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Criminologia e Diritti fondamentali dell’Uomo

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Criminologia e Diritti fondamentali dell’Uomo

 

Indice:

Criminologia e Diritti dell’Uomo

Razzismo e Criminologia

Le motivazioni criminologiche dei genocidi

 

Criminologia e Diritti dell’Uomo

Negli Anni Duemila, la Criminologia europea e nordamericana ha iniziato ad indagare il rapporto tra scienze del crimine e Diritti fondamentali dell’Uomo. A tal proposito, uno dei principali problemi affrontati è quello della (non-)ubbidienza a norme giuridiche valide ancorché ingiuste.

Secondo Torodov (2001)[1], “l’ubbidienza alla legge è un dovere, ma […] nessun dovere ci vincolerebbe a leggi che non solo riducessero le nostre libertà legittime e si opponessero ad azioni che non avrebbero il diritto di vietare, ma che ci ordinassero di contrastare i principi eterni di giustizia e pietà, che l’uomo non può smettere di osservare senza disconoscere la propria natura […]. Qualsiasi legge che indebolisca la predisposizione dell’uomo ad offrire riparo a chiunque chieda asilo, non è una legge. Il governo […] deve rispettare nei cittadini questa generosità che li porta a compatire e soccorrere, senza porre domande, il debole colpito dal forte”.

Oppure ancora, la tassatività assoluta della pena carceraria è data per inamovibile dal Diritto Penale, ma nulla impedisce ai consociati di cercare alternative al trattamento penitenziario. Ad esempio,, con parole simili a quelle di Christie, Ceretti & Brunelli (2018)[2] sostengono che “la giustizia riparativa – di cui la mediazione reo-vittima costituisce il più conosciuto strumento operativo – è un modello di giustizia contraddistinto dal prendersi cura delle conseguenze negative prodotte da un fatto di reato, dal promuovere la rigenerazione dei legami sociali, a partire dalle ferite che l’illecito ha originato e dal favorire un ruolo attivo alle vittime, ai rei ed alle comunità, nella ricerca di possibili soluzioni per riparare il danno e per ricomporre la frattura sociale prodotta dal gesto deviante. Si tratta, dunque, di un paradigma che prova a superare la logica del castigo”.

In effetti, la mediazione penale sfugge alle chiavi di lettura tipiche della Giuspenalistica jure stricto. Il mediatore propone una riconciliazione tra il reo e la parte lesa e ciò viene a togliere cogenza, almeno in parte, alla sanzione carceraria classicamente e tradizionalmente intesa. Mediare significa presupporre, a-tipicamente e meta-normativamente, la non necessarietà automatica della reclusione, la quale cessa di essere il principale strumento di rieducazione dell’infrattore. In fondo, a ben pensarci, l’intero abolizionismo nega il Diritto Penale così come esso risulta nelle proprie rigide norme tipiche. Anzi, la mediazione di stampo abolizionistico, se applicata, è in grado di smantellare o, quantomeno, di diminuire l’obbligatorietà giuridica del carcere. Ad esempio, Borgomaneri (1997)[3] nota che il regime nazi-fascista applicava la pena detentiva attraverso norme giuridicamente valide, ancorché contrarie ai Diritti fondamentali dell’Uomo.

Un altro esempio di violazione semi-legale dei Diritti universali dell’essere umano è dato dal genocidio, giustificato da norme giuridiche profondamente contrarie al senso comune di giustizia. Di più, la Criminologia non ha mai approfondito seriamente la tematica degli stermini razziali; in tal senso, Yacoubian (2000)[4] ha acutamente osservato che “la Criminologia non si è interrogata a sufficienza sui genocidi e, in generale, sulle violazioni dei Diritti umani, che hanno visto interi popoli quali autori, ma anche quali vittime […]. Sulle tredici principali riviste scientifiche internazionali di Criminologia, dal 1990 al 1998, […] su 3138 Articoli pubblicati solo uno era dedicato al genocidio […] Quello che rimane il più pericoloso crimine contro l’umanità è praticamente ignorato da coloro che si dedicano allo studio e, presumibilmente, alla riduzione del crimine”. Oppure ancora, si ponga mente alla giustificazione ideologica della Shoah. Negli Anni Venti e Trenta del Novecento, in effetti, era sorta una pseudo-criminologia nazionalsocialista che ha incentivato e coperto i crimini contro le minoranze etniche e persino l’uso degli ebrei come cavie umane destinate ad un macello giuridicamente organizzato.

Pure in tal caso, il Diritto Penale venne strumentalizzato per finalità contrarie alla tutela della dignità umana. Addirittura, Goldhagen (2017)[5] evidenzia: “una stima attendibile dei perpetratori di atrocità [nei campi di concentramento nazisti] non è possibile […] ci furono, poi, i tanti che tacquero, gli apatici, i passivi, coloro che possiamo chiamare spettatori, distinguendoli dagli attivisti”. Celebre è pure la frase di Browning (1992)[6]: “la strada per Auschwitz era costruita sull’odio, ma lastricata di indifferenza”. Ognimmodo, è quantomai basilare notare che il genocidio nazionalsocialista degli ebrei era esplicitamente appoggiato e difeso da criminologi impegnati nella difesa della c.d. “razza ariana”. Di nuovo, dunque, si può notare la sussistenza di un Diritto valido, ancorché disumano e moralmente ripugnante.

Taluni Dottrinari hanno rimarcato che anche l’intero popolo tedesco partecipò, sebbene indirettamente, alla soluzione finale. Non soltanto i Giuristi ed i Criminologi sostennero l’orrore dei campi di concentramento, ma anche l’opinione pubblica. Salvo rare eccezioni di “resistenti”, consta, purtroppo, che la Shoah ebbe il consenso, più o meno esplicito, dei cittadini della Germania nazista.

Tant’è che Zimbardo (2008)[7] afferma che “si affaccia un’inquietante domanda: ma io, in quelle condizioni o in condizioni analoghe, cosa avrei fatto e cosa farei? Se molti furono coloro che commisero barbarie o che voltarono lo sguardo per non vedere, bisogna essere davvero ottimisti e davvero presuntuosi per pensare che noi saremmo stati fra i giusti. Potreste concluderne che voi non fareste come la maggior parte delle persone, che voi sareste, ovviamente, l’eccezione alla regola. Questa convinzione statisticamente irragionevole […] vi rende ancora più vulnerabili alle forze situazionali, perché sottovalutate il loro potere, così come sopravvalutate voi stessi”.

L’appoggio nazional-popolare al genocidio nazista è evidenziato pure da Bayard (2018)[8], a parere del quale “quando, su una popolazione di diversi milioni di persone, soltanto qualche migliaio decide di resistere, non ho ragione di pensare che avrei fatto parte di questo gruppo privilegiato”. Dunque, la Shoah fornisce un evidente esempio di una normativa giuridica apparentemente innocua, ma inaccettabile sotto il profilo della morale universale. Per conseguenza, si pone il problema di come non condannare e criminalizzare l’infrattore, il che è dimostrato pure nella fattispecie della lotta partigiana italiana contro il fascismo.

 

Razzismo e Criminologia

L’anomalia che accomuna tutti i genocidi, tanto nella Germania nazista quanto in Rwanda, consta nel fatto che intere popolazioni si trasformano in un gruppo criminale organizzato. Infatti, i responsabili degli stermini delle minoranze etniche erano e sono semplici civili che, in maniera improvvisa, uniscono militarmente le loro forze per commettere omicidi di massa. Ad esempio, non va dimenticata nemmeno la sanguinosa guerra di Bosnia. Oppure ancora, è utile pure la fattispecie delle foibe in Istria. Anche in tal caso, gli esecutori materiali sono stati uomini dalla vita apparentemente normale, salvo il fatto di avere avuto la sventura di doversi arruolare in un esercito per la difesa dei confini nazionali durante un evento bellico non preventivato.

Senza alcun dubbio, l’evento scatenante di tutti i crimini contro l’umanità è il “razzismo”, inteso come rifiuto deliberato di riconoscere la dignità di tutti gli appartenenti alla “casa comune” umana. Il primo passo, più o meno consapevole, verso la discriminazione razziale consiste nell’individuare un sotto-gruppo etnico reputato come pericolosamente diverso.

In secondo luogo, ogni ideologia razzista manifesta un’ossessiva ripugnanza nei confronti di eventuali mescolanze biologiche e/o culturali con una razza considerata “inferiore”. A tal proposito, giustamente, Taguieff (1994)[9] ha osservato che “rispetto a non troppo tempo fa, oggigiorno parrebbe meno in voga il pregiudizio basato sulle caratteristiche biologiche, e si potrebbe, piuttosto, parlare di altrismo, perché, in fondo, questa è l’essenza: considerare l’altro diverso da noi e minaccioso. La sostanza, però, è la solita: una distinzione in cui la differenza non suscita interesse e desiderio di conoscenza, bensì gerarchizzazione e ostilità”

Parafrasando Taguieff (ibidem)[10] si potrebbe dire che, in epoca attuale, si è passati da un “razzismo etnico-biologico” ad una “xenofobia culturale”. Interessante è pure Taguieff (1999)[11], il quale espone il credo razzista con queste parole sintetiche: “noi siamo superiori, loro inferiori, fino ad essere de-umanizzati o demonizzati. Quel che accomuna è la messa in questione dell’unità del genere umano”.

Allucinanti sono pure le parole di Lombroso (1888), a parere del quale “la rivelazione che vi sono esseri, come i delinquenti nati, nati pel male, organizzati pel male, riproduzioni atavistiche non solo degli uomini più selvaggi, ma perfino degli animali più feroci, dei carnivori, dei rosicchianti, lungi, come si pretende, dal doverci rendere più compassionevoli verso di loro, ci corazza contro ogni pietà, poiché essi non appaiono più nostri simili”. Siffatte, ripugnanti affermazioni di Lombroso (ibidem)[12] anticipano l’ideologia nazi-fascista, la cui peculiarità pseudo-culturale era l’animalizzazione delle minoranze. Donde, la giustificazione dell’eliminazione fisica dell’“altro”, soppresso senza troppe remore, in tanto in quanto ridotto ad una bestia socialmente pericolosa.

Le folli teorie lombrosiane sono assai simili a quelle praticate dalla criminologia nazionalsocialista, per la quale la criminogenesi dipendeva, sotto il profilo eziologico, da tare psico-fisiche ereditarie.

Ad esempio, nel 1924, il Ministro della giustizia bavarese fondò un apposito dipartimento per lo studio dei difetti mentali e corporali dei pregiudicati e dei loro ascendenti/discendenti. Tale schedatura differenziava i detenuti o gli ex detenuti in cinque categorie: criminali comuni, psicopatici, delinquenti sessuali, omosessuali e comunisti. Sempre in Baviera, dal 1932, si era individuata una c.d. “razza subumana” composta da “persone spiritualmente e moralmente inferiori [dunque] asociali”. Come si può notare, già nella Criminologia tedesca pre-nazista, la criminogenesi aveva cause scatenanti di matrice bio-psichica anziché socio-ambientale e sarà proprio tale postulato erroneo a costituire il prodromo dei campi di concentramento, le cui camere a gas sopprimevano pure gli epilettici e persone con sindrome di down. Più tardi, la “soluzione finale” venne applicata ad altri “delinquenti nati”, ovverosia ebrei, sinti, rom, malati mentali, contestatori, vagabondi, prostitute, piccoli criminali ed omosessuali.

Dunque, la Criminologia filo-nazista dilatava a dismisura la figura del “deviante”, inteso, tuttavia, non come un infrattore da rieducare, bensì come un nemico della società dei “puri”. In effetti, Friedlander (1997)[13] riferisce che, nella letteratura medica nazista, il lemma “asozial” indicava “esseri umani con un atteggiamento mentale ereditario ed irreversibile, i quali, a causa di tale natura, sono propensi all’alcolismo ed all’immoralità, sono entrati ripetutamente in conflitto con enti statali e tribunali e, dunque, si presentano come privi di freni e minacciosi per l’umanità”. La definizione testé citata svela le conseguenze nefaste dell’approccio biologico lombrosiano alla criminalità. Predicare la sussistenza di tare ereditarie costituisce l’anticamera di un razzismo violento che sopprime esseri umani ormai “animalizzati”, dunque privati di ogni dignità.

Nel settennato 1939-1945, l’AG tedesca comminò 16.000 condanne alla pena capitale. Roland Freisler, presidente del Tribunale del popolo per i reati politici, pronunziò, egli solo, ben 2.600 condanne a morte. Dall’Agosto 1942, circa 14.000 cc.dd. “delinquenti abituali” venero soppressi nei campi di concentramento.

Come prevedibile, Torodov (ibidem)[14] commenta tali statistiche asserendo che “a prendere tali decisioni erano dei tribunali, ma si può parlare di giustizia?”. Analogamente, Müller-Hill (1988)[15] nota: “è suggestivo che il Dr. Adolf Würth, anni dopo, in un’intervista in cui gli si chiedeva conto del coinvolgimento nello sterminio degli zingari, rispose che ciò accadeva in un contesto legale, aggiungendo: tutto ciò che è prescritto dalla legge è legale”. Altrettanto acuta è l’osservazione di Goldhagen (ibidem)[16], ovverosia: “legalità e moralità possono non coincidere. Nella sola Mauthausen, e nel solo arco di tempo novembre-dicembre 1942, il tasso di moralità dei detenuti in custodia cautelativa fu del 35 %”. Pertanto, Müller-Hill (ibidem)[17] e Goldhagen (ibidem)[18] pongono, sebbene implicitamente, la questione dell’esistenza di una serie di Diritti dell’Uomo, inviolabili, perenni e di rango precettivo superiore alle singole normazioni statali.

Esiste pure una “Human Criminology”, meta-temporale e meta-normativa, che trascende gli eventuali abusi di ciascuna specifica realtà ordinamentale nazionale. L’invito dei predetti Autori è quello di distinguere tra legalità e moralità. Dunque, va rigettata la nozione kelseniana di una norma giuridica “pura”, ossia assolutizzata, asettica e avulsa dal contesto dei “Diritti umani”.

D’altronde, anche il Tribunale di Norimberga ha applicato norme transnazionali, reputate superiori alla legalità formalistica dell’Ordinamento giuridico fondato dal nazismo. Pertanto, non è ubbidibile un precetto normativo che violi la tutela internazionalistica della dignità suprema dell’essere umano. Parimenti, negli Anni Novanta del Novecento, la Corte internazionale dell’Aja, nei Procedimenti a carico dei criminali serbi, ha ritenuto non-cogenti gli ordini militari finalizzati alo sterminio della minoranza croata. Grazie alla Criminologia “umanitaria” è stata riconosciuta la validità perenne e superiore delle leggi universali a tutela della persona umana.

Uno dei corollari spontanei del razzismo etnico-biologico è l’eugenetica. Ad esempio, nel Novecento, zingari ed ebrei vennero percepiti alla stregua di razze inferiori in grado di contaminare la c.d. “razza ariana” tedesca. Eliminare fisicamente tali due minoranze era indispensabile per evitare eventuali incroci destabilizzanti. Hitler (2017)[19] in persona affermava che “gli zingari hanno caratteristiche delinquenziali […] Gli ebrei sono parassiti, sanguisughe, vampiri, fraudolenti, connotati da una sfrenata sessualità, un popolo sfruttatore, composto da briganti […]. Gli zingari sono vagabondi, truffatori, mendicanti e, se donne, indovine. In ogni caso, ebrei e zingari vanno identificati come intrinsecamente criminali”.

Pure Ziccardi (2016)[20] ha catalogato che, sui quotidiani italiani contemporanei, i rom sono qualificati con gli attributi ricorrenti di “canaglie ...pigri … vanitosi … assassini”. Inoltre, come riferito da Stangneth (2017)[21], il criminologo filo-nazista Johann von Leers parlava espressamente, nei propri corsi universitari, di “natura criminale degli ebrei”.

Lombroso non era particolarmente approfondito nella Criminologia nazionalsocialista; tuttavia, i presupposti “bio-criminologici” di questo Autore italiano sono i medesimi di quelli fondanti il nazismo. In particolar modo, tanto in Lombroso, quanto nelle ideologie hitleriane, prevalgono stereotipi come il determinismo bio-psichico, l’esaltazione della razza “superiore” e la non rieducabilità carceraria del c.d. “delinquente nato”. Tuttavia, ad onor del vero, il regime nazista costrinse all’esilio nomi eccellenti della Criminologia novecentesca, come, ad esempio, Mannheim, Radzinowicz, von Hentig, Rusche e Kirchheimer. In ogni caso, anche se non si possono accusare Lombroso e Ferri di filo-nazismo, tuttavia rimane la pericolosità delle posizioni scientifiche bio-deterministe. Dal presupporre tare ereditarie al genocidio, il passo è breve. Una Criminologia sana e democratica deve rigettare la ratio della “razza suprema”.

Inoltre, parlare di delinquenza congenita apre senza dubbio la strada a posizioni ambigue e decisamente xenofobe. Piuttosto, a parere di chi redige, il Criminologo ha il dovere di imputare la devianza anti-giuridica all’insufficienza qualitativa delle agenzie di controllo.

 

Le motivazioni criminologiche dei genocidi

Acutamente, Merzagora (2019)[22] osserva che “il fenomeno più studiato è probabilmente quello del nazismo, per il quale i perché proposti sono stati molti […]. È poi ovvio che, per vicende che vedono coinvolti interi popoli, non bastano spiegazioni in termini psicologici, ma ne occorrono di storiche, sociali ed economiche”. In effetti, a parere di chi scrive è risibile il tentativo di taluni di “psicanalizzare” o, comunque, di “iper-psicologizzare” eventi criminosi di matrice politico-collettiva. Secondo Merzagora (ibidem)[23] i delitti nazisti, durante la seconda guerra mondiale, sono spiegabili alla luce di almeno quattro gruppi di “motivi personologici”, ovverosia:

  1. autoritarismo/conformismo/de-responsabilizzazione
  2. sordità per la coscienza e negligenza per l’autonomia di giudizio
  3. altrismo
  4. idealismo pervertito

Il gruppo di motivi sub 1) (autoritarismo/conformismo/de-responsabilizzazione) è emblematicamente sintetizzato in Gilbert (2005)[24], ossia “Rudolf Hoess, comandante di Auschwitz, racconta, nel processo di Norimberga: nell’estate del 1941 sono stato convocato da Himmler. Egli mi ha spiegato che il Führer aveva ordinato l’Endlösung (soluzione finale) della questione ebraica. Era nostra responsabilità portare a termine il compito […]. Il mio compito era di gestire tutte le attività connesse. Himmler sosteneva che era necessario agire per tempo, perché altrimenti gli ebrei avrebbero sterminato i tedeschi. Per questo, era necessario ignorare ogni umana considerazione e svolgere questo compito ad ogni costo […]. Non avevo nulla da dire, potevo solo rispondere Jawohl”.

In questo passo tratto da Gilbert (ibidem)[25], i lemmi “il Führer aveva ordinato” evidenziano il motivo personologico dell’”autoritarismo”. Segue il “conformismo”, sintetizzato dalla frase “non avevo nulla da dire”. Infine, la “de-responsabilizzazione” è palese nel duplice rinvio gerarchico al Führer, per il tramite del superiore Himmler. Anzi, lo “Jawohl” finale esprime bene l’intero trittico “autoritarismo/conformismo/de-responsabilizzazione”. L’ordine militare, nella fallimentare auto-difesa di Hoess, dovrebbe avere una precettività scriminante a beneficio del soldato di grado inferiore.

Il gruppo dei motivi personologici composto da “autoritarismo/conformismo/de-responsabilizzazione” è presente pure nelle parole del feldmaresciallo Keitel al processo di Norimberga; egli, come riportato sempre da Gilbert (ibidem)[26], disse: “per un soldato, gli ordini sono ordini. E, infatti, io ero soltanto uno strumento per soddisfare i desideri di Hitler [...[. Mi limitavo a trasmettere gli ordini del Führer e a verificare che fossero eseguiti”.

Di nuovo, Gilbert (ibidem)[27] pone il problema della (non) cogenza di un ordine militare contrario ai Diritti fondamentali dell’Uomo. Il declino d’ubbidienza si impone di fronte alla potenziale commissione delegata di crimini contro l’umanità. Ciò vale pure per la ratio sub 2) (sordità per la coscienza e negligenza per l’autonomia di giudizio). Infatti, come citato in Nielsen & Zizolfi (2005)[28], il criminale di guerra Hans Frank ebbe a dire: “io non ho una coscienza; Adolf Hitler è la mia coscienza”.

Analogamente, Eichmann (v. Crescenzi, 2016)[29] “baserà gran parte della propria difesa proprio sulla necessità di ubbidire”. Tant’è che Bauman (2010)[30] reputa che i graduati nazionalsocialisti fossero muniti di una “coscienza sostitutiva” che impediva loro l’”autonomia di giudizio” analizzata da Merzagora (ibidem)[31].

Parimenti, Adorno & Frenkel-Brunswik & Levinson & Sanford (1973)[32] affermano, con afferenza ai soldati nazisti, la sussistenza di una “sindrome autoritaria, cioè un insieme di tratti caratterizzati da un atteggiamento remissivo nei confronti delle persone potenti e, nel contempo, prepotente verso chi era reputato più debole. È quello che i tedeschi chiamano il ciclista, cioè colui il quale china la testa di fronte ai superiori, ma, come il ciclista, preme sui pedali, così schiaccia i subordinati”. La “negligenza per l’autonomia di giudizio” è ben evidente in Eichmann, il quale, nel processo di Gerusalemme, riferì: “sentivo che la mia vita sarebbe stata difficile senza un capo […] e, in generale, quanto ho commesso è stato dovuto all’ubbidienza ed alla sottomissione a Hitler” (Arendt, 1963)[33]

In ogni caso, la ratio fondante dell’agire dei nazisti era l’estremo “etnocentrismo”, definito da Kurlander (2018)[34] come “un atteggiamento generale nei confronti di tutti gli estranei […]. L’etnocentrismo ha la tendenza a sussumere i gruppi diversi in categorie omogenee, L’etnocentrismo è alla base della tendenza a vedere e pre-giudicare un soggetto in quanto esemplare in un gruppo e non individuo a sé stante; [l’etnocentrismo] è alla base, forse e soprattutto, della non identificazione con l’umanità nel suo complesso”. Né va dimenticato che l’”autoritarismo” nazista si basava pure sulla convinzione pseudo-mistica della superiorità della razza ariana, destinata dagli dei a soggiogare l’intera umanità. Dunque, l’”altro” veniva degradato al rango di un animale non degno di rispetto.

È utile anche l’analisi del c.d. “altrismo”.

Secondo l’italiofono Ingrao (2012)[35], “l’altrismo distingue tra noi e loro, con la convinzione che loro siano inferiori. Un fattore psicologico che rende possibile l’incrudelire è stato descritto come la riduzione animalesca dell’avversario, o definito contro-antropomorfismo. Si tratta della tendenza a negare le qualità più specificamente umane alle proprie vittime, per aggirare quella [spontanea, ndr] forza inibente l’aggressività che è costituita dall’identificazione.

Il contro-antropomorfismo si pratica ogniqualvolta si paragonano taluni umani ad animali: scimmie, ratti, serpenti, pidocchi […]. Ad esempio, per gli statunitensi in guerra, nel 1944, potevano essere animali anche i tedeschi o i giapponesi, di cui il presidente Truman, all’indomani del bombardamento atomico di Nagasaki, ebbe a dire: “quando si ha a che fare con una bestia, bisogna trattarla come una bestia”. Anzi, Torodov (ibidem)[36] precisa che “il contro-antropomorfismo e la de-umanizzazione sono l’ennesima tecnica di neutralizzazione o di disimpegno morale, una strategia messa in atto per svincolarsi dagli standards morali acquisiti durante il processo socializzativo, che consente di mettere a tacere gli imeprativi etici e di sgnaciare il soggetto dalla responsabilità per l’azione. Ma non basta ancora. Gli altri non sono solo diversi, non sono solo inferiori, sono anche pericolosi. […]. Se sono malvagi e pericolosi, ucciderli è giusto e doveroso, è una buona azione”.

Del pari, Zimbardo (ibidem)[37] evidenzia che “si può mettere in folle la moralità […] [Per farlo] occorre, innanzitutto, trovare giustificazioni morali e ideologiche che nobilitino le proprie azioni, anche attraverso il confronto vantaggioso con quelle degli altri, sempre visti e descritti come più malvagi. Bisogna poi minimizzare o trascurare le conseguenze della propria condotta. Infine, bisogna ricostruire la percezione che abbiamo delle vittime, attribuendo loro ogni colpa”. Similmente, Goldhagen (ibidem)[38] afferma che, nel contesto dei genocidi, “il gruppo delle vittime viene deumanizzato – considerandolo inferiore, oppure demonizzato – quindi reputato fonte di minaccia, o entrambe le cose”.

 

[1]Torodov, Memoria del male, tentