fondamento per legittimare una competenza non espressamente attribuitagli dal legislatore: ove il g.i.p. del tribunale capoluogo avesse emanato un provvedimento fuori dalle tassative ipotesi di competenza distrettuale disegnate dall’art. 328, co. 1-bis, c.p.p., sostituendosi al g.i.p. del tribunale territorialmente competente in relazione al luogo di commissione del reato, tale provvedimento inevitabilmente sarebbe risultato viziato per incompetenza territoriale[12].

Tuttavia, per quanto scontata possa apparire l’interpretazione sostenuta dall’organo di nomofilachia, la decisione sarebbe stata tutt’altro che insignificante sul piano delle ricadute applicative qualora le previsioni in tema di competenza territoriale dettate dall’originaria formulazione della l. 48/2008 – vigenti al momento in cui è sorto il conflitto che ha originato la pronuncia della Cassazione – avessero continuato a dispiegare i propri effetti, anziché essere oggetto di una repentina quanto inusuale novella dopo pochi mesi di applicazione.

4. Nelle intenzioni del legislatore, la scelta di concentrare a livello distrettuale le indagini sui reati informatici – riconosciuti nella loro specificità ed equiparati, sotto questo aspetto, ai reati di associazione mafiosa e di stampo terroristico, ai quali non infrequentemente risultano legati da rilevanti connessioni operative – mira a superare problemi di efficienza nell’attività di contrasto ad un fenomeno criminoso che, oltre ad essere difficilmente circoscrivibile entro limitati orizzonti spaziali, risulta caratterizzato da un elevato grado di specializzazione tecnica.

Benché sulla distrettualizzazione delle indagini non siano mancate voci critiche, volte ad evidenziare come l’intento di concentrazione e coordinamento – in assenza di una struttura simile alla Direzione nazionale antimafia e data la concreta eventualità di eccessivi carichi di lavoro, capaci di incidere negativamente de facto sull’esercizio dell’azione penale[13] – rischi in realtà di provocare disfunzioni nel meccanismo inquirente, dal punto di vista della politica del diritto non è infondato sostenere che una simile opzione possa contribuire ad accrescere il livello di specializzazione dei magistrati che indagano sui computer crimes e ad evitare gli inconvenienti derivanti dalla parcellizzazione dell’azione investigativa su reati che presentano elevati profili di complessità.

Fatta questa precisazione sulle divergenti valutazioni espresse dalla dottrina in merito al novellato art. 51 c.p.p., un aspetto della recente disciplina sul quale è invece pressoché unanime il riconoscimento di aspetti di assoluta criticità – e che ha originato il conflitto di competenza su cui la Cassazione è intervenuta con la sentenza in questione – riguarda la mancata previsione, nell’originaria formulazione della legge 18 marzo 2008, n. 48, di un esplicito ampliamento della portata dell’art. 328 c.p.p, tale da spostare a livello distrettuale, per gli stessi reati, la competenza del g.i.p. e del g.u.p.

Con ogni evidenza, l’omessa integrazione dell’art. 328, contestuale e parallela a quella dell’art. 51 c.p.p, veniva a creare una frattura nella ordinaria simmetria tra regole di competenza territoriale del giudice e criteri di attribuzione delle funzioni di pubblico ministero[14]. La mancanza di un accentramento a livello distrettuale anche della competenza del g.i.p. e del g.u.p. (come invece avviene per i reati di criminalità organizzata e di terrorismo internazionale), imponendo il transito del procedimento sui computer crimes dall’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto ai giudici territoriali, contraddiceva chiaramente la stessa ratio della novella contenuta nella l. 48/2008, dal momento che si attribuiva a giudici senza alcuna esperienza in materia di criminalità informatica il compito di valutare l’operato di un pubblico ministero che la riforma avrebbe invece voluto munito di una specifica specializzazione.

Del resto, il fatto che tutte le volte in cui il legislatore ha esteso la competenza del pubblico ministero distrettuale si è proceduto alla simultanea devoluzione di competenza al g.i.p. del capoluogo del distretto risponde ad una specifica esigenza: per i reati di associazione mafiosa e di terrorismo internazionale si è voluto creare un giudice per le indagini preliminari “distrettuale”, quale referente del Procuratore distrettuale, al precipuo scopo di evitare che il p.m. distrettuale, cui compete la cognizione unitaria della vicenda mafiosa o terroristica, sia poi costretto a frazionare il procedimento in relazione alle competenze del g.i.p. circondariale, ogni qualvolta siano richieste decisioni spettanti a tale giudice[15]. In altre parole, l’evenienza da ultimo prospettata non sarebbe stata in linea con la filosofia che è stata all’origine del diverso sistema organizzativo e avrebbe determinato costi certamente superiori rispetto ai vantaggi derivanti dall’introduzione di un simile impianto.

Una tale rottura della simmetria fra competenza del pubblico ministero distrettuale ed ordinaria competenza territoriale del g.i.p., oltre a portare a conseguenze assurde sul piano logico e su quello dell’effettivo contrasto del fenomeno criminale in questione, qualora il quadro normativo introdotto dalla legge n. 48, cit., fosse rimasto inalterato avrebbe potuto comportare, inoltre, rilevanti inconvenienti anche sul piano più strettamente procedimentale, determinando un considerevole ampliamento delle ipotesi di conflitto fra uffici giudiziari. Infatti, non è difficile immaginare che, operante un simile riparto delle competenze, l’eventualità di un provvedimento giurisdizionale nel quale fosse dichiarata, a misure cautelari in atto, l’incompetenza del g.i.p. sarebbe stata tutt’altro che trascurabile, con conseguenze pregiudizievoli facilmente intuibili[16].

