Corte Costituzionale: bocciato l’indennizzo nell’esproprio - non è congruo

Franco BILE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, promossi con ordinanze del 29 maggio e del 19 ottobre 2006 (nn. 2 ordd.) dalla Corte di cassazione, rispettivamente iscritte ai nn. 402 e 681 del registro ordinanze 2006 ed al n. 2 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2006 e nn. 6 e 7, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visti gli atti di costituzione di R.A., di A.C., di M.T.G., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 3 luglio 2007 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

uditi gli avvocati Felice Cacace e Francesco Manzo per R.A., Nicolò Paoletti per A.C., Nicolò Paoletti e Alessandra Mari per M.T.G. e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. − Con ordinanza depositata il 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006), la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, per violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 6 CEDU ed all’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, cui è stata data esecuzione con la medesima legge n. 848 del 1955.

La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l’applicazione ai giudizi in corso alla data dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.

1.1. − La Corte rimettente riferisce che nel giudizio principale la parte privata R.A., già proprietaria di suoli espropriati per l’attuazione di un programma di edilizia economica e popolare nel Comune di Torre Annunziata, e firmataria di un atto di cessione volontaria in data 2 aprile 1982, ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli del 6 dicembre 2001 per censurare la liquidazione dell’indennità ivi effettuata, in quanto non adeguata al valore dei beni, anche con riferimento alla mancata rivalutazione della somma liquidata.

Nel giudizio di legittimità si sono costituiti il Comune di Torre Annunziata, il quale ha proposto ricorso incidentale, e l’Istituto autonomo case popolari della Provincia di Napoli.

Con memoria illustrativa la ricorrente R.A. ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, norma applicata ai fini della quantificazione dell’indennità, per contrasto con gli artt. 42, terzo comma, 24 e 102 Cost., in quanto il criterio ivi previsto non garantirebbe un serio ristoro ai proprietari dei suoli espropriati e la sua applicazione ai giudizi in corso costituirebbe una «indebita ingerenza del potere legislativo sull’esito del processo». A questo proposito si ricorda come la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia costantemente rilevato il contrasto del menzionato art. 5-bis con l’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione europea.

La censura della parte ricorrente è estesa all’art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), in quanto si tratta della disposizione, oggi vigente, che ha perpetuato il criterio di calcolo censurato.

1.2. − Il rimettente esclude la rilevanza della questione avente ad oggetto la norma citata da ultimo, in quanto applicabile solo ai procedimenti espropriativi iniziati a partire dal 1° luglio 2003, secondo la previsione contenuta nell’art. 57 del medesimo d.P.R. n. 327 del 2001. Nel caso di specie, invece, il giudizio è iniziato nel 1988.

Al contempo, la Corte di cassazione ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992.

1.3 – In merito alla rilevanza della questione sollevata, il rimettente sottolinea come nella specie si tratti «indiscutibilmente» di suoli edificabili, ai quali è applicabile il citato art. 5-bis, commi 1 e 2. In particolare, si evidenzia come l’oggetto del contendere sia costituito dal «prezzo della cessione volontaria», rectius, «dal conguaglio dovuto rispetto a quanto a suo tempo convenuto, in applicazione della legge n. 385 del 1980». Il giudice a quo ricorda, in proposito, che il prezzo della cessione volontaria deve essere commisurato alla misura dell’indennità di espropriazione; da ciò consegue che nel giudizio principale è ancora in contestazione la determinazione dell’indennizzo espropriativo e che l’eventuale ius superveniens, costituito da un nuovo criterio di determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, troverebbe senz’altro applicazione.

1.4. − Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione ritiene di dover riformulare i termini della questione prospettata dalla parte privata ricorrente, individuando i parametri costituzionali di riferimento negli artt. 111 e 117 Cost. Il ragionamento è condotto alla luce dell’esame parallelo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e di quella costituzionale in materia di indennizzo espropriativo.

In relazione alla prima, sono richiamate in particolare le sentenze del 29 luglio 2004 e del 29 marzo 2006, entrambe emesse nella causa Scordino contro Italia, con le quali lo Stato italiano è stato condannato per violazione delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella pronunzia del 2004, la Corte europea ha censurato l’applicazione, operata dai giudici nazionali, dell’art. 5-bis ai giudizi in corso, stigmatizzando la portata retroattiva della norma in parola, come tale lesiva della certezza e della trasparenza nella sistemazione normativa degli istituti ablatori, oltre che del diritto della persona al rispetto dei propri beni. Infatti, l’applicazione di tale criterio ai giudizi in corso ha violato l’affidamento dei soggetti espropriati, i quali avevano agito in giudizio per essere indennizzati secondo il criterio del valore venale dei beni, previsto dall’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per pubblica utilità), ripristinato a seguito della dichiarazione di incostituzionalità delle norme che commisuravano in generale l’indennizzo al valore agricolo dei terreni (sentenze n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983).

Con la sentenza del 2006, invece, la Corte di Strasburgo ha rilevato la strutturale e sistematica violazione, da parte del legislatore italiano, dell’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione europea, osservando che la quantificazione dell’indennità in modo irragionevole rispetto al valore del bene ha determinato, appunto, una situazione strutturale di violazione dei diritti dell’uomo. Nell’occasione la Corte di Strasburgo ha sottolineato come, ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, lo Stato italiano abbia il dovere di porre fine a siffatti problemi strutturali attraverso l’adozione di appropriate misure legali, amministrative e finanziarie.

Sul fronte interno, il giudice rimettente evidenzia come la norma oggetto di censura sia stata più volte scrutinata dalla Corte costituzionale, che l’ha ritenuta conforme all’art. 42, terzo comma, Cost., perché introduttiva di un criterio mediato che assicura un ristoro «non irrisorio» ai soggetti espropriati, nel rispetto della funzione sociale della proprietà (sentenze n. 283, n. 414 e n. 442 del 1993). Anche sotto il profilo dell’applicazione ai giudizi in corso, la Corte costituzionale ha respinto le censure affermando, in particolare nella sentenza n. 283 del 1993, che l’irretroattività delle leggi, pur costituendo un principio generale dell’ordinamento, non è elevato − fuori dalla materia penale − al rango di norma costituzionale. Nel caso di specie, attesa la situazione di carenza normativa che caratterizzava al tempo la materia (dopo gli interventi caducatori della stessa Corte, con le sentenze n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983) e la conseguente applicazione in via suppletiva del criterio del valore venale, la retroattività dell’intervento legislativo non poteva dirsi confliggente con il canone della ragionevolezza.

In esito alla disamina risulterebbe evidente, a parere del giudice a quo, che la questione debba essere posta oggi in riferimento ai diversi parametri individuati negli artt. 111 e 117 Cost., secondo una prospettiva inedita che è quella del sopravvenuto contrasto della norma censurata con i principi del giusto processo e del rispetto degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, attraverso il richiamo delle norme convenzionali contenute nell’art. 6 CEDU e nell’art. 1 del primo Protocollo, in funzione di parametri interposti.

1.5. − La Corte di cassazione svolge poi una serie di considerazioni per giustificare il ricorso all’incidente di costituzionalità, sottolineando come spetti al legislatore la predisposizione dei mezzi necessari per evitare la violazione strutturale e sistematica dei diritti dell’uomo, denunciata dalla Corte europea nella sentenza Scordino del 29 marzo 2006, richiamata poco sopra.

In particolare, la stessa Corte rimettente esclude che il giudice nazionale possa disapplicare l’art. 5-bis, sostituendolo con un criterio frutto del proprio apprezzamento o facendo rivivere la disciplina previgente.

L’impossibilità di disapplicare la norma interna in contrasto con quella della Convenzione deriverebbe, a dire della Corte, anche da altre considerazioni. In primo luogo, va escluso che, in riferimento alle norme CEDU, sia ravvisabile un meccanismo idoneo a stabilire la sottordinazione della fonte del diritto nazionale rispetto a quella internazionale, assimilabile alle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost., derivanti dalle fonti normative dell’ordinamento comunitario. Non sembra infatti sostenibile la tesi dell’avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, ai sensi del par. 2 dell’art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, in quanto il rispetto dei diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione, costituisce una direttiva per le istituzioni comunitarie e «non una norma comunitaria rivolta agli Stati membri». A conferma di tale ricostruzione, il rimettente richiama il parere negativo espresso dalla Corte di giustizia allorché fu prospettata l’adesione della Comunità europea alla CEDU (parere 28 marzo 1996, n. 2/94). Il parere era fondato sul rilievo che l’adesione avrebbe comportato l’inserimento della Comunità in un sistema istituzionale distinto, nonché l’integrazione del complesso delle disposizioni della CEDU nell’ordinamento comunitario. Nella stessa direzione, la Corte del Lussemburgo ha dichiarato la propria incompetenza a fornire elementi interpretativi per la valutazione da parte del giudice nazionale della conformità della normativa interna ai diritti fondamentali, quali risultano dalla CEDU, e ciò «in quanto tale normativa riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario» (Corte giustizia, 29 maggio 1998, causa C-299/95).

Il giudice a quo richiama altresì il principio della soggezione dei giudici alla legge, sancito dall’art. 101 Cost., che impedirebbe di ritenere ammissibile un potere (a fortiori, un obbligo) di disapplicazione della normativa interna, atteso che ciò significherebbe attribuire al potere giudiziario una funzione di revisione legislativa del tutto estranea al nostro sistema costituzionale, nel quale l’abrogazione della legge statale rimane «legata alle ipotesi contemplate dagli artt. 15 disp. prel. cod. civ. e 136 Cost.», mentre il mancato rispetto della regola di conformazione si traduce nel vizio di violazione di legge, denunziabile dinanzi alla Corte di cassazione (è richiamata Cass., 26 gennaio 2004, n. 1340), anche se non mancano opinioni che attenuano ulteriormente l’efficacia vincolante delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cass., 26 aprile 2005, n. 8600, e 15 settembre 2005, n. 18249).

A tutto concedere, secondo la Corte rimettente, un vincolo all’interpretazione del giudice nazionale sarebbe ravvisabile ove la norma interna costituisca, come nella disciplina dell’equa riparazione per irragionevole durata del processo, la riproduzione di norme convenzionali, per le quali i precedenti della Corte di Strasburgo costituiscono riferimento obbligato, ovvero quando la norma convenzionale sia immediatamente precettiva, e comunque di chiara interpretazione, e non emerga un conflitto interpretativo tra il giudice nazionale e quello europeo (è richiamata Cass., 19 luglio 2002, n. 10542). Diversamente, in caso di disapplicazione dell’art. 5-bis, si porrebbe il problema della sostituzione del criterio ivi indicato con quello previsto dalla normativa previgente, ovvero con un criterio rimesso all’apprezzamento del giudice.

Al riguardo, il giudice a quo esprime perplessità circa l’incidenza, in ipotesi di disapplicazione dell’art. 5-bis, della norma suppletiva costituita dall’art. 39 della legge n. 2359 del 1865, che fa riferimento al valore venale dei beni e che è richiamata dalla sentenza 29 luglio 2004 della Corte di Strasburgo come criterio sul quale poggiava l’affidamento delle parti ricorrenti al momento dell’instaurazione del giudizio. Detta norma, infatti, non costituisce «regola tendenziale dell’ordinamento», in quanto non essenziale per la funzione sociale riconosciuta alla proprietà dalla Carta fondamentale, secondo l’affermazione costante della giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 61 del 1957, n. 231 del 1984, n. 173 del 1991, n. 138 del 1993 e n. 283 del 1993), mentre l’art. 5-bis, come già evidenziato, è stato ritenuto conforme a Costituzione anche sotto il profilo della efficacia retroattiva. In definitiva, in caso di disapplicazione della norma censurata, il giudice sarebbe chiamato ad individuare un criterio di determinazione dell’indennizzo che, pur non essendo coincidente con il valore di mercato dei beni ablati, attesa la funzionalizzazione del diritto dominicale alla pubblica utilità, sia comunque idoneo ad assicurare un quid pluris rispetto al criterio contenuto nell’art. 5-bis, così compiendo un’operazione «palesemente ammantata da margini di discrezionalità che competono solo al legislatore», anche per la necessità di reperire i mezzi finanziari per farvi fronte.

Il rimettente evidenzia come la stessa giurisprudenza CEDU non sia univoca con riferimento alla identificazione del valore venale dei beni quale unico criterio indennitario ammissibile alla luce dell’art. 1 del primo Protocollo. Infatti, mentre nella citata pronuncia del 29 marzo 2006 la Corte europea ha affermato che solo un indennizzo pari al valore del bene può essere ragionevolmente rapportato al sacrificio imposto, fatti salvi i casi riconducibili a situazioni eccezionali di mutamento del sistema costituzionale (è richiamata la sentenza 28 novembre 2002, ex re di Grecia e altro contro Grecia), la stessa Corte «di solito ha ammesso che il giusto equilibrio tra le esigenze di carattere generale e gli imperativi di salvaguardia dei diritti dell’individuo non comporta che l’indennizzo debba corrispondere al valore di mercato del bene espropriato» (sono richiamate le pronunce rese in causa James e altri contro Regno Unito, del 21 febbraio 1986; Les saint monasteres contro Grecia, del 9 dicembre 1994; la già citata sentenza Scordino del 29 luglio 2004).

Quanto rilevato con riferimento all’art. 11 Cost., per negare la «comunitarizzazione» della CEDU e, quindi, la praticabilità della disapplicazione della norma interna, varrebbe altresì ad escludere l’utilizzo del predetto parametro ai fini dello scrutinio.

Secondo il rimettente, il recupero del dictum della Corte europea non potrebbe avvenire neppure attraverso il richiamo all’obbligo di conformazione del diritto interno alle norme internazionali che, ai sensi dell’art. 10 Cost., impegna l’intero ordinamento; infatti, per un verso il parametro citato non ha per oggetto il diritto pattizio e, per altro verso, la commisurazione dell’indennizzo espropriativo al valore di mercato del bene non costituisce principio generalmente riconosciuto dagli Stati.

L’intervento giudiziale, infine, secondo la Corte rimettente, non potrebbe trovare giustificazione nella finalità di supplire all’inerzia del legislatore, giacché quest’ultimo ha di recente reiterato il regime indennitario introdotto con l’art. 5-bis, avendolo trasfuso nell’attuale art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001. A questo proposito, il giudice a quo rammenta come, già nel 1993, la Corte costituzionale (con la sentenza n. 283) avesse invitato il legislatore ad elaborare una legge atta ad assicurare un serio ristoro, ritenendo l’art. 5-bis compatibile con la Costituzione in ragione del suo carattere urgente e provvisorio, desumibile anche dall’incipit della disposizione che recita: «fino all’emanazione di un’organica disciplina per tutte le espropriazioni».

Dunque, l’«inadeguatezza in abstracto» del criterio indennitario contenuto nell’art. 5-bis a compensare la perdita della proprietà dei suoli edificabili per motivi di interesse pubblico, definitivamente sancita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, unitamente alla acquisita definitività della disciplina, riproposta dal legislatore nel 2001, all’art. 37 del d.P.R. n. 327, renderebbe necessario un nuovo scrutinio di costituzionalità.

Le argomentazioni che dimostrano l’impercorribilità della strada della disapplicazione da parte del giudice nazionale varrebbero, al tempo stesso, ad escludere che il contrasto possa essere composto in via interpretativa.

1.6. – Su questa premessa, il giudice a quo passa ad illustrare i motivi di contrasto della norma impugnata rispetto ai parametri costituzionali evocati. In particolare, richiamate ancora le pronunce della Corte costituzionale sul menzionato art. 5-bis, precisa che, per un verso, quest’ultimo non è stato scrutinato rispetto al parametro di cui all’art. 111 Cost., nel testo modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 della Costituzione), e che, per altro verso, i contenuti della disposizione costituzionale in esame, avuto riguardo agli aspetti programmatici (primo e secondo comma), sarebbero in gran parte ancora da esplorare, così come sarebbe da chiarire il rapporto «di discendenza della nuova formulazione della norma costituzionale dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo».

Seppure, come è noto, l’originario intento di “costituzionalizzare” l’art. 6 della Convenzione abbia subito modifiche nel corso dei lavori parlamentari, non di meno, a parere della Corte rimettente, andrebbe avallata la tesi secondo cui la ricostruzione dei nuovi precetti costituzionali debba essere condotta proprio alla luce della giurisprudenza della Corte europea. Pertanto, nel ricercare il significato precettivo del riformulato art. 111 Cost. si potrebbe utilmente fare ricorso all’interpretazione resa dalla Corte di Strasburgo dell’analoga disposizione contenuta nell’art. 6 della Convenzione. A questo proposito, le pronunce rese nella causa Scordino contro Italia, in materia di indennizzo espropriativo, hanno affermato che il principio della parità delle parti dinanzi al giudice implica l’impossibilità per il potere legislativo di intromettersi nell’amministrazione della giustizia, allo scopo di influire sulla risoluzione della singola causa o di una circoscritta e determinata categoria di controversie.

Il giudice a quo evidenzia come la vicenda giudiziaria che ha dato luogo alle citate sentenze della Corte europea e quella che ha originato la presente questione di legittimità costituzionale risultino del tutto assimilabili: in entrambi i casi, infatti, i soggetti espropriati hanno agito in giudizio sul presupposto che, espunti dall’ordinamento (per effetto delle pronunce della Corte costituzionale n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983) i penalizzanti criteri di quantificazione dell’indennizzo previsti dalla legge 29 luglio 1980, n. 385 (Norme provvisorie sulla indennità di espropriazione di aree edificabili nonché modificazioni di termini previsti dalle leggi 28 gennaio 1977, n. 10, 5 agosto 1978, n. 457, e 15 febbraio 1980, n. 25), si fosse determinata la reviviscenza del criterio del valore venale, con la conseguente nullità dell’atto di cessione volontaria per indeterminatezza dell’oggetto e con l’insorgenza del diritto all’indennità commisurata al predetto valore.

Il giudice di merito, invece, dovendo stabilire il «prezzo della cessione» da commisurare all’indennità di esproprio, ha dovuto fare applicazione del sopravvenuto art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, ed ha di conseguenza condannato il Comune espropriante al pagamento della differenza, a titolo di conguaglio della somma in precedenza corrisposta.

Il risultato è stato che le proprietarie espropriate, «a giudizio iniziato», si sono viste ridurre del 50 per cento la somma per il conseguimento della quale si erano determinate ad agire.

Per le ragioni suesposte la Corte di cassazione ritiene che la norma censurata sia in contrasto con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., anche alla luce dell’art. 6 CEDU, nella parte in cui, disponendo l’applicabilità ai giudizi in corso delle regole di determinazione dell’indennità di espropriazione in esso contenute, viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice.

1.7. – La Corte rimettente assume che il censurato art. 5-bis si ponga in contrasto anche con l’art. 117, primo comma, Cost., alla luce delle norme della Convenzione europea, come interpretate dalla Corte di Strasburgo.

Infatti la nuova formulazione della norma costituzionale, introdotta dalla legge di riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, avrebbe colmato «una lacuna dell’ordinamento». In tal senso, a detta della rimettente, la sedes materiae non risulterebbe decisiva per «ridimensionare» l’effetto innovativo dell’art. 117, primo comma, Cost., circoscrivendolo al solo riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. Al contrario, nella norma in esame «sembra doversi ravvisare il criterio ispiratore di tutta la funzione legislativa, anche di quella contemplata dal secondo comma, riguardante le competenze esclusive dello Stato, cui è riconducibile la normativa in tema di indennità di espropriazione».

Dunque, secondo il giudice a quo, le norme della Convenzione europea, e specialmente l’art. 6 CEDU e l’art. 1 del primo Protocollo, diverrebbero, «attraverso l’autorevole interpretazione che ne ha reso la Corte di Strasburgo», norme interposte nel presente giudizio di costituzionalità. In particolare, la sopravvenuta incompatibilità dell’art. 5-bis con le norme CEDU e quindi con l’art. 117, primo comma, Cost., riguarderebbe i profili evidenziati dalla Corte europea, ovvero la «contrarietà ai principi del giusto processo» e l’«incongruità della misura indennitaria, nel rispetto che è dovuto al diritto di proprietà».

2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate infondate.

2.1. – La difesa erariale individua il thema decidendum nei seguenti punti: a) «se, in caso di contrasto tra la giurisprudenza europea e la legge nazionale, prevalga la prima, e dunque quale sia il destino della seconda»; b) «se, in caso di risposta affermativa al primo quesito, la soluzione valga anche con riguardo alle norme costituzionali».

Prima di rispondere ai quesiti indicati, a parere dell’Avvocatura generale, occorre stabilire se davvero la giurisprudenza della Corte europea possa, in via interpretativa, imporre agli Stati aderenti di considerare ridotte o espanse le norme convenzionali «in una sorta di diritto di esclusiva che farebbe premio sia sui procedimenti di formazione dei patti internazionali sia sulla diretta interpretazione del giudice nazionale, il quale pur si trova ad applicare le stesse norme [CEDU] in quanto recepite dalla legge nazionale 4 agosto 1955 n. 848».

La difesa erariale contesta che tale potere, per quanto rivendicato dalla Corte europea, sia previsto da norme convenzionali. L’art. 32 del Protocollo n. 11 della Convenzione EDU, reso esecutivo in Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l’11 maggio 1994), circoscrive la competenza della predetta Corte «a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli». Ad avviso dell’Avvocatura generale, si tratterebbe di una norma posta a garanzia dell’indipendenza dei giudici di Strasburgo, che «non può trasformarsi in una fonte di produzione normativa vincolante oltre il processo e, addirittura, limitativa dei poteri istituzionali dei Parlamenti nazionali o della nostra Corte di cassazione o perfino della Corte costituzionale».

La pretesa della Corte di Strasburgo di produrre norme convenzionali vincolanti non sarebbe compatibile con l’ordinamento internazionale generale e ancor più con il sistema della Convenzione di Vienna, cui è stata data esecuzione con la legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il 23 maggio 1969), secondo cui l’interpretazione di qualunque trattato deve essere testuale ed oggettiva.

Pertanto, la difesa dello Stato evidenzia come le questioni odierne abbiano ragione d’essere soltanto se si riconosce alle norme di origine giurisprudenziale della Corte europea il valore di parametro interposto. Diversamente, non vi sarebbe motivo di dubitare che, ai sensi degli artt. 25 e 42 Cost., il legislatore nazionale possa introdurre norme di carattere retroattivo, operanti anche nei processi in corso, e conformare sistemi indennitari che contemperino il diritto dei singoli con le esigenze della collettività, così evitando che gli indennizzi degli espropri coincidano con il prezzo di mercato degli immobili.

2.2. – La difesa dello Stato contesta l’impostazione del ragionamento della Corte rimettente anche con riferimento ai parametri evocati.

Secondo l’Avvocatura generale, l’art. 111 Cost., una volta depurato «da ogni suggestione di prevalenza degli “insegnamenti” CEDU sulla legislazione ordinaria e costituzionale o sulla giurisprudenza della Corte di cassazione e della stessa Corte costituzionale», non stabilisce affatto quello che il giudice a quo crede di leggervi. Il «giusto processo» non riguarda le prerogative del legislatore, in particolare non gli impedisce di intervenire sulla disciplina sostanziale con norme di carattere retroattivo, che il giudice è tenuto ad applicare in ossequio al disposto dell’art. 101 Cost. Del resto, osserva la difesa erariale, neppure l’art. 6 CEDU, che ha ispirato la novella dell’art. 111 Cost., contiene riferimenti al divieto di leggi retroattive in materia extrapenale; tale divieto esiste, quindi, soltanto nella giurisprudenza della Corte europea, la quale, peraltro, secondo gli argomenti già esposti, sarebbe priva di potere creativo di norme convenzionali.

Discorso parzialmente analogo varrebbe per l’art. 117, primo comma, Cost., il quale impone il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, là dove, per l’appunto, le predette norme configurino limitazioni all’esercizio della potestà legislativa.

La difesa erariale richiama in proposito l’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il quale stabilisce che costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni «quelli derivanti […] da accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui all’art. 11 della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali». Nulla di tutto ciò, secondo l’Avvocatura generale, è presente nella CEDU, sia con riferimento alla previsione di leggi retroattive di immediata applicazione ai processi in corso, e per le quali opera quindi la sola disciplina delle fonti di produzione nazionali, sia con riguardo ai diritti del proprietario espropriato. A tale proposito, l’interveniente rileva che l’art. 1 del primo Protocollo, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Strasburgo, si limita ad affermare il principio per cui il sacrificio della proprietà privata è ammissibile solo per cause di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. La norma convenzionale richiamata non imporrebbe in alcun modo, quindi, che l’indennizzo dovuto al proprietario espropriato debba corrispondere al valore venale del bene.

2.3. – In conclusione, la difesa erariale evidenzia come il valore venale del terreno urbano non esista in rerum natura, ma sia direttamente collegato agli strumenti urbanistici e perciò determinato in funzione della utilizzabilità dell’area, con la conseguenza che un sistema indennitario che imponga una drastica riduzione del valore del bene non è così distante dalla realtà degli scambi economici.

3. – Si è costituita in giudizio R.A., ricorrente in via principale nel giudizio a quo, richiamando genericamente tutte le censure, eccezioni e deduzioni svolte nei diversi gradi del procedimento, ed in particolare l’eccezione di illegittimità costituzionale formulata nel giudizio di cassazione, con riserva di depositare successive memorie.

4. – In data 19 giugno 2007 la stessa parte privata ha depositato una memoria illustrativa con la quale insiste affinché la questione sia dichiarata fondata.

4.1. – In particolare, dopo aver riassunto l’intera vicenda giudiziaria dalla quale è originato il giudizio a quo, la difesa della parte rileva che la misura dell’indennizzo espropriativo prevista nella norma censurata, non presentando le caratteristiche del «serio ristoro», sarebbe tutt’ora censurabile sotto il profilo del contrasto con l’art. 42, terzo comma, Cost., nonostante l’esito dei precedenti scrutini (sentenze n. 283 e n. 442 del 1993). Infatti, nelle pronunzie richiamate, la Corte costituzionale aveva fatto salva la norma censurata solo perché caratterizzata da «provvisorietà ed eccezionalità».

4.2. – Con riferimento al profilo afferente l’applicazione della norma censurata ai giudizi in corso, la parte privata ritiene violati gli artt. 24 e 102 Cost. L’avvenuta modifica della norma sostanziale in corso di causa e la conseguente variazione della «dimensione qualitativa e quantitativa» del diritto azionato costituirebbero un’indebita ingerenza del potere legislativo sull’esito del processo, in violazione della riserva contenuta nell’art. 102 Cost. Non si tratterebbe, nel caso di specie, di mera retroattività, ma di vera e propria interferenza nell’esercizio della funzione giudiziaria da parte del legislatore, «allo scopo dichiarato di limitare l’onere (legittimo) a carico della pubblica amministrazione».

Inoltre, la censura prospettata in riferimento all’art. 42, terzo comma, Cost. andrebbe estesa all’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, nel quale è contenuto un criterio di calcolo dell’indennizzo espropriativo che conduce ad una riduzione di circa il 50 per cento rispetto al valore reale del bene. Tale norma, peraltro, non presenta i caratteri di provvisorietà e urgenza che avevano connotato l’art. 5-bis, trattandosi, con ogni evidenza, di disciplina definitiva.

Da ultimo, sul rilievo che gli argomenti svolti dal giudice a quo per escludere la violazione degli ulteriori parametri indicati nell’eccezione di parte non assumono valore preclusivo, la parte auspica che la Corte costituzionale estenda il proprio scrutinio anche a tali parametri.

5. – Con ordinanza depositata il 19 ottobre 2006 (r.o. n. 681 del 2006), la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, per violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ed all’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 1 del primo Protocollo.

La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l’applicazione ai giudizi in corso alla data dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.

5.1. – La Corte rimettente riferisce che nel giudizio principale il Comune di Montello ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia, la quale – dopo aver accertato che l’area di proprietà di A.C., occupata sin dal 21 maggio 1991 ed espropriata in data 8 maggio 1996, doveva considerarsi terreno edificabile da privati – aveva liquidato l’indennità di espropriazione ai sensi dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992.

Il Comune ricorrente lamenta l’erronea qualificazione dell’area espropriata come edificabile, e in subordine, la mancata applicazione della riduzione del 40 per cento, nonché l’insufficiente motivazione a sostegno del computo del valore dei manufatti preesistenti. La parte privata si è costituita ed ha proposto, a sua volta, ricorso incidentale nel quale censura la quantificazione dell’indennità di esproprio, nonché il mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria degli importi liquidati; chiede altresì la disapplicazione dell’art. 5-bis, in quanto contrastante con l’art. 1 del primo Protocollo (che sarebbe stato “comunitarizzato” dall’art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992), ed invoca un mutamento dell’orientamento giurisprudenziale in virtù del quale «l’indennità viene corrisposta come debito pecuniario di valuta, con la conseguenza che nulla compete per la rivalutazione all’espropriato». Con successiva memoria, la ricorrente incidentale ha formulato, subordinatamente al mancato accoglimento della richiesta di disapplicazione, eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, per violazione degli artt. 2, 10, 11, 42, 97, 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 1 del primo Protocollo ed all’art. 6 CEDU.

5.2. – Preliminarmente, la Corte di cassazione richiama le argomentazioni sviluppate riguardo all’analoga questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il menzionato art. 5-bis, sollevata dalla medesima Corte con ordinanza del 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006), riservandosi soltanto di integrarne il contenuto «in rapporto al contrasto della norma interna con le citate norme della Convenzione europea».

Il giudice a quo procede, quindi, all’esame della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, citata anche dalla parte ricorrente a sostegno sia della richiesta di disapplicazione della norme interna, sia dell’eccezione di illegittimità costituzionale. L’esame è condotto a partire dal contenuto della pronuncia resa il 28 luglio 2004, in causa Scordino contro Italia, alla quale è seguita, nella medesima controversia, la pronuncia definitiva resa dalla Grande chambre il 29 marzo 2006, sul ricorso proposto dal Governo italiano.

Tanto premesso, la rimettente evidenzia l’analogia intercorrente tra la fattispecie oggetto del giudizio principale e quella che ha dato luogo alla richiamata pronuncia della Grande chambre: anche nel presente giudizio, infatti, il profilo della utilità pubblica risulterebbe di modesta rilevanza, essendo le aree espropriate destinate alla costruzione di un parcheggio e alla realizzazione di “verde attrezzato”.

5.3. – La Corte di cassazione procede, di seguito, a valutare il profilo riguardante la disapplicazione dell’art. 5-bis, espressamente richiesta dalla ricorrente incidentale, essendo tale delibazione presupposto di ammissibilità della presente questione di legittimità costituzionale.

Il giudice a quo dà atto che la stessa Corte di cassazione, con la già citata ordinanza n. 12810 del 2006 (r.o. n. 402 del 2006) e con l’ordinanza del 20 maggio 2006, n. 11887 (r.o. n. 401 del 2006), che ha rimesso analoga questione per la parte riguardante l’entità del risarcimento danni da occupazione acquisitiva illecita (art. 5-bis, comma 7-bis), ha negato che, in mancanza di una disciplina specifica e precettiva in sede sopranazionale dei criteri di liquidazione, il giudice nazionale possa disapplicare la legge interna.

Tale conclusione è condivisa dall’attuale rimettente, la quale rammenta che la sentenza della Corte europea del 29 marzo 2006, in causa Scordino contro Italia, ha rimesso allo Stato italiano l’adozione delle misure «legislative, amministrative e finanziarie» necessarie all’adeguamento del sistema interno alle norme sopranazionali (par. 237), così implicitamente chiarendo che la propria pronuncia non ha «effetti abrogativi».

Quanto al carattere precettivo delle norme contenute nella Convenzione, il giudice a quo ritiene debbano essere distinti i diritti da essa protetti, «riconosciuti» dagli Stati contraenti come «fondamentali» anche nel diritto interno (art. 1), dai mezzi e dalle modalità di tutela di tali diritti, rimessi ai singoli Stati aderenti. In caso di violazione, anche da parte di soggetti che agiscono nell’esercizio di funzioni pubbliche, l’art. 13 della Convenzione prevede il ricorso alla magistratura interna di ciascuno Stato, salvo l’intervento sussidiario della Corte di Strasburgo sui ricorsi individuali ai sensi dell’art. 34 della stessa Convenzione, e la conseguente condanna dello Stato inadempiente all’equa riparazione di cui all’art. 41. Nello stesso senso deporrebbe la previsione contenuta nell’art. 46 della Convenzione, a mente del quale «le Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti», escludendosi così ogni effetto immediatamente abrogativo di norme interne.

La Corte rimettente evidenzia, inoltre, che la legge 9 gennaio 2006, n. 12 (Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo), ha individuato nel Governo e nel Parlamento gli organi ai quali devono essere trasmesse le sentenze della Corte europea, in quanto unici legittimati a dare esecuzione agli obblighi che da esse discendono. Sottolinea, infine, che il disposto dell’art. 56 della Convenzione ammette la possibilità che l’applicazione della stessa possa non essere uniforme in tutto il territorio degli Stati aderenti, a fronte di «necessità locali», con la conseguenza che nel sistema della Convenzione, pur essendo precettivo il riconoscimento dei diritti garantiti nell’accordo per tutti gli Stati aderenti, le modalità di tutela e di applicazione di quei principi nei territori dei singoli Stati sono rimesse alla legislazione interna di ciascuno.

Risulterebbe chiara, pertanto, l’esclusione del potere di disapplicazione in capo ai singoli giudici; tanto più che nelle fattispecie riguardanti l’indennizzo espropriativo si porrebbe l’esigenza di assicurare copertura finanziaria alla modifica di sistema, conseguente alla scelta di un diverso criterio indennitario, stante la previsione dell’art. 81 Cost.

Il giudice a quo ribadisce, riprendendo le precedenti ordinanze della stessa Corte di cassazione, la ritenuta impossibilità di assimilare le norme della Convenzione EDU ai regolamenti comunitari ai fini di applicazione immediata nell’ordinamento interno (sull’argomento è richiamata Cass. 19 luglio 2002, n. 10542). E’ condiviso anche l’assunto che il richiamo contenuto nell’art. 6, par. 2, del Trattato di Maastricht, al rispetto dei «diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea […] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario», non esclude la diversità tra l’organo giurisdizionale preposto alla tutela di tali diritti (Corte di Strasburgo) e quello cui è invece demandata l’interpretazione delle norme comunitarie, cioè la Corte di giustizia del Lussemburgo, che ha negato la propria competenza in materia di diritti fondamentali (Corte di Giustizia, 29 maggio 1997, C. 199-95, Kremzow).

Del resto, aggiunge il rimettente, la stessa Corte costituzionale, prima delle modifiche degli artt. 46 e 56 della CEDU, apportate con il Protocollo n. 11, reso esecutivo in Italia con la legge n. 296 del 1997, sembrava aver assunto orientamenti non incompatibili con la diretta applicabilità delle norme della Convenzione (sono richiamate le sentenze n. 373 del 1992 e n. 235 del 1993). Solo successivamente, anche a seguito della novella degli artt. 111 e 117 Cost., il giudice delle leggi si sarebbe orientato «a dare rilievo indiretto alle norme convenzionali, come fonti di obblighi cui l’Italia è da tali norme vincolata» (sono richiamate la sentenza n. 445 del 2002 e l’ordinanza n. 139 del 2005).

In definitiva, il riconoscimento con carattere precettivo dei diritti tutelati dall’accordo sopranazionale non rileverebbe ai fini dell’abrogazione di norme interne contrastanti, fino a quando il legislatore interno non abbia specificato i rimedi a garanzia di detti diritti (è richiamata Cass. 12 gennaio 1999, n. 254). Nondimeno, prosegue il giudice a quo, i diritti tutelati dalla Convenzione EDU esistono sin dal momento della ratifica, o anche prima, se già garantiti dal diritto interno, sicché i successori degli originari titolari potranno chiederne la tutela al giudice nazionale una volta che sia stata modificata la disciplina interna.

La Corte rimettente osserva infine che, se pure il giudice italiano disapplicasse l’art. 5-bis, non potrebbe imporre come giusto indennizzo quello corrispondente al valore venale del bene espropriato, e questo perché, mentre in sede sopranazionale tale criterio è stato più volte considerato «l’unico di regola applicabile», nell’ambito interno la Corte costituzionale ha ritenuto che la nozione di «serio ristoro» sia compatibile con una riduzione del prezzo pieno del bene ablato, come sacrificio individuale dovuto alla pubblica utilità.

5.4. – Esclusa la possibilità di disapplicare l’art. 5-bis, la Corte di cassazione procede alla delibazione delle questioni preliminari riguardanti la qualificazione delle aree espropriate come edificabili, discendendo da tale qualificazione la rilevanza della norma censurata per la fattispecie in esame.

Riaffermata l’edificabilità delle aree espropriate, il giudice a quo ritiene «certamente rilevante» la questione di legittimità sollevata, dato che, nella espropriazione oggetto di causa, l’indennità è stata liquidata con i criteri di determinazione di cui all’art. 5-bis.

La Corte di cassazione evidenzia come la parte privata si dolga del fatto che, pure in assenza della riduzione del 40 per cento, l’indennità riconosciutale in base alla norma censurata non costituisce un serio ristoro della perdita subita. All’opposto, il ricorrente Comune di Montello lamenta che la Corte di merito ha computato il valore del soprassuolo ai fini della determinazione dell’indennità. Ciò dimostra, ad avviso della rimettente, che il giudizio principale non può essere definito prescindendo dall’applicazione dell’art. 5-bis.

5.5. – Con riferimento alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo procede all’esame delle pronunce con le quali la Corte costituzionale ha definito i giudizi aventi ad oggetto il menzionato art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992. Sono richiamate, in particolare, le sentenze n. 283 e n. 442 del 1993, nelle quali è stata esclusa l’illegittimità dei criteri di determinazione dell’indennità di esproprio dei suoli edificabili, sulla base del loro «carattere dichiaratamente temporaneo, in attesa di un’organica disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità» e giustificandoli per «la particolare urgenza e valenza degli “scopi” che […] il legislatore si propone di perseguire» nella congiuntura economica in cui versava il Paese (sentenza n. 283 del 1993). Come noto, il contenuto della norma è stato trasposto nell’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, che ha reso “definitivi” quei criteri di liquidazione dell’indennizzo, sicché la “provvisorietà” degli stessi, che aveva sorretto il giudizio di non fondatezza, può dirsi venuta meno.

Nella citata pronuncia n. 283 del 1993, la Corte costituzionale ha riconosciuto, a differenza della Corte europea, il carattere di principi e norme fondamentali di riforma economico-sociale alla disciplina dettata dal legislatore con l’art. 5-bis, e difatti ha ritenuto illegittima la norma in esame, per contrasto con gli artt. 3 e 42 Cost., soltanto nella parte in cui, per i procedimenti in corso, non prevedeva una «nuova offerta di indennità», la cui accettazione da parte dell’espropriato escludesse l’applicazione della riduzione del 40 per cento. Quanto alla applicazione retroattiva dell’art. 5-bis, il giudice delle leggi ha affermato che il principio dell’irretroattività delle leggi, contenuto nell’art. 11 disp. prel. cod. civ., non è recepito nella Costituzione, escludendo nel contempo il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. Diversamente oggi, a parere della rimettente, il principio del giusto processo, sancito dal novellato art. 111 Cost., garantirebbe anche la condizione di parità tra le parti, sicché appare necessario sottoporre la norma, anche per tale aspetto, ad un nuovo scrutinio di costituzionalità.

Assume il giudice a quo che la norma censurata, incidendo sulla liquidazione delle indennità nei procedimenti in corso, «anteriormente alla futura opposizione alla stima ancora non proponibile per ragioni imputabili all’espropriante» (è richiamata la sentenza n. 67 del 1990 della Corte costituzionale), ha determinato una ingerenza del legislatore nel processo a sfavore dell’espropriato. Questi, infatti, in assenza della predetta norma, avrebbe potuto pretendere e ottenere una maggiore somma, se i procedimenti amministrativi o giurisdizionali in corso fossero stati conclusi prima della relativa entrata in vigore.

Il rimettente richiama, in proposito, l’affermazione contenuta nella sentenza Scordino del 29 marzo 2006, secondo cui l’ingerenza del legislatore nei procedimenti in corso viola l’art. 6 della Convenzione, in rapporto all’art. 1 del primo Protocollo, poiché la previsione della perdita di una parte dell’indennità con efficacia retroattiva non risulta giustificata da una rilevante causa di pubblica utilità.

Quanto al merito del criterio di calcolo dell’indennità, contenuto nella norma censurata, il rimettente osserva come la Corte europea abbia ormai definitivamente affermato, con numerose pronunce, il contrasto con l’art. 1 del primo Protocollo dei ristori indennitari e risarcitori previsti per le acquisizioni lecite e illecite connesse a procedimenti espropriativi, con o senza causa di pubblica utilità. Ritiene la Corte rimettente, quindi, che la norma censurata debba essere nuovamente scrutinata alla luce del testo vigente del primo comma dell’art. 117 Cost., sul rilievo che l’intera normativa ordinaria, e dunque anche le norme previgenti alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), possa essere esaminata ed eventualmente dichiarata incostituzionale per contrasto “sopravvenuto” con i nuovi principi inseriti nella Carta fondamentale (è richiamata la sentenza n. 425 del 2004).

6. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la non fondatezza delle questioni, svolgendo considerazioni del tutto coincidenti con quelle sviluppate nel giudizio promosso con l’ordinanza del 29 maggio 2006 della Corte di cassazione (r.o. n. 402 del 2006). Pertanto, si richiama integralmente quanto sopra riportato al punto 2.

7. – Si è costituita in giudizio A.C., controricorrente e ricorrente in via incidentale nel giudizio a quo, la quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità delle questioni – dovendosi ritenere che spetti ai giudici nazionali disapplicare le norme interne in contrasto con quelle della Convenzione europea – ed in subordine per l’accoglimento delle questioni medesime.

7.1. – La parte privata ritiene che il contrasto tra norma interna e norma CEDU debba esser risolto con la disapplicazione della prima. In proposito è richiamato il Protocollo n. 11 della Convenzione, il quale ha riformulato il meccanismo di controllo istituito dalla stessa, stabilendo che i singoli cittadini degli Stati contraenti possano adire direttamente la Corte europea (art. 34 della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 11) e che «1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti. 2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei ministri che ne sorveglia l’esecuzione» (art. 46 della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 11).

La medesima parte privata ricorda come l’intero meccanismo di controllo si fondi sul principio di sussidiarietà, in virtù del quale la Corte europea «non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne» (art. 35 della Convenzione). Pertanto, i giudici nazionali sono tenuti ad applicare il diritto interno in modo conforme alla Convenzione, «spettando alla Corte europea, invece, in via sussidiaria e a seguito dell’esaurimento dei rimedi interni, verificare se il modo in cui il diritto interno è interpretato ed applicato produce effetti conformi ai principi della Convenzione».

A questo proposito, la parte privata sottolinea come la Risoluzione 1226 (2000) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa abbia affermato che gli Stati contraenti sono tenuti ad assicurare, tra l’altro, «l’applicazione diretta, da parte dei Giudici nazionali, della Convenzione e delle sentenze della Corte Europea che la interpretano e la applicano». Nella stessa direzione si muovono anche la Risoluzione Res(2004)3 del 12 maggio 2004 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, relativa alle sentenze che accertano un problema strutturale sottostante alla violazione, la Raccomandazione Rec(2004)5, di pari data, del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, relativa alla verifica di conformità dei progetti di legge, delle leggi vigenti e della prassi amministrativa agli standard stabiliti dalla Convenzione, nonché la Raccomandazione Rec(2004)6, di pari data, con cui il Comitato dei ministri ha ribadito che gli Stati contraenti, a seguito delle sentenze della Corte che individuano carenze di carattere strutturale o generale dell’ordinamento normativo o delle prassi nazionali applicative, sono tenuti a rivedere l’efficacia dei rimedi interni esistenti e, se necessario, ad instaurare validi rimedi, al fine di evitare che la Corte venga adita per casi ripetitivi.

La parte privata richiama, inoltre, il contenuto della sentenza 29 marzo 2006 della Corte di Strasburgo in causa Scordino contro Italia, in riferimento sia alla inadeguatezza del criterio generale di cui all’art. 5-bis, applicato indipendentemente dalla tipologia dell’opera che deve essere realizzata, sia all’effetto di interferenza del potere legislativo sul potere giudiziario, che si è determinato con l’applicazione della predetta norma ai giudizi in corso. Secondo la Corte europea tale effetto non può trovare giustificazione nelle ragioni di natura finanziaria che il Governo italiano ha prospettato nel ricorso alla Grande chambre. È inoltre richiamato il passaggio della menzionata pronunzia, ove sono citate le sentenze n. 223 del 1983, n. 283 e n. 442 del 1993, con le quali la Corte costituzionale ha invitato il legislatore ad adottare una disciplina normativa che assicuri «un serio ristoro» al privato, ed ha escluso l’esistenza di un contrasto tra l’art. 5-bis e la Costituzione «in considerazione della sua natura urgente e temporanea». Peraltro, osserva l’interveniente, poiché il criterio contenuto nella norma citata è stato trasfuso nel testo unico in materia di espropriazioni (d.P.R. n. 327 del 2001), la Corte di Strasburgo non ha mancato di rilevare come sia agevolmente prefigurabile la proposizione di numerosi e fondati ricorsi.

Tutto ciò premesso, se la conformità dell’ordinamento ai principi affermati nella sentenza citata deve essere assicurata dai giudici nazionali, come rilevato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nella richiamata Raccomandazione Rec(2004)5, e se la Corte europea ha accertato, con sentenza che costituisce «cosa giudicata interpretata», ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, che la norma interna rilevante è causa di violazione strutturale di una o più norme della Convenzione medesima, allora tale norma, a parere della parte privata, deve essere «disapplicata» dal giudice nazionale. La disapplicazione della norma interna contrastante sarebbe conseguenza diretta ed immediata del principio di sussidiarietà dell’art. 46 della stessa Convenzione, sicché, in definitiva, con riferimento al sistema CEDU si deve giungere all’affermazione di principi analoghi a quelli che la Corte costituzionale ha enucleato in relazione al diritto comunitario nella sentenza n. 170 del 1984.

La diversa conclusione cui è giunta la Corte rimettente contrasterebbe, tra l’altro, con l’assunto, affermato dalla medesima Corte, della vincolatività delle norme della Convenzione e della giurisprudenza della Corte europea.

Sulla base delle considerazioni sopra svolte, la difesa di A.C. conclude sollecitando una dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.

7

Franco BILE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, promossi con ordinanze del 29 maggio e del 19 ottobre 2006 (nn. 2 ordd.) dalla Corte di cassazione, rispettivamente iscritte ai nn. 402 e 681 del registro ordinanze 2006 ed al n. 2 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2006 e nn. 6 e 7, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visti gli atti di costituzione di R.A., di A.C., di M.T.G., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 3 luglio 2007 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

uditi gli avvocati Felice Cacace e Francesco Manzo per R.A., Nicolò Paoletti per A.C., Nicolò Paoletti e Alessandra Mari per M.T.G. e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. − Con ordinanza depositata il 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006), la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, per violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 6 CEDU ed all’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, cui è stata data esecuzione con la medesima legge n. 848 del 1955.

La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l’applicazione ai giudizi in corso alla data dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.

1.1. − La Corte rimettente riferisce che nel giudizio principale la parte privata R.A., già proprietaria di suoli espropriati per l’attuazione di un programma di edilizia economica e popolare nel Comune di Torre Annunziata, e firmataria di un atto di cessione volontaria in data 2 aprile 1982, ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli del 6 dicembre 2001 per censurare la liquidazione dell’indennità ivi effettuata, in quanto non adeguata al valore dei beni, anche con riferimento alla mancata rivalutazione della somma liquidata.

Nel giudizio di legittimità si sono costituiti il Comune di Torre Annunziata, il quale ha proposto ricorso incidentale, e l’Istituto autonomo case popolari della Provincia di Napoli.

Con memoria illustrativa la ricorrente R.A. ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, norma applicata ai fini della quantificazione dell’indennità, per contrasto con gli artt. 42, terzo comma, 24 e 102 Cost., in quanto il criterio ivi previsto non garantirebbe un serio ristoro ai proprietari dei suoli espropriati e la sua applicazione ai giudizi in corso costituirebbe una «indebita ingerenza del potere legislativo sull’esito del processo». A questo proposito si ricorda come la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia costantemente rilevato il contrasto del menzionato art. 5-bis con l’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione europea.

La censura della parte ricorrente è estesa all’art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), in quanto si tratta della disposizione, oggi vigente, che ha perpetuato il criterio di calcolo censurato.

1.2. − Il rimettente esclude la rilevanza della questione avente ad oggetto la norma citata da ultimo, in quanto applicabile solo ai procedimenti espropriativi iniziati a partire dal 1° luglio 2003, secondo la previsione contenuta nell’art. 57 del medesimo d.P.R. n. 327 del 2001. Nel caso di specie, invece, il giudizio è iniziato nel 1988.

Al contempo, la Corte di cassazione ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992.

1.3 – In merito alla rilevanza della questione sollevata, il rimettente sottolinea come nella specie si tratti «indiscutibilmente» di suoli edificabili, ai quali è applicabile il citato art. 5-bis, commi 1 e 2. In particolare, si evidenzia come l’oggetto del contendere sia costituito dal «prezzo della cessione volontaria», rectius, «dal conguaglio dovuto rispetto a quanto a suo tempo convenuto, in applicazione della legge n. 385 del 1980». Il giudice a quo ricorda, in proposito, che il prezzo della cessione volontaria deve essere commisurato alla misura dell’indennità di espropriazione; da ciò consegue che nel giudizio principale è ancora in contestazione la determinazione dell’indennizzo espropriativo e che l’eventuale ius superveniens, costituito da un nuovo criterio di determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, troverebbe senz’altro applicazione.

1.4. − Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione ritiene di dover riformulare i termini della questione prospettata dalla parte privata ricorrente, individuando i parametri costituzionali di riferimento negli artt. 111 e 117 Cost. Il ragionamento è condotto alla luce dell’esame parallelo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e di quella costituzionale in materia di indennizzo espropriativo.

In relazione alla prima, sono richiamate in particolare le sentenze del 29 luglio 2004 e del 29 marzo 2006, entrambe emesse nella causa Scordino contro Italia, con le quali lo Stato italiano è stato condannato per violazione delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella pronunzia del 2004, la Corte europea ha censurato l’applicazione, operata dai giudici nazionali, dell’art. 5-bis ai giudizi in corso, stigmatizzando la portata retroattiva della norma in parola, come tale lesiva della certezza e della trasparenza nella sistemazione normativa degli istituti ablatori, oltre che del diritto della persona al rispetto dei propri beni. Infatti, l’applicazione di tale criterio ai giudizi in corso ha violato l’affidamento dei soggetti espropriati, i quali avevano agito in giudizio per essere indennizzati secondo il criterio del valore venale dei beni, previsto dall’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per pubblica utilità), ripristinato a seguito della dichiarazione di incostituzionalità delle norme che commisuravano in generale l’indennizzo al valore agricolo dei terreni (sentenze n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983).

Con la sentenza del 2006, invece, la Corte di Strasburgo ha rilevato la strutturale e sistematica violazione, da parte del legislatore italiano, dell’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione europea, osservando che la quantificazione dell’indennità in modo irragionevole rispetto al valore del bene ha determinato, appunto, una situazione strutturale di violazione dei diritti dell’uomo. Nell’occasione la Corte di Strasburgo ha sottolineato come, ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, lo Stato italiano abbia il dovere di porre fine a siffatti problemi strutturali attraverso l’adozione di appropriate misure legali, amministrative e finanziarie.

Sul fronte interno, il giudice rimettente evidenzia come la norma oggetto di censura sia stata più volte scrutinata dalla Corte costituzionale, che l’ha ritenuta conforme all’art. 42, terzo comma, Cost., perché introduttiva di un criterio mediato che assicura un ristoro «non irrisorio» ai soggetti espropriati, nel rispetto della funzione sociale della proprietà (sentenze n. 283, n. 414 e n. 442 del 1993). Anche sotto il profilo dell’applicazione ai giudizi in corso, la Corte costituzionale ha respinto le censure affermando, in particolare nella sentenza n. 283 del 1993, che l’irretroattività delle leggi, pur costituendo un principio generale dell’ordinamento, non è elevato − fuori dalla materia penale − al rango di norma costituzionale. Nel caso di specie, attesa la situazione di carenza normativa che caratterizzava al tempo la materia (dopo gli interventi caducatori della stessa Corte, con le sentenze n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983) e la conseguente applicazione in via suppletiva del criterio del valore venale, la retroattività dell’intervento legislativo non poteva dirsi confliggente con il canone della ragionevolezza.

In esito alla disamina risulterebbe evidente, a parere del giudice a quo, che la questione debba essere posta oggi in riferimento ai diversi parametri individuati negli artt. 111 e 117 Cost., secondo una prospettiva inedita che è quella del sopravvenuto contrasto della norma censurata con i principi del giusto processo e del rispetto degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, attraverso il richiamo delle norme convenzionali contenute nell’art. 6 CEDU e nell’art. 1 del primo Protocollo, in funzione di parametri interposti.

1.5. − La Corte di cassazione svolge poi una serie di considerazioni per giustificare il ricorso all’incidente di costituzionalità, sottolineando come spetti al legislatore la predisposizione dei mezzi necessari per evitare la violazione strutturale e sistematica dei diritti dell’uomo, denunciata dalla Corte europea nella sentenza Scordino del 29 marzo 2006, richiamata poco sopra.

In particolare, la stessa Corte rimettente esclude che il giudice nazionale possa disapplicare l’art. 5-bis, sostituendolo con un criterio frutto del proprio apprezzamento o facendo rivivere la disciplina previgente.

L’impossibilità di disapplicare la norma interna in contrasto con quella della Convenzione deriverebbe, a dire della Corte, anche da altre considerazioni. In primo luogo, va escluso che, in riferimento alle norme CEDU, sia ravvisabile un meccanismo idoneo a stabilire la sottordinazione della fonte del diritto nazionale rispetto a quella internazionale, assimilabile alle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost., derivanti dalle fonti normative dell’ordinamento comunitario. Non sembra infatti sostenibile la tesi dell’avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, ai sensi del par. 2 dell’art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, in quanto il rispetto dei diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione, costituisce una direttiva per le istituzioni comunitarie e «non una norma comunitaria rivolta agli Stati membri». A conferma di tale ricostruzione, il rimettente richiama il parere negativo espresso dalla Corte di giustizia allorché fu prospettata l’adesione della Comunità europea alla CEDU (parere 28 marzo 1996, n. 2/94). Il parere era fondato sul rilievo che l’adesione avrebbe comportato l’inserimento della Comunità in un sistema istituzionale distinto, nonché l’integrazione del complesso delle disposizioni della CEDU nell’ordinamento comunitario. Nella stessa direzione, la Corte del Lussemburgo ha dichiarato la propria incompetenza a fornire elementi interpretativi per la valutazione da parte del giudice nazionale della conformità della normativa interna ai diritti fondamentali, quali risultano dalla CEDU, e ciò «in quanto tale normativa riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario» (Corte giustizia, 29 maggio 1998, causa C-299/95).

Il giudice a quo richiama altresì il principio della soggezione dei giudici alla legge, sancito dall’art. 101 Cost., che impedirebbe di ritenere ammissibile un potere (a fortiori, un obbligo) di disapplicazione della normativa interna, atteso che ciò significherebbe attribuire al potere giudiziario una funzione di revisione legislativa del tutto estranea al nostro sistema costituzionale, nel quale l’abrogazione della legge statale rimane «legata alle ipotesi contemplate dagli artt. 15 disp. prel. cod. civ. e 136 Cost.», mentre il mancato rispetto della regola di conformazione si traduce nel vizio di violazione di legge, denunziabile dinanzi alla Corte di cassazione (è richiamata Cass., 26 gennaio 2004, n. 1340), anche se non mancano opinioni che attenuano ulteriormente l’efficacia vincolante delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cass., 26 aprile 2005, n. 8600, e 15 settembre 2005, n. 18249).

A tutto concedere, secondo la Corte rimettente, un vincolo all’interpretazione del giudice nazionale sarebbe ravvisabile ove la norma interna costituisca, come nella disciplina dell’equa riparazione per irragionevole durata del processo, la riproduzione di norme convenzionali, per le quali i precedenti della Corte di Strasburgo costituiscono riferimento obbligato, ovvero quando la norma convenzionale sia immediatamente precettiva, e comunque di chiara interpretazione, e non emerga un conflitto interpretativo tra il giudice nazionale e quello europeo (è richiamata Cass., 19 luglio 2002, n. 10542). Diversamente, in caso di disapplicazione dell’art. 5-bis, si porrebbe il problema della sostituzione del criterio ivi indicato con quello previsto dalla normativa previgente, ovvero con un criterio rimesso all’apprezzamento del giudice.

Al riguardo, il giudice a quo esprime perplessità circa l’incidenza, in ipotesi di disapplicazione dell’art. 5-bis, della norma suppletiva costituita dall’art. 39 della legge n. 2359 del 1865, che fa riferimento al valore venale dei beni e che è richiamata dalla sentenza 29 luglio 2004 della Corte di Strasburgo come criterio sul quale poggiava l’affidamento delle parti ricorrenti al momento dell’instaurazione del giudizio. Detta norma, infatti, non costituisce «regola tendenziale dell’ordinamento», in quanto non essenziale per la funzione sociale riconosciuta alla proprietà dalla Carta fondamentale, secondo l’affermazione costante della giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 61 del 1957, n. 231 del 1984, n. 173 del 1991, n. 138 del 1993 e n. 283 del 1993), mentre l’art. 5-bis, come già evidenziato, è stato ritenuto conforme a Costituzione anche sotto il profilo della efficacia retroattiva. In definitiva, in caso di disapplicazione della norma censurata, il giudice sarebbe chiamato ad individuare un criterio di determinazione dell’indennizzo che, pur non essendo coincidente con il valore di mercato dei beni ablati, attesa la funzionalizzazione del diritto dominicale alla pubblica utilità, sia comunque idoneo ad assicurare un quid pluris rispetto al criterio contenuto nell’art. 5-bis, così compiendo un’operazione «palesemente ammantata da margini di discrezionalità che competono solo al legislatore», anche per la necessità di reperire i mezzi finanziari per farvi fronte.

Il rimettente evidenzia come la stessa giurisprudenza CEDU non sia univoca con riferimento alla identificazione del valore venale dei beni quale unico criterio indennitario ammissibile alla luce dell’art. 1 del primo Protocollo. Infatti, mentre nella citata pronuncia del 29 marzo 2006 la Corte europea ha affermato che solo un indennizzo pari al valore del bene può essere ragionevolmente rapportato al sacrificio imposto, fatti salvi i casi riconducibili a situazioni eccezionali di mutamento del sistema costituzionale (è richiamata la sentenza 28 novembre 2002, ex re di Grecia e altro contro Grecia), la stessa Corte «di solito ha ammesso che il giusto equilibrio tra le esigenze di carattere generale e gli imperativi di salvaguardia dei diritti dell’individuo non comporta che l’indennizzo debba corrispondere al valore di mercato del bene espropriato» (sono richiamate le pronunce rese in causa James e altri contro Regno Unito, del 21 febbraio 1986; Les saint monasteres contro Grecia, del 9 dicembre 1994; la già citata sentenza Scordino del 29 luglio 2004).

Quanto rilevato con riferimento all’art. 11 Cost., per negare la «comunitarizzazione» della CEDU e, quindi, la praticabilità della disapplicazione della norma interna, varrebbe altresì ad escludere l’utilizzo del predetto parametro ai fini dello scrutinio.

Secondo il rimettente, il recupero del dictum della Corte europea non potrebbe avvenire neppure attraverso il richiamo all’obbligo di conformazione del diritto interno alle norme internazionali che, ai sensi dell’art. 10 Cost., impegna l’intero ordinamento; infatti, per un verso il parametro citato non ha per oggetto il diritto pattizio e, per altro verso, la commisurazione dell’indennizzo espropriativo al valore di mercato del bene non costituisce principio generalmente riconosciuto dagli Stati.

L’intervento giudiziale, infine, secondo la Corte rimettente, non potrebbe trovare giustificazione nella finalità di supplire all’inerzia del legislatore, giacché quest’ultimo ha di recente reiterato il regime indennitario introdotto con l’art. 5-bis, avendolo trasfuso nell’attuale art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001. A questo proposito, il giudice a quo rammenta come, già nel 1993, la Corte costituzionale (con la sentenza n. 283) avesse invitato il legislatore ad elaborare una legge atta ad assicurare un serio ristoro, ritenendo l’art. 5-bis compatibile con la Costituzione in ragione del suo carattere urgente e provvisorio, desumibile anche dall’incipit della disposizione che recita: «fino all’emanazione di un’organica disciplina per tutte le espropriazioni».

Dunque, l’«inadeguatezza in abstracto» del criterio indennitario contenuto nell’art. 5-bis a compensare la perdita della proprietà dei suoli edificabili per motivi di interesse pubblico, definitivamente sancita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, unitamente alla acquisita definitività della disciplina, riproposta dal legislatore nel 2001, all’art. 37 del d.P.R. n. 327, renderebbe necessario un nuovo scrutinio di costituzionalità.

Le argomentazioni che dimostrano l’impercorribilità della strada della disapplicazione da parte del giudice nazionale varrebbero, al tempo stesso, ad escludere che il contrasto possa essere composto in via interpretativa.

1.6. – Su questa premessa, il giudice a quo passa ad illustrare i motivi di contrasto della norma impugnata rispetto ai parametri costituzionali evocati. In particolare, richiamate ancora le pronunce della Corte costituzionale sul menzionato art. 5-bis, precisa che, per un verso, quest’ultimo non è stato scrutinato rispetto al parametro di cui all’art. 111 Cost., nel testo modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 della Costituzione), e che, per altro verso, i contenuti della disposizione costituzionale in esame, avuto riguardo agli aspetti programmatici (primo e secondo comma), sarebbero in gran parte ancora da esplorare, così come sarebbe da chiarire il rapporto «di discendenza della nuova formulazione della norma costituzionale dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo».

Seppure, come è noto, l’originario intento di “costituzionalizzare” l’art. 6 della Convenzione abbia subito modifiche nel corso dei lavori parlamentari, non di meno, a parere della Corte rimettente, andrebbe avallata la tesi secondo cui la ricostruzione dei nuovi precetti costituzionali debba essere condotta proprio alla luce della giurisprudenza della Corte europea. Pertanto, nel ricercare il significato precettivo del riformulato art. 111 Cost. si potrebbe utilmente fare ricorso all’interpretazione resa dalla Corte di Strasburgo dell’analoga disposizione contenuta nell’art. 6 della Convenzione. A questo proposito, le pronunce rese nella causa Scordino contro Italia, in materia di indennizzo espropriativo, hanno affermato che il principio della parità delle parti dinanzi al giudice implica l’impossibilità per il potere legislativo di intromettersi nell’amministrazione della giustizia, allo scopo di influire sulla risoluzione della singola causa o di una circoscritta e determinata categoria di controversie.

Il giudice a quo evidenzia come la vicenda giudiziaria che ha dato luogo alle citate sentenze della Corte europea e quella che ha originato la presente questione di legittimità costituzionale risultino del tutto assimilabili: in entrambi i casi, infatti, i soggetti espropriati hanno agito in giudizio sul presupposto che, espunti dall’ordinamento (per effetto delle pronunce della Corte costituzionale n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983) i penalizzanti criteri di quantificazione dell’indennizzo previsti dalla legge 29 luglio 1980, n. 385 (Norme provvisorie sulla indennità di espropriazione di aree edificabili nonché modificazioni di termini previsti dalle leggi 28 gennaio 1977, n. 10, 5 agosto 1978, n. 457, e 15 febbraio 1980, n. 25), si fosse determinata la reviviscenza del criterio del valore venale, con la conseguente nullità dell’atto di cessione volontaria per indeterminatezza dell’oggetto e con l’insorgenza del diritto all’indennità commisurata al predetto valore.

Il giudice di merito, invece, dovendo stabilire il «prezzo della cessione» da commisurare all’indennità di esproprio, ha dovuto fare applicazione del sopravvenuto art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, ed ha di conseguenza condannato il Comune espropriante al pagamento della differenza, a titolo di conguaglio della somma in precedenza corrisposta.

Il risultato è stato che le proprietarie espropriate, «a giudizio iniziato», si sono viste ridurre del 50 per cento la somma per il conseguimento della quale si erano determinate ad agire.

Per le ragioni suesposte la Corte di cassazione ritiene che la norma censurata sia in contrasto con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., anche alla luce dell’art. 6 CEDU, nella parte in cui, disponendo l’applicabilità ai giudizi in corso delle regole di determinazione dell’indennità di espropriazione in esso contenute, viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice.

1.7. – La Corte rimettente assume che il censurato art. 5-bis si ponga in contrasto anche con l’art. 117, primo comma, Cost., alla luce delle norme della Convenzione europea, come interpretate dalla Corte di Strasburgo.

Infatti la nuova formulazione della norma costituzionale, introdotta dalla legge di riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, avrebbe colmato «una lacuna dell’ordinamento». In tal senso, a detta della rimettente, la sedes materiae non risulterebbe decisiva per «ridimensionare» l’effetto innovativo dell’art. 117, primo comma, Cost., circoscrivendolo al solo riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. Al contrario, nella norma in esame «sembra doversi ravvisare il criterio ispiratore di tutta la funzione legislativa, anche di quella contemplata dal secondo comma, riguardante le competenze esclusive dello Stato, cui è riconducibile la normativa in tema di indennità di espropriazione».

Dunque, secondo il giudice a quo, le norme della Convenzione europea, e specialmente l’art. 6 CEDU e l’art. 1 del primo Protocollo, diverrebbero, «attraverso l’autorevole interpretazione che ne ha reso la Corte di Strasburgo», norme interposte nel presente giudizio di costituzionalità. In particolare, la sopravvenuta incompatibilità dell’art. 5-bis con le norme CEDU e quindi con l’art. 117, primo comma, Cost., riguarderebbe i profili evidenziati dalla Corte europea, ovvero la «contrarietà ai principi del giusto processo» e l’«incongruità della misura indennitaria, nel rispetto che è dovuto al diritto di proprietà».

2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate infondate.

2.1. – La difesa erariale individua il thema decidendum nei seguenti punti: a) «se, in caso di contrasto tra la giurisprudenza europea e la legge nazionale, prevalga la prima, e dunque quale sia il destino della seconda»; b) «se, in caso di risposta affermativa al primo quesito, la soluzione valga anche con riguardo alle norme costituzionali».

Prima di rispondere ai quesiti indicati, a parere dell’Avvocatura generale, occorre stabilire se davvero la giurisprudenza della Corte europea possa, in via interpretativa, imporre agli Stati aderenti di considerare ridotte o espanse le norme convenzionali «in una sorta di diritto di esclusiva che farebbe premio sia sui procedimenti di formazione dei patti internazionali sia sulla diretta interpretazione del giudice nazionale, il quale pur si trova ad applicare le stesse norme [CEDU] in quanto recepite dalla legge nazionale 4 agosto 1955 n. 848».

La difesa erariale contesta che tale potere, per quanto rivendicato dalla Corte europea, sia previsto da norme convenzionali. L’art. 32 del Protocollo n. 11 della Convenzione EDU, reso esecutivo in Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l’11 maggio 1994), circoscrive la competenza della predetta Corte «a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli». Ad avviso dell’Avvocatura generale, si tratterebbe di una norma posta a garanzia dell’indipendenza dei giudici di Strasburgo, che «non può trasformarsi in una fonte di produzione normativa vincolante oltre il processo e, addirittura, limitativa dei poteri istituzionali dei Parlamenti nazionali o della nostra Corte di cassazione o perfino della Corte costituzionale».

La pretesa della Corte di Strasburgo di produrre norme convenzionali vincolanti non sarebbe compatibile con l’ordinamento internazionale generale e ancor più con il sistema della Convenzione di Vienna, cui è stata data esecuzione con la legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il 23 maggio 1969), secondo cui l’interpretazione di qualunque trattato deve essere testuale ed oggettiva.

Pertanto, la difesa dello Stato evidenzia come le questioni odierne abbiano ragione d’essere soltanto se si riconosce alle norme di origine giurisprudenziale della Corte europea il valore di parametro interposto. Diversamente, non vi sarebbe motivo di dubitare che, ai sensi degli artt. 25 e 42 Cost., il legislatore nazionale possa introdurre norme di carattere retroattivo, operanti anche nei processi in corso, e conformare sistemi indennitari che contemperino il diritto dei singoli con le esigenze della collettività, così evitando che gli indennizzi degli espropri coincidano con il prezzo di mercato degli immobili.

2.2. – La difesa dello Stato contesta l’impostazione del ragionamento della Corte rimettente anche con riferimento ai parametri evocati.

Secondo l’Avvocatura generale, l’art. 111 Cost., una volta depurato «da ogni suggestione di prevalenza degli “insegnamenti” CEDU sulla legislazione ordinaria e costituzionale o sulla giurisprudenza della Corte di cassazione e della stessa Corte costituzionale», non stabilisce affatto quello che il giudice a quo crede di leggervi. Il «giusto processo» non riguarda le prerogative del legislatore, in particolare non gli impedisce di intervenire sulla disciplina sostanziale con norme di carattere retroattivo, che il giudice è tenuto ad applicare in ossequio al disposto dell’art. 101 Cost. Del resto, osserva la difesa erariale, neppure l’art. 6 CEDU, che ha ispirato la novella dell’art. 111 Cost., contiene riferimenti al divieto di leggi retroattive in materia extrapenale; tale divieto esiste, quindi, soltanto nella giurisprudenza della Corte europea, la quale, peraltro, secondo gli argomenti già esposti, sarebbe priva di potere creativo di norme convenzionali.

Discorso parzialmente analogo varrebbe per l’art. 117, primo comma, Cost., il quale impone il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, là dove, per l’appunto, le predette norme configurino limitazioni all’esercizio della potestà legislativa.

La difesa erariale richiama in proposito l’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il quale stabilisce che costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni «quelli derivanti […] da accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui all’art. 11 della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali». Nulla di tutto ciò, secondo l’Avvocatura generale, è presente nella CEDU, sia con riferimento alla previsione di leggi retroattive di immediata applicazione ai processi in corso, e per le quali opera quindi la sola disciplina delle fonti di produzione nazionali, sia con riguardo ai diritti del proprietario espropriato. A tale proposito, l’interveniente rileva che l’art. 1 del primo Protocollo, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Strasburgo, si limita ad affermare il principio per cui il sacrificio della proprietà privata è ammissibile solo per cause di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. La norma convenzionale richiamata non imporrebbe in alcun modo, quindi, che l’indennizzo dovuto al proprietario espropriato debba corrispondere al valore venale del bene.

2.3. – In conclusione, la difesa erariale evidenzia come il valore venale del terreno urbano non esista in rerum natura, ma sia direttamente collegato agli strumenti urbanistici e perciò determinato in funzione della utilizzabilità dell’area, con la conseguenza che un sistema indennitario che imponga una drastica riduzione del valore del bene non è così distante dalla realtà degli scambi economici.

3. – Si è costituita in giudizio R.A., ricorrente in via principale nel giudizio a quo, richiamando genericamente tutte le censure, eccezioni e deduzioni svolte nei diversi gradi del procedimento, ed in particolare l’eccezione di illegittimità costituzionale formulata nel giudizio di cassazione, con riserva di depositare successive memorie.

4. – In data 19 giugno 2007 la stessa parte privata ha depositato una memoria illustrativa con la quale insiste affinché la questione sia dichiarata fondata.

4.1. – In particolare, dopo aver riassunto l’intera vicenda giudiziaria dalla quale è originato il giudizio a quo, la difesa della parte rileva che la misura dell’indennizzo espropriativo prevista nella norma censurata, non presentando le caratteristiche del «serio ristoro», sarebbe tutt’ora censurabile sotto il profilo del contrasto con l’art. 42, terzo comma, Cost., nonostante l’esito dei precedenti scrutini (sentenze n. 283 e n. 442 del 1993). Infatti, nelle pronunzie richiamate, la Corte costituzionale aveva fatto salva la norma censurata solo perché caratterizzata da «provvisorietà ed eccezionalità».

4.2. – Con riferimento al profilo afferente l’applicazione della norma censurata ai giudizi in corso, la parte privata ritiene violati gli artt. 24 e 102 Cost. L’avvenuta modifica della norma sostanziale in corso di causa e la conseguente variazione della «dimensione qualitativa e quantitativa» del diritto azionato costituirebbero un’indebita ingerenza del potere legislativo sull’esito del processo, in violazione della riserva contenuta nell’art. 102 Cost. Non si tratterebbe, nel caso di specie, di mera retroattività, ma di vera e propria interferenza nell’esercizio della funzione giudiziaria da parte del legislatore, «allo scopo dichiarato di limitare l’onere (legittimo) a carico della pubblica amministrazione».

Inoltre, la censura prospettata in riferimento all’art. 42, terzo comma, Cost. andrebbe estesa all’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, nel quale è contenuto un criterio di calcolo dell’indennizzo espropriativo che conduce ad una riduzione di circa il 50 per cento rispetto al valore reale del bene. Tale norma, peraltro, non presenta i caratteri di provvisorietà e urgenza che avevano connotato l’art. 5-bis, trattandosi, con ogni evidenza, di disciplina definitiva.

Da ultimo, sul rilievo che gli argomenti svolti dal giudice a quo per escludere la violazione degli ulteriori parametri indicati nell’eccezione di parte non assumono valore preclusivo, la parte auspica che la Corte costituzionale estenda il proprio scrutinio anche a tali parametri.

5. – Con ordinanza depositata il 19 ottobre 2006 (r.o. n. 681 del 2006), la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, per violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ed all’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 1 del primo Protocollo.

La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l’applicazione ai giudizi in corso alla data dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.

5.1. – La Corte rimettente riferisce che nel giudizio principale il Comune di Montello ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia, la quale – dopo aver accertato che l’area di proprietà di A.C., occupata sin dal 21 maggio 1991 ed espropriata in data 8 maggio 1996, doveva considerarsi terreno edificabile da privati – aveva liquidato l’indennità di espropriazione ai sensi dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992.

Il Comune ricorrente lamenta l’erronea qualificazione dell’area espropriata come edificabile, e in subordine, la mancata applicazione della riduzione del 40 per cento, nonché l’insufficiente motivazione a sostegno del computo del valore dei manufatti preesistenti. La parte privata si è costituita ed ha proposto, a sua volta, ricorso incidentale nel quale censura la quantificazione dell’indennità di esproprio, nonché il mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria degli importi liquidati; chiede altresì la disapplicazione dell’art. 5-bis, in quanto contrastante con l’art. 1 del primo Protocollo (che sarebbe stato “comunitarizzato” dall’art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992), ed invoca un mutamento dell’orientamento giurisprudenziale in virtù del quale «l’indennità viene corrisposta come debito pecuniario di valuta, con la conseguenza che nulla compete per la rivalutazione all’espropriato». Con successiva memoria, la ricorrente incidentale ha formulato, subordinatamente al mancato accoglimento della richiesta di disapplicazione, eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, per violazione degli artt. 2, 10, 11, 42, 97, 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 1 del primo Protocollo ed all’art. 6 CEDU.

5.2. – Preliminarmente, la Corte di cassazione richiama le argomentazioni sviluppate riguardo all’analoga questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il menzionato art. 5-bis, sollevata dalla medesima Corte con ordinanza del 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006), riservandosi soltanto di integrarne il contenuto «in rapporto al contrasto della norma interna con le citate norme della Convenzione europea».

Il giudice a quo procede, quindi, all’esame della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, citata anche dalla parte ricorrente a sostegno sia della richiesta di disapplicazione della norme interna, sia dell’eccezione di illegittimità costituzionale. L’esame è condotto a partire dal contenuto della pronuncia resa il 28 luglio 2004, in causa Scordino contro Italia, alla quale è seguita, nella medesima controversia, la pronuncia definitiva resa dalla Grande chambre il 29 marzo 2006, sul ricorso proposto dal Governo italiano.

Tanto premesso, la rimettente evidenzia l’analogia intercorrente tra la fattispecie oggetto del giudizio principale e quella che ha dato luogo alla richiamata pronuncia della Grande chambre: anche nel presente giudizio, infatti, il profilo della utilità pubblica risulterebbe di modesta rilevanza, essendo le aree espropriate destinate alla costruzione di un parcheggio e alla realizzazione di “verde attrezzato”.

5.3. – La Corte di cassazione procede, di seguito, a valutare il profilo riguardante la disapplicazione dell’art. 5-bis, espressamente richiesta dalla ricorrente incidentale, essendo tale delibazione presupposto di ammissibilità della presente questione di legittimità costituzionale.

Il giudice a quo dà atto che la stessa Corte di cassazione, con la già citata ordinanza n. 12810 del 2006 (r.o. n. 402 del 2006) e con l’ordinanza del 20 maggio 2006, n. 11887 (r.o. n. 401 del 2006), che ha rimesso analoga questione per la parte riguardante l’entità del risarcimento danni da occupazione acquisitiva illecita (art. 5-bis, comma 7-bis), ha negato che, in mancanza di una disciplina specifica e precettiva in sede sopranazionale dei criteri di liquidazione, il giudice nazionale possa disapplicare la legge interna.

Tale conclusione è condivisa dall’attuale rimettente, la quale rammenta che la sentenza della Corte europea del 29 marzo 2006, in causa Scordino contro Italia, ha rimesso allo Stato italiano l’adozione delle misure «legislative, amministrative e finanziarie» necessarie all’adeguamento del sistema interno alle norme sopranazionali (par. 237), così implicitamente chiarendo che la propria pronuncia non ha «effetti abrogativi».

Quanto al carattere precettivo delle norme contenute nella Convenzione, il giudice a quo ritiene debbano essere distinti i diritti da essa protetti, «riconosciuti» dagli Stati contraenti come «fondamentali» anche nel diritto interno (art. 1), dai mezzi e dalle modalità di tutela di tali diritti, rimessi ai singoli Stati aderenti. In caso di violazione, anche da parte di soggetti che agiscono nell’esercizio di funzioni pubbliche, l’art. 13 della Convenzione prevede il ricorso alla magistratura interna di ciascuno Stato, salvo l’intervento sussidiario della Corte di Strasburgo sui ricorsi individuali ai sensi dell’art. 34 della stessa Convenzione, e la conseguente condanna dello Stato inadempiente all’equa riparazione di cui all’art. 41. Nello stesso senso deporrebbe la previsione contenuta nell’art. 46 della Convenzione, a mente del quale «le Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti», escludendosi così ogni effetto immediatamente abrogativo di norme interne.

La Corte rimettente evidenzia, inoltre, che la legge 9 gennaio 2006, n. 12 (Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo), ha individuato nel Governo e nel Parlamento gli organi ai quali devono essere trasmesse le sentenze della Corte europea, in quanto unici legittimati a dare esecuzione agli obblighi che da esse discendono. Sottolinea, infine, che il disposto dell’art. 56 della Convenzione ammette la possibilità che l’applicazione della stessa possa non essere uniforme in tutto il territorio degli Stati aderenti, a fronte di «necessità locali», con la conseguenza che nel sistema della Convenzione, pur essendo precettivo il riconoscimento dei diritti garantiti nell’accordo per tutti gli Stati aderenti, le modalità di tutela e di applicazione di quei principi nei territori dei singoli Stati sono rimesse alla legislazione interna di ciascuno.

Risulterebbe chiara, pertanto, l’esclusione del potere di disapplicazione in capo ai singoli giudici; tanto più che nelle fattispecie riguardanti l’indennizzo espropriativo si porrebbe l’esigenza di assicurare copertura finanziaria alla modifica di sistema, conseguente alla scelta di un diverso criterio indennitario, stante la previsione dell’art. 81 Cost.

Il giudice a quo ribadisce, riprendendo le precedenti ordinanze della stessa Corte di cassazione, la ritenuta impossibilità di assimilare le norme della Convenzione EDU ai regolamenti comunitari ai fini di applicazione immediata nell’ordinamento interno (sull’argomento è richiamata Cass. 19 luglio 2002, n. 10542). E’ condiviso anche l’assunto che il richiamo contenuto nell’art. 6, par. 2, del Trattato di Maastricht, al rispetto dei «diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea […] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario», non esclude la diversità tra l’organo giurisdizionale preposto alla tutela di tali diritti (Corte di Strasburgo) e quello cui è invece demandata l’interpretazione delle norme comunitarie, cioè la Corte di giustizia del Lussemburgo, che ha negato la propria competenza in materia di diritti fondamentali (Corte di Giustizia, 29 maggio 1997, C. 199-95, Kremzow).

Del resto, aggiunge il rimettente, la stessa Corte costituzionale, prima delle modifiche degli artt. 46 e 56 della CEDU, apportate con il Protocollo n. 11, reso esecutivo in Italia con la legge n. 296 del 1997, sembrava aver assunto orientamenti non incompatibili con la diretta applicabilità delle norme della Convenzione (sono richiamate le sentenze n. 373 del 1992 e n. 235 del 1993). Solo successivamente, anche a seguito della novella degli artt. 111 e 117 Cost., il giudice delle leggi si sarebbe orientato «a dare rilievo indiretto alle norme convenzionali, come fonti di obblighi cui l’Italia è da tali norme vincolata» (sono richiamate la sentenza n. 445 del 2002 e l’ordinanza n. 139 del 2005).

In definitiva, il riconoscimento con carattere precettivo dei diritti tutelati dall’accordo sopranazionale non rileverebbe ai fini dell’abrogazione di norme interne contrastanti, fino a quando il legislatore interno non abbia specificato i rimedi a garanzia di detti diritti (è richiamata Cass. 12 gennaio 1999, n. 254). Nondimeno, prosegue il giudice a quo, i diritti tutelati dalla Convenzione EDU esistono sin dal momento della ratifica, o anche prima, se già garantiti dal diritto interno, sicché i successori degli originari titolari potranno chiederne la tutela al giudice nazionale una volta che sia stata modificata la disciplina interna.

La Corte rimettente osserva infine che, se pure il giudice italiano disapplicasse l’art. 5-bis, non potrebbe imporre come giusto indennizzo quello corrispondente al valore venale del bene espropriato, e questo perché, mentre in sede sopranazionale tale criterio è stato più volte considerato «l’unico di regola applicabile», nell’ambito interno la Corte costituzionale ha ritenuto che la nozione di «serio ristoro» sia compatibile con una riduzione del prezzo pieno del bene ablato, come sacrificio individuale dovuto alla pubblica utilità.

5.4. – Esclusa la possibilità di disapplicare l’art. 5-bis, la Corte di cassazione procede alla delibazione delle questioni preliminari riguardanti la qualificazione delle aree espropriate come edificabili, discendendo da tale qualificazione la rilevanza della norma censurata per la fattispecie in esame.

Riaffermata l’edificabilità delle aree espropriate, il giudice a quo ritiene «certamente rilevante» la questione di legittimità sollevata, dato che, nella espropriazione oggetto di causa, l’indennità è stata liquidata con i criteri di determinazione di cui all’art. 5-bis.

La Corte di cassazione evidenzia come la parte privata si dolga del fatto che, pure in assenza della riduzione del 40 per cento, l’indennità riconosciutale in base alla norma censurata non costituisce un serio ristoro della perdita subita. All’opposto, il ricorrente Comune di Montello lamenta che la Corte di merito ha computato il valore del soprassuolo ai fini della determinazione dell’indennità. Ciò dimostra, ad avviso della rimettente, che il giudizio principale non può essere definito prescindendo dall’applicazione dell’art. 5-bis.

5.5. – Con riferimento alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo procede all’esame delle pronunce con le quali la Corte costituzionale ha definito i giudizi aventi ad oggetto il menzionato art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992. Sono richiamate, in particolare, le sentenze n. 283 e n. 442 del 1993, nelle quali è stata esclusa l’illegittimità dei criteri di determinazione dell’indennità di esproprio dei suoli edificabili, sulla base del loro «carattere dichiaratamente temporaneo, in attesa di un’organica disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità» e giustificandoli per «la particolare urgenza e valenza degli “scopi” che […] il legislatore si propone di perseguire» nella congiuntura economica in cui versava il Paese (sentenza n. 283 del 1993). Come noto, il contenuto della norma è stato trasposto nell’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, che ha reso “definitivi” quei criteri di liquidazione dell’indennizzo, sicché la “provvisorietà” degli stessi, che aveva sorretto il giudizio di non fondatezza, può dirsi venuta meno.

Nella citata pronuncia n. 283 del 1993, la Corte costituzionale ha riconosciuto, a differenza della Corte europea, il carattere di principi e norme fondamentali di riforma economico-sociale alla disciplina dettata dal legislatore con l’art. 5-bis, e difatti ha ritenuto illegittima la norma in esame, per contrasto con gli artt. 3 e 42 Cost., soltanto nella parte in cui, per i procedimenti in corso, non prevedeva una «nuova offerta di indennità», la cui accettazione da parte dell’espropriato escludesse l’applicazione della riduzione del 40 per cento. Quanto alla applicazione retroattiva dell’art. 5-bis, il giudice delle leggi ha affermato che il principio dell’irretroattività delle leggi, contenuto nell’art. 11 disp. prel. cod. civ., non è recepito nella Costituzione, escludendo nel contempo il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. Diversamente oggi, a parere della rimettente, il principio del giusto processo, sancito dal novellato art. 111 Cost., garantirebbe anche la condizione di parità tra le parti, sicché appare necessario sottoporre la norma, anche per tale aspetto, ad un nuovo scrutinio di costituzionalità.

Assume il giudice a quo che la norma censurata, incidendo sulla liquidazione delle indennità nei procedimenti in corso, «anteriormente alla futura opposizione alla stima ancora non proponibile per ragioni imputabili all’espropriante» (è richiamata la sentenza n. 67 del 1990 della Corte costituzionale), ha determinato una ingerenza del legislatore nel processo a sfavore dell’espropriato. Questi, infatti, in assenza della predetta norma, avrebbe potuto pretendere e ottenere una maggiore somma, se i procedimenti amministrativi o giurisdizionali in corso fossero stati conclusi prima della relativa entrata in vigore.

Il rimettente richiama, in proposito, l’affermazione contenuta nella sentenza Scordino del 29 marzo 2006, secondo cui l’ingerenza del legislatore nei procedimenti in corso viola l’art. 6 della Convenzione, in rapporto all’art. 1 del primo Protocollo, poiché la previsione della perdita di una parte dell’indennità con efficacia retroattiva non risulta giustificata da una rilevante causa di pubblica utilità.

Quanto al merito del criterio di calcolo dell’indennità, contenuto nella norma censurata, il rimettente osserva come la Corte europea abbia ormai definitivamente affermato, con numerose pronunce, il contrasto con l’art. 1 del primo Protocollo dei ristori indennitari e risarcitori previsti per le acquisizioni lecite e illecite connesse a procedimenti espropriativi, con o senza causa di pubblica utilità. Ritiene la Corte rimettente, quindi, che la norma censurata debba essere nuovamente scrutinata alla luce del testo vigente del primo comma dell’art. 117 Cost., sul rilievo che l’intera normativa ordinaria, e dunque anche le norme previgenti alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), possa essere esaminata ed eventualmente dichiarata incostituzionale per contrasto “sopravvenuto” con i nuovi principi inseriti nella Carta fondamentale (è richiamata la sentenza n. 425 del 2004).

6. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la non fondatezza delle questioni, svolgendo considerazioni del tutto coincidenti con quelle sviluppate nel giudizio promosso con l’ordinanza del 29 maggio 2006 della Corte di cassazione (r.o. n. 402 del 2006). Pertanto, si richiama integralmente quanto sopra riportato al punto 2.

7. – Si è costituita in giudizio A.C., controricorrente e ricorrente in via incidentale nel giudizio a quo, la quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità delle questioni – dovendosi ritenere che spetti ai giudici nazionali disapplicare le norme interne in contrasto con quelle della Convenzione europea – ed in subordine per l’accoglimento delle questioni medesime.

7.1. – La parte privata ritiene che il contrasto tra norma interna e norma CEDU debba esser risolto con la disapplicazione della prima. In proposito è richiamato il Protocollo n. 11 della Convenzione, il quale ha riformulato il meccanismo di controllo istituito dalla stessa, stabilendo che i singoli cittadini degli Stati contraenti possano adire direttamente la Corte europea (art. 34 della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 11) e che «1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti. 2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei ministri che ne sorveglia l’esecuzione» (art. 46 della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 11).

La medesima parte privata ricorda come l’intero meccanismo di controllo si fondi sul principio di sussidiarietà, in virtù del quale la Corte europea «non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne» (art. 35 della Convenzione). Pertanto, i giudici nazionali sono tenuti ad applicare il diritto interno in modo conforme alla Convenzione, «spettando alla Corte europea, invece, in via sussidiaria e a seguito dell’esaurimento dei rimedi interni, verificare se il modo in cui il diritto interno è interpretato ed applicato produce effetti conformi ai principi della Convenzione».

A questo proposito, la parte privata sottolinea come la Risoluzione 1226 (2000) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa abbia affermato che gli Stati contraenti sono tenuti ad assicurare, tra l’altro, «l’applicazione diretta, da parte dei Giudici nazionali, della Convenzione e delle sentenze della Corte Europea che la interpretano e la applicano». Nella stessa direzione si muovono anche la Risoluzione Res(2004)3 del 12 maggio 2004 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, relativa alle sentenze che accertano un problema strutturale sottostante alla violazione, la Raccomandazione Rec(2004)5, di pari data, del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, relativa alla verifica di conformità dei progetti di legge, delle leggi vigenti e della prassi amministrativa agli standard stabiliti dalla Convenzione, nonché la Raccomandazione Rec(2004)6, di pari data, con cui il Comitato dei ministri ha ribadito che gli Stati contraenti, a seguito delle sentenze della Corte che individuano carenze di carattere strutturale o generale dell’ordinamento normativo o delle prassi nazionali applicative, sono tenuti a rivedere l’efficacia dei rimedi interni esistenti e, se necessario, ad instaurare validi rimedi, al fine di evitare che la Corte venga adita per casi ripetitivi.

La parte privata richiama, inoltre, il contenuto della sentenza 29 marzo 2006 della Corte di Strasburgo in causa Scordino contro Italia, in riferimento sia alla inadeguatezza del criterio generale di cui all’art. 5-bis, applicato indipendentemente dalla tipologia dell’opera che deve essere realizzata, sia all’effetto di interferenza del potere legislativo sul potere giudiziario, che si è determinato con l’applicazione della predetta norma ai giudizi in corso. Secondo la Corte europea tale effetto non può trovare giustificazione nelle ragioni di natura finanziaria che il Governo italiano ha prospettato nel ricorso alla Grande chambre. È inoltre richiamato il passaggio della menzionata pronunzia, ove sono citate le sentenze n. 223 del 1983, n. 283 e n. 442 del 1993, con le quali la Corte costituzionale ha invitato il legislatore ad adottare una disciplina normativa che assicuri «un serio ristoro» al privato, ed ha escluso l’esistenza di un contrasto tra l’art. 5-bis e la Costituzione «in considerazione della sua natura urgente e temporanea». Peraltro, osserva l’interveniente, poiché il criterio contenuto nella norma citata è stato trasfuso nel testo unico in materia di espropriazioni (d.P.R. n. 327 del 2001), la Corte di Strasburgo non ha mancato di rilevare come sia agevolmente prefigurabile la proposizione di numerosi e fondati ricorsi.

Tutto ciò premesso, se la conformità dell’ordinamento ai principi affermati nella sentenza citata deve essere assicurata dai giudici nazionali, come rilevato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nella richiamata Raccomandazione Rec(2004)5, e se la Corte europea ha accertato, con sentenza che costituisce «cosa giudicata interpretata», ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, che la norma interna rilevante è causa di violazione strutturale di una o più norme della Convenzione medesima, allora tale norma, a parere della parte privata, deve essere «disapplicata» dal giudice nazionale. La disapplicazione della norma interna contrastante sarebbe conseguenza diretta ed immediata del principio di sussidiarietà dell’art. 46 della stessa Convenzione, sicché, in definitiva, con riferimento al sistema CEDU si deve giungere all’affermazione di principi analoghi a quelli che la Corte costituzionale ha enucleato in relazione al diritto comunitario nella sentenza n. 170 del 1984.

La diversa conclusione cui è giunta la Corte rimettente contrasterebbe, tra l’altro, con l’assunto, affermato dalla medesima Corte, della vincolatività delle norme della Convenzione e della giurisprudenza della Corte europea.

Sulla base delle considerazioni sopra svolte, la difesa di A.C. conclude sollecitando una dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.

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