5. Un simile scenario è stato fortunatamente evitato dall’opportuno intervento riparatore del legislatore ordinario, volto a rimuovere la macroscopica svista realizzata in occasione dell’emanazione della legge di ratifica della Convenzione del 2001.

Nel convertire con modificazioni il d.l. 23 maggio 2008, n. 92 recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, la legge 24 luglio 2008, n. 125, all’art. 2, co. 1, lett. a), ha colmato la precedente lacuna normativa, aggiungendo all’art. 328 c.p.p. il comma 1-quater, a norma del quale “quando si tratta di procedimenti per i delitti indicati nell’art. 51, comma 3-quinquies, le funzioni di giudice per le indagini preliminari e le funzioni di giudice per l’udienza preliminare sono esercitate, salve specifiche disposizioni di legge, da un magistrato del tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente”. Il quadro che ne risulta, pertanto, appare finalmente dotato di una coerenza interna e conforme al citato assetto organizzativo in materia di reati di stampo mafioso e terroristico.

Del resto, una svista di tale tenore appare in gran parte addebitabile all’iter legislativo alquanto tormentato della l. 48/2008, approvata sul finire della scorsa legislatura, dopo il decreto di scioglimento anticipato delle Camere, in tempi eccezionalmente rapidi[17]. Come emerge dall’esame dei lavori parlamentari, alla presentazione del disegno di legge governativo nel giugno 2007 – che recuperava, con evidenti approssimazioni, una parte dei risultati cui era giunta la precedente commissione interministeriale incaricata di redigerlo – avevano fatto seguito due sole sedute preliminari delle Commissioni Giustizia ed Affari esteri della Camera, tenutesi nell’autunno dello stesso anno, prima che fosse concluso in un solo giorno l’esame in sede referente e che il testo fosse trasmesso, con un unico emendamento, per la repentina approvazione di entrambe le Camere.

Ad un iter legislativo tanto accelerato sono imputabili le incongruenze e le criticità della disciplina in esame, delle quali anche il legislatore storico è apparso consapevole, pur preferendo comunque procedere senza ulteriori rinvii all’adeguamento della normativa italiana a quella internazionale. Resta il fatto, tuttavia, che una materia talmente delicata e complessa come quella introdotta, avrebbe meritato un intervento legislativo più organico e meditato, tanto più se si considera che a non tutti i difetti di qualità tecnica e sistematica della normativa emanata potrà porre integrale rimedio la magistratura in sede interpretativa e applicativa.

6. A fronte degli inconvenienti ricollegabili all’originario assetto legislativo, in questa sede si ritiene – a rischio di cadere in congetture tutt’altro che apodittiche – che con molta probabilità la Cassazione, pur prefigurandosi siffatti scenari, in assenza dell’opportuna correzione legislativa non avrebbe optato per una diversa ricostruzione dell’impianto normativo prodotto dalla legge n. 48, cit. in tema di competenza territoriale.

E’ innegabile che la ripartizione delle competenze territoriali realizzata dalla l. 48/2008 contrastasse manifestamente con il canone di ragionevolezza per come elaborato nel corso degli anni dalla giurisprudenza costituzionale, non sussistendo alcuna giustificazione logico-razionale che potesse motivare un simile impianto. Sebbene sia indubitabile che la scelta di distrattualizzare le indagini rientri nell’ambito della discrezionalità legislativa, a cui solo competono insindacabili opzioni di politica investigativa, la mancanza di un’espressa volontà legislativa volta a perpetrare, a livello distrettuale, il parallelismo fra competenza del pubblico ministero e competenza del g.i.p./g.u.p., si esponeva a molteplici profili di incostituzionalità.

In particolare, l’originaria ripartizione della competenza territoriale in materia di computer crimes: rischiava di rendere meno efficiente l’amministrazione della giustizia, così ledendo il principio generale del buon andamento degli uffici giudiziari ex art. 97 e rendendo più difficoltoso l’esercizio dell’azione penale, obbligatorio a norma dell’art. 112 Cost.; risultava idoneo ad incidere negativamente sui tempi del processo, di cui va assicurata, ex art. 111, co. 2, la ragionevole durata; creava una situazione di incertezza sulla competenza territoriale erosiva della garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, co. 1)[18], e conseguentemente dei valori fondamentali della difesa (art. 24, co. 2), che sarebbero stati lesi da un’eventuale declaratoria di incompetenza in negativo, senza cioè indicazione del giudice competente, dal momento che da una siffatta pronuncia sarebbe derivata l’assoluta impossibilità per l’indagato di difendersi attivamente.

Tutto ciò permette di sostenere, senza tema di smentita, che l’originario riparto della competenza territoriale in tema di reati informatici avrebbe costituito un irragionevole sacrificio di valori costituzionali, non bilanciato – e quindi non giustificato – da esigenze di tutela di beni di rango superiore o almeno equivalente a quelli citati.

A siffatti profili di incostituzionalità non avrebbe potuto porre rimedio neanche un’interpretazione adeguatrice costituzionalmente conforme, volta a riconoscere, pur nel mancato coordinamento legislativo, la competenza distrettuale del g.i.p. Sebbene sia noto il favor della Corte costituzionale verso soluzioni ermeneutiche che escludano la proposizione della questione di legittimità costituzionale tutte le volte in cui esista la possibilità anche di una sola interpretazione conforme al dettato costituzionale, risulta quanto mai peregrino immaginare che la Suprema Corte di Cassazione sarebbe giunta ad un simile soluzione interpretativa, quanto mai forzata e problematica in presenza di un’altra norma costituzionale, l’art. 25, co. 1, Cost., che vieta tassativamente deroghe alla competenza del giudice naturale se non per mezzo di legge anteriore al fatto commesso.

7. Ritornando alle pronuncia della Cassazione di cui si è dato conto, la Suprema Corte ha risolto il conflitto di competenza tra il g.i.p. territoriale e quello distrettuale in favore di quest’ultimo, sulla base però dell’intervenuta novella legislativa realizzata dalla l. 125 del 2008, che, come è ovvio, non poteva essere ininfluente ai fini della decisione in questione.

Osserva la Corte: pur avendo l’art. 2, co. 1, lett. a), la legge n. 125, cit., introdotto per i reati informatici la competenza del g.i.p. distrettuale, la stessa legge, all’art. 12-bis, ha dettato una specifica disciplina transitoria, aggiungendo, all’art. 11 della l. n. 48 del 2008, un nuovo comma 1-bis, a norma del quale “le disposizioni di cui al comma 3-quinquies dell’art. 51 del c.p.p., introdotto dal comma 1 del presente articolo, si applicano solo ai procedimenti iscritti nel registro di cui all’art. 335 del c.p.p. successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”.

Considerato che il procedimento de quo risultava iscritto prima del 5 aprile 2008, data di entrata in vigore della l. n. 48 del 2008, dovevano trovare applicazione gli ordinari criteri di competenza, e risultava, pertanto, radicata, in ragione del locus commissi delicti, la competenza del g.i.p. territoriale.



[1] Per un esame dei principali contenuti della Convenzione di Budapest cfr., ex plurimis, SARZANA DI S. IPPOLITO C., La Convenzione europea sulla cibercriminalità, in Dir. Pen. e Processo, 2002, 4, p. 509 ss.; SACCUCCI A., Primo strumento internazionale contro la criminalità informatica, in Dir. Pen. e Processo, 2002, 1, p. 122 ss.

[2] LUPARIA L., La ratifica della Convenzione cybercrime del Consiglio d’Europa, in Dir. Pen. e Processo, 2008, 6, p. 696 s.

[3] LUPARIA L., La ratifica, cit., p. 696 ss. Analoga esigenza è stata avvertita nell’ordinamento tedesco, in particolare per sollecitazione del Tribunale costituzionale: così GUERNELLI M., I “computer crimes” nell’attuale sistema penale tedesco: aspetti sostanziali e processuali, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2007, spec. p. 650.

[4] Del resto, la stessa Convenzione di Budapest, all’art. 14, esplicitamente imponeva agli Stati di applicare i poteri e le procedure previste: a) ai reati informatici; b) a tutti gli altri reati commessi attraverso un sistema informatico; c) all’insieme delle prove elettroniche di un reato.

[5] Per un’approfondita analisi del fenomeno, cfr., ad es., LUPARIA L. – ZICCARDI G., Investigazione penale e tecnologia informatica. L’accertamento del reato tra progresso scientifico e garanzie fondamentali, Milano, 2007.

[6] Per una definizione dei diversi computer crimes, cfr. PECORELLA C., Il diritto penale dell’informatica, Padova, 2006; PICA G., Reati informatici e telematici, in Dig. disc. pen., I agg., Torino, 2000, p. 521; PICOTTI L., Sistematica dei reati informatici, tecniche di formulazione legislativa e beni giuridici tutelati, in Il diritto penale dell’informatica nell’epoca di internet, Padova, 2004, p. 26; Id., Reati informatici, in Enc. Giur. Treccani, vol. VIII, agg., Roma, 1999.

[7] Sulla portata della deroga alle ordinarie regole sulla competenza per territorio operata dall’art. 51, co. 3-bis, cfr. Cass. pen. Sez. V, 25 maggio 1993, 1940.

[8] D.l. 20 novembre 1991, n. 367, convertito in legge, con modificazioni, dalla l. 20 gennaio 1992, n. 8.

[9] D.l. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito in legge, con modificazioni, dalla l. 15 dicembre 2001, n. 438.

[10] BACCARI G. M., Il mancato rispetto della competenza territoriale durante le indagini preliminari: quali i possibili rimedi, in Dir. Pen. e Processo, 1997, 2, p. 196; LUPACCHINI O., La “competenza” del pubblico ministero, in Dir. Pen. e Processo, 1997, 5, p. 623.

[11] LOCATELLI G., Le attribuzioni processuali della Direzione distrettuale antimafia, in Dir. Pen. e Processo, 1998, 3, p. 362ss.

[12] LOCATELLI G., op. cit., p. 362 ss.

[13] Così, ad es., LUPARIA L., La ratifica, cit., p. 696 ss. L’Autore riprende al riguardo osservazioni espresse da CHIAVARIO M., Ancora sull’azione penale obbligatoria: il principio e la realtà, in Id., L’azione penale tra diritto e politica, Padova, 1995, p. 91 s.

[14] Cfr. TONINI P., Il coordinamento tra gli uffici del pubblico ministero, in Giust. pen., 1992, p. 406.

[15] VITELLO S. F., Procedure distrettuali antimafia e procedimenti connessi, in Dir. Pen. e Processo, 1995, 9, p. 1090 s.

[16] A tal proposito è bene ricordare, tra l’altro, che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (12 dicembre 1994, De Lorenzo) ha statuito la rilevabilità, in sede di impugnazione davanti al tribunale del riesame del vizio afferente l’incompetenza territoriale del giudice che ha disposto l’applicazione di una misura cautelare.

[17] Sull’iter che ha portato all’emanazione della l. 48/2008 cfr. SARZANA DI S. IPPOLITO C., Sicurezza informatica e lotta alla cybercriminalità: confusione di competenze e sovrapposizione di iniziative amministrative e legislative, in Dir. Internet, 2005, n. 5, p. 437 s., spec. p 441-444; PICOTTI L., La ratifica della Convenzione cybercrime del Consiglio d’Europa, in Dir. Pen. e Processo, 2008, 6, p. 696.

[18] Come chiarito dalla Corte costituzionale, sin dalla sent. 22 giugno 1963, n. 110, si tratta di una tutela operante in ogni stato e grado del procedimento. Concorda con tale ricostruzione la dottrina dominante: cfr., ex plurimis, NOBILI M., Commento all’art. 25 comma 1 Cost. Rapporti civili, in Commentario della Costituzione a cura di Scialoya e Branca, Bologna-Roma, 1981, p. 177.

1. Come è noto, nel dare esecuzione alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica, aperta alle ratifiche a Budapest il 23 novembre del 2001[1], la legge 18 marzo 2008, n. 48, ha apportate rilevanti modifiche al Codice di procedura penale, non tutte strettamente imposte dal rispetto degli obblighi internazionali in questione[2]. Infatti, in assenza di soluzioni “a rime baciate” imposte dal testo convenzionale, il legislatore, lungi dal realizzare una pedissequa riproposizione delle norme convenzionali, sembra aver colto nell’adozione della normativa pattizia l’occasione per realizzare in maniera più celere un intervento riformatore già meditato da tempo e fortemente sollecitato dalla dottrina più attenta a segnalare le difficoltà riscontrate nell’utilizzo dei tradizionali istituti processuali in materia probatoria a fronte di uno sviluppo tecnologico che ne ha determinato una crescente inadeguatezza[3].

Sulla base di tali premesse, l’intervento legislativo del 2008 ha finito per assumere una portata assai più ampia rispetto all’intento dichiarato del mero adeguamento della disciplina nazionale sui reati informatici alla normativa internazionale. Ad un esame più attento, infatti, è facile cogliere nella novella legislativa importanti ripercussioni sulla più generale disciplina delle attività di indagine e sul diritto delle prove penali, tout court, indipendentemente cioè dal fatto che il procedimento penale abbia ad oggetto un reato informatico, un reato comune commesso solo occasionalmente con il mezzo informatico o, addirittura, un illecito del tutto privo di un collegamento diretto alla dimensione tecnologica[4]: in altre parole, nel dettare nuovi paradigmi normativi per la raccolta delle c.d. evidenze elettroniche, la legge 48 del 2008, muovendo dalla presa di coscienza della rilevanza oggi assunta dall’informatica pressoché in ogni fattispecie criminosa[5], è andata oltre il ristretto campo dei computer crimes[6], dettando delle norme suscettibili di trovare generale applicazione in tutte le inchieste penali in cui la prova di un elemento del reato può essere ricercato attraverso gli strumenti ed i supporti informatici.

Pur muovendo da questa alto compito, la legge n. 48, cit., non ha mancato, tuttavia, di presentare evidenti criticità e non pochi aspetti problematici, imputabili, a dispetto della delicatezza della materia, ad incongruenze e ad un uso poco accorto della tecnica legislativa.

2. Un esempio eloquente delle difficoltà cui ha dato luogo, sin dalle sue prime applicazioni, la nuova normativa in materia di reati informatici è offerto dalla sentenza con cui la Prima Sezione della Corte di Cassazione (sent. n. 45078, depositata il 4 dicembre 2008) ha recentemente risolto un conflitto di competenza sorto fra g.i.p distrettuale e g.i.p. territoriale.

Nello specifico, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, a seguito della richiesta del pubblico ministero di rinnovazione della misura cautelare già emessa ex art. 27 c.p.p. dal g.i.p. del Tribunale di Nola, ha impugnato il provvedimento con cui quest’ultimo dichiarava la propria incompetenza sui delitti di cui all’art. 640-ter c.p., benché commessi nell’ambito della propria competenza territoriale ordinaria.

Tale declaratoria di incompetenza era motivata nel provvedimento contestato facendo riferimento alla recente introduzione, ad opera della l. 48/2008, del comma 3-quinquies all’art. 51 c.p.p., a norma del quale i computer crimes sono stati ricompresi fra i reati attribuiti alla competenza del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto[7].

Il g.i.p del Tribunale di Nola, pur rilevando che la legge di ratifica della Convenzione sulla criminalità informatica non aveva apportato alcuna modifica all’art. 328 c.p.p. (disciplinante le competenze del giudice per le indagini preliminari), ha ritenuto che, in tema di reati informatici, dall’attribuzione della competenza al p.m. del capoluogo del distretto doveva farsi discendere un implicito conferimento di competenza al giudice per le indagini preliminari dello stesso tribunale: in altre parole, pur in presenza di un difetto di coordinamento da parte del legislatore del 2008, si sosteneva comunque la competenza territoriale del g.i.p. del tribunale del capoluogo del distretto, dal momento che avrebbe trovato applicazione un principio ricavabile dal sistema in base al quale il giudice per le indagini preliminari è sempre quello presso il quale si trova il pubblico ministero competente.

A tale provvedimento si opponeva il g.i.p. del Tribunale di Napoli (tribunale del capoluogo di distretto), sollevando conflitto negativo di competenza innanzi alla Corte di Cassazione. Nel sollevare conflitto, il g.i.p. del Tribunale di Napoli negava l’esistenza di un principio implicito nel sistema per il quale la competenza territoriale del giudice per le indagini preliminari si determina in base alla competenza del p.m., valendo semmai il principio contrario. In assenza di un’esplicita previsione sull’intervento del giudice nel procedimento, al g.i.p. del Tribunale di Napoli appariva inammissibile ricavare tali conseguenze dalla disciplina delle competenze d’indagine del pubblico ministero distrettuale. A conclusioni diverse osta il principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge ex art. 25, co. 1, Cost (“nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”), la cui portata è tale da impedire l’applicazione in tema di competenza del criterio analogico di cui all’art. 12 delle Preleggi.

Ulteriore conferma dell’esclusione della competenza del g.i.p. distrettuale era poi vista nella circostanza che, ogniqualvolta si era proceduto a novellare l’art. 51 c.p.p. al fine di distrettualizzare le funzioni del pubblico ministero – prima in materia di reati mafiosi[8], poi per quelli di matrice terroristica[9] – il legislatore contestualmente aveva sempre operato una modifica dell’art. 328 c.p.p. al fine di ricomprendere nelle competenze del g.i.p. distrettuale la competenza sugli stessi reati.

3. Chiamata a dirimere il conflitto, la Corte di Cassazione ha accolto senza riserve l’impostazione seguita dal g.i.p. del Tribunale di Napoli, ritenendo applicabili per determinare la competenza del g.i.p. gli ordinari criteri di ripartizione della competenza territoriale, pur a seguito dell’ampliamento delle attribuzioni del pubblico ministero distrettuale.

Del resto, sarebbe stato alquanto peregrino aspettarsi dalla Cassazione una ricostruzione diversa da quella prospettata, essendo fuor di dubbio che il Codice di procedura penale del 1988 abbia adottato il principio generale secondo cui il pubblico ministero trae la titolarità delle proprie funzioni dalla competenza del giudice del dibattimento presso il quale è istituito (art. 51, co. 3, c.p.p.), facendo così diventare le regole sulla competenza giurisdizionale regole sulle attribuzioni del pubblico ministero[10].

Ordinariamente, infatti, le attribuzioni del p.m. sono derivate e serventi rispetto alla disciplina della competenza del giudice, nel senso che esse si modellano e si delimitano in esatta corrispondenza alle regole di ripartizione della competenza tra giudici di cui agli artt. 4 ss. c.p.p.[11]

Ne consegue che, in mancanza di apposita previsione legislativa, il g.i.p. non può ricavare dalle norme sulla competenza del pubblico ministero un fondamento per legittimare una competenza non espressamente attribuitagli dal legislatore: ove il g.i.p. del tribunale capoluogo avesse emanato un provvedimento fuori dalle tassative ipotesi di competenza distrettuale disegnate dall’art. 328, co. 1-bis, c.p.p., sostituendosi al g.i.p. del tribunale territorialmente competente in relazione al luogo di commissione del reato, tale provvedimento inevitabilmente sarebbe risultato viziato per incompetenza territoriale[12].

Tuttavia, per quanto scontata possa apparire l’interpretazione sostenuta dall’organo di nomofilachia, la decisione sarebbe stata tutt’altro che insignificante sul piano delle ricadute applicative qualora le previsioni in tema di competenza territoriale dettate dall’originaria formulazione della l. 48/2008 – vigenti al momento in cui è sorto il conflitto che ha originato la pronuncia della Cassazione – avessero continuato a dispiegare i propri effetti, anziché essere oggetto di una repentina quanto inusuale novella dopo pochi mesi di applicazione.

4. Nelle intenzioni del legislatore, la scelta di concentrare a livello distrettuale le indagini sui reati informatici – riconosciuti nella loro specificità ed equiparati, sotto questo aspetto, ai reati di associazione mafiosa e di stampo terroristico, ai quali non infrequentemente risultano legati da rilevanti connessioni operative – mira a superare problemi di efficienza nell’attività di contrasto ad un fenomeno criminoso che, oltre ad essere difficilmente circoscrivibile entro limitati orizzonti spaziali, risulta caratterizzato da un elevato grado di specializzazione tecnica.

Benché sulla distrettualizzazione delle indagini non siano mancate voci critiche, volte ad evidenziare come l’intento di concentrazione e coordinamento – in assenza di una struttura simile alla Direzione nazionale antimafia e data la concreta eventualità di eccessivi carichi di lavoro, capaci di incidere negativamente de facto sull’esercizio dell’azione penale[13] – rischi in realtà di provocare disfunzioni nel meccanismo inquirente, dal punto di vista della politica del diritto non è infondato sostenere che una simile opzione possa contribuire ad accrescere il livello di specializzazione dei magistrati che indagano sui computer crimes e ad evitare gli inconvenienti derivanti dalla parcellizzazione dell’azione investigativa su reati che presentano elevati profili di complessità.

Fatta questa precisazione sulle divergenti valutazioni espresse dalla dottrina in merito al novellato art. 51 c.p.p., un aspetto della recente disciplina sul quale è invece pressoché unanime il riconoscimento di aspetti di assoluta criticità – e che ha originato il conflitto di competenza su cui la Cassazione è intervenuta con la sentenza in questione – riguarda la mancata previsione, nell’originaria formulazione della legge 18 marzo 2008, n. 48, di un esplicito ampliamento della portata dell’art. 328 c.p.p, tale da spostare a livello distrettuale, per gli stessi reati, la competenza del g.i.p. e del g.u.p.

Con ogni evidenza, l’omessa integrazione dell’art. 328, contestuale e parallela a quella dell’art. 51 c.p.p, veniva a creare una frattura nella ordinaria simmetria tra regole di competenza territoriale del giudice e criteri di attribuzione delle funzioni di pubblico ministero[14]. La mancanza di un accentramento a livello distrettuale anche della competenza del g.i.p. e del g.u.p. (come invece avviene per i reati di criminalità organizzata e di terrorismo internazionale), imponendo il transito del procedimento sui computer crimes dall’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto ai giudici territoriali, contraddiceva chiaramente la stessa ratio della novella contenuta nella l. 48/2008, dal momento che si attribuiva a giudici senza alcuna esperienza in materia di criminalità informatica il compito di valutare l’operato di un pubblico ministero che la riforma avrebbe invece voluto munito di una specifica specializzazione.

Del resto, il fatto che tutte le volte in cui il legislatore ha esteso la competenza del pubblico ministero distrettuale si è proceduto alla simultanea devoluzione di competenza al g.i.p. del capoluogo del distretto risponde ad una specifica esigenza: per i reati di associazione mafiosa e di terrorismo internazionale si è voluto creare un giudice per le indagini preliminari “distrettuale”, quale referente del Procuratore distrettuale, al precipuo scopo di evitare che il p.m. distrettuale, cui compete la cognizione unitaria della vicenda mafiosa o terroristica, sia poi costretto a frazionare il procedimento in relazione alle competenze del g.i.p. circondariale, ogni qualvolta siano richieste decisioni spettanti a tale giudice[15]. In altre parole, l’evenienza da ultimo prospettata non sarebbe stata in linea con la filosofia che è stata all’origine del diverso sistema organizzativo e avrebbe determinato costi certamente superiori rispetto ai vantaggi derivanti dall’introduzione di un simile impianto.

Una tale rottura della simmetria fra competenza del pubblico ministero distrettuale ed ordinaria competenza territoriale del g.i.p., oltre a portare a conseguenze assurde sul piano logico e su quello dell’effettivo contrasto del fenomeno criminale in questione, qualora il quadro normativo introdotto dalla legge n. 48, cit., fosse rimasto inalterato avrebbe potuto comportare, inoltre, rilevanti inconvenienti anche sul piano più strettamente procedimentale, determinando un considerevole ampliamento delle ipotesi di conflitto fra uffici giudiziari. Infatti, non è difficile immaginare che, operante un simile riparto delle competenze, l’eventualità di un provvedimento giurisdizionale nel quale fosse dichiarata, a misure cautelari in atto, l’incompetenza del g.i.p. sarebbe stata tutt’altro che trascurabile, con conseguenze pregiudizievoli facilmente intuibili[16].

5. Un simile scenario è stato fortunatamente evitato dall’opportuno intervento riparatore del legislatore ordinario, volto a rimuovere la macroscopica svista realizzata in occasione dell’emanazione della legge di ratifica della Convenzione del 2001.

Nel convertire con modificazioni il d.l. 23 maggio 2008, n. 92 recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, la legge 24 luglio 2008, n. 125, all’art. 2, co. 1, lett. a), ha colmato la precedente lacuna normativa, aggiungendo all’art. 328 c.p.p. il comma 1-quater, a norma del quale “quando si tratta di procedimenti per i delitti indicati nell’art. 51, comma 3-quinquies, le funzioni di giudice per le indagini preliminari e le funzioni di giudice per l’udienza preliminare sono esercitate, salve specifiche disposizioni di legge, da un magistrato del tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente”. Il quadro che ne risulta, pertanto, appare finalmente dotato di una coerenza interna e conforme al citato assetto organizzativo in materia di reati di stampo mafioso e terroristico.

Del resto, una svista di tale tenore appare in gran parte addebitabile all’iter legislativo alquanto tormentato della l. 48/2008, approvata sul finire della scorsa legislatura, dopo il decreto di scioglimento anticipato delle Camere, in tempi eccezionalmente rapidi[17]. Come emerge dall’esame dei lavori parlamentari, alla presentazione del disegno di legge governativo nel giugno 2007 – che recuperava, con evidenti approssimazioni, una parte dei risultati cui era giunta la precedente commissione interministeriale incaricata di redigerlo – avevano fatto seguito due sole sedute preliminari delle Commissioni Giustizia ed Affari esteri della Camera, tenutesi nell’autunno dello stesso anno, prima che fosse concluso in un solo giorno l’esame in sede referente e che il testo fosse trasmesso, con un unico emendamento, per la repentina approvazione di entrambe le Camere.

Ad un iter legislativo tanto accelerato sono imputabili le incongruenze e le criticità della disciplina in esame, delle quali anche il legislatore storico è apparso consapevole, pur preferendo comunque procedere senza ulteriori rinvii all’adeguamento della normativa italiana a quella internazionale. Resta il fatto, tuttavia, che una materia talmente delicata e complessa come quella introdotta, avrebbe meritato un intervento legislativo più organico e meditato, tanto più se si considera che a non tutti i difetti di qualità tecnica e sistematica della normativa emanata potrà porre integrale rimedio la magistratura in sede interpretativa e applicativa.

6. A fronte degli inconvenienti ricollegabili all’originario assetto legislativo, in questa sede si ritiene – a rischio di cadere in congetture tutt’altro che apodittiche – che con molta probabilità la Cassazione, pur prefigurandosi siffatti scenari, in assenza dell’opportuna correzione legislativa non avrebbe optato per una diversa ricostruzione dell’impianto normativo prodotto dalla legge n. 48, cit. in tema di competenza territoriale.

E’ innegabile che la ripartizione delle competenze territoriali realizzata dalla l. 48/2008 contrastasse manifestamente con il canone di ragionevolezza per come elaborato nel corso degli anni dalla giurisprudenza costituzionale, non sussistendo alcuna giustificazione logico-razionale che potesse motivare un simile impianto. Sebbene sia indubitabile che la scelta di distrattualizzare le indagini rientri nell’ambito della discrezionalità legislativa, a cui solo competono insindacabili opzioni di politica investigativa, la mancanza di un’espressa volontà legislativa volta a perpetrare, a livello distrettuale, il parallelismo fra competenza del pubblico ministero e competenza del g.i.p./g.u.p., si esponeva a molteplici profili di incostituzionalità.

In particolare, l’originaria ripartizione della competenza territoriale in materia di computer crimes: rischiava di rendere meno efficiente l’amministrazione della giustizia, così ledendo il principio generale del buon andamento degli uffici giudiziari ex art. 97 e rendendo più difficoltoso l’esercizio dell’azione penale, obbligatorio a norma dell’art. 112 Cost.; risultava idoneo ad incidere negativamente sui tempi del processo, di cui va assicurata, ex art. 111, co. 2, la ragionevole durata; creava una situazione di incertezza sulla competenza territoriale erosiva della garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, co. 1)[18], e conseguentemente dei valori fondamentali della difesa (art. 24, co. 2), che sarebbero stati lesi da un’eventuale declaratoria di incompetenza in negativo, senza cioè indicazione del giudice competente, dal momento che da una siffatta pronuncia sarebbe derivata l’assoluta impossibilità per l’indagato di difendersi attivamente.

Tutto ciò permette di sostenere, senza tema di smentita, che l’originario riparto della competenza territoriale in tema di reati informatici avrebbe costituito un irragionevole sacrificio di valori costituzionali, non bilanciato – e quindi non giustificato – da esigenze di tutela di beni di rango superiore o almeno equivalente a quelli citati.

A siffatti profili di incostituzionalità non avrebbe potuto porre rimedio neanche un’interpretazione adeguatrice costituzionalmente conforme, volta a riconoscere, pur nel mancato coordinamento legislativo, la competenza distrettuale del g.i.p. Sebbene sia noto il favor della Corte costituzionale verso soluzioni ermeneutiche che escludano la proposizione della questione di legittimità costituzionale tutte le volte in cui esista la possibilità anche di una sola interpretazione conforme al dettato costituzionale, risulta quanto mai peregrino immaginare che la Suprema Corte di Cassazione sarebbe giunta ad un simile soluzione interpretativa, quanto mai forzata e problematica in presenza di un’altra norma costituzionale, l’art. 25, co. 1, Cost., che vieta tassativamente deroghe alla competenza del giudice naturale se non per mezzo di legge anteriore al fatto commesso.

7. Ritornando alle pronuncia della Cassazione di cui si è dato conto, la Suprema Corte ha risolto il conflitto di competenza tra il g.i.p. territoriale e quello distrettuale in favore di quest’ultimo, sulla base però dell’intervenuta novella legislativa realizzata dalla l. 125 del 2008, che, come è ovvio, non poteva essere ininfluente ai fini della decisione in questione.

Osserva la Corte: pur avendo l’art. 2, co. 1, lett. a), la legge n. 125, cit., introdotto per i reati informatici la competenza del g.i.p. distrettuale, la stessa legge, all’art. 12-bis, ha dettato una specifica disciplina transitoria, aggiungendo, all’art. 11 della l. n. 48 del 2008, un nuovo comma 1-bis, a norma del quale “le disposizioni di cui al comma 3-quinquies dell’art. 51 del c.p.p., introdotto dal comma 1 del presente articolo, si applicano solo ai procedimenti iscritti nel registro di cui all’art. 335 del c.p.p. successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”.

Considerato che il procedimento de quo risultava iscritto prima del 5 aprile 2008, data di entrata in vigore della l. n. 48 del 2008, dovevano trovare applicazione gli ordinari criteri di competenza, e risultava, pertanto, radicata, in ragione del locus commissi delicti, la competenza del g.i.p. territoriale.



[1] Per un esame dei principali contenuti della Convenzione di Budapest cfr., ex plurimis, SARZANA DI S. IPPOLITO C., La Convenzione europea sulla cibercriminalità, in Dir. Pen. e Processo, 2002, 4, p. 509 ss.; SACCUCCI A., Primo strumento internazionale contro la criminalità informatica, in Dir. Pen. e Processo, 2002, 1, p. 122 ss.

[2] LUPARIA L., La ratifica della Convenzione cybercrime del Consiglio d’Europa, in Dir. Pen. e Processo, 2008, 6, p. 696 s.

[3] LUPARIA L., La ratifica, cit., p. 696 ss. Analoga esigenza è stata avvertita nell’ordinamento tedesco, in particolare per sollecitazione del Tribunale costituzionale: così GUERNELLI M., I “computer crimes” nell’attuale sistema penale tedesco: aspetti sostanziali e processuali, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2007, spec. p. 650.

[4] Del resto, la stessa Convenzione di Budapest, all’art. 14, esplicitamente imponeva agli Stati di applicare i poteri e le procedure previste: a) ai reati informatici; b) a tutti gli altri reati commessi attraverso un sistema informatico; c) all’insieme delle prove elettroniche di un reato.

[5] Per un’approfondita analisi del fenomeno, cfr., ad es., LUPARIA L. – ZICCARDI G., Investigazione penale e tecnologia informatica. L’accertamento del reato tra progresso scientifico e garanzie fondamentali, Milano, 2007.

[6] Per una definizione dei diversi computer crimes, cfr. PECORELLA C., Il diritto penale dell’informatica, Padova, 2006; PICA G., Reati informatici e telematici, in Dig. disc. pen., I agg., Torino, 2000, p. 521; PICOTTI L., Sistematica dei reati informatici, tecniche di formulazione legislativa e beni giuridici tutelati, in Il diritto penale dell’informatica nell’epoca di internet, Padova, 2004, p. 26; Id., Reati informatici, in Enc. Giur. Treccani, vol. VIII, agg., Roma, 1999.

[7] Sulla portata della deroga alle ordinarie regole sulla competenza per territorio operata dall’art. 51, co. 3-bis, cfr. Cass. pen. Sez. V, 25 maggio 1993, 1940.

[8] D.l. 20 novembre 1991, n. 367, convertito in legge, con modificazioni, dalla l. 20 gennaio 1992, n. 8.

[9] D.l. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito in legge, con modificazioni, dalla l. 15 dicembre 2001, n. 438.

[10] BACCARI G. M., Il mancato rispetto della competenza territoriale durante le indagini preliminari: quali i possibili rimedi, in Dir. Pen. e Processo, 1997, 2, p. 196; LUPACCHINI O., La “competenza” del pubblico ministero, in Dir. Pen. e Processo, 1997, 5, p. 623.

[11] LOCATELLI G., Le attribuzioni processuali della Direzione distrettuale antimafia, in Dir. Pen. e Processo, 1998, 3, p. 362ss.

[12] LOCATELLI G., op. cit., p. 362 ss.

[13] Così, ad es., LUPARIA L., La ratifica, cit., p. 696 ss. L’Autore riprende al riguardo osservazioni espresse da CHIAVARIO M., Ancora sull’azione penale obbligatoria: il principio e la realtà, in Id., L’azione penale tra diritto e politica, Padova, 1995, p. 91 s.

[14] Cfr. TONINI P., Il coordinamento tra gli uffici del pubblico ministero, in Giust. pen., 1992, p. 406.

[15] VITELLO S. F., Procedure distrettuali antimafia e procedimenti connessi, in Dir. Pen. e Processo, 1995, 9, p. 1090 s.

[16] A tal proposito è bene ricordare, tra l’altro, che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (12 dicembre 1994, De Lorenzo) ha statuito la rilevabilità, in sede di impugnazione davanti al tribunale del riesame del vizio afferente l’incompetenza territoriale del giudice che ha disposto l’applicazione di una misura cautelare.

[17] Sull’iter che ha portato all’emanazione della l. 48/2008 cfr. SARZANA DI S. IPPOLITO C., Sicurezza informatica e lotta alla cybercriminalità: confusione di competenze e sovrapposizione di iniziative amministrative e legislative, in Dir. Internet, 2005, n. 5, p. 437 s., spec. p 441-444; PICOTTI L., La ratifica della Convenzione cybercrime del Consiglio d’Europa, in Dir. Pen. e Processo, 2008, 6, p. 696.

[18] Come chiarito dalla Corte costituzionale, sin dalla sent. 22 giugno 1963, n. 110, si tratta di una tutela operante in ogni stato e grado del procedimento. Concorda con tale ricostruzione la dottrina dominante: cfr., ex plurimis, NOBILI M., Commento all’art. 25 comma 1 Cost. Rapporti civili, in Commentario della Costituzione a cura di Scialoya e Branca, Bologna-Roma, 1981, p. 177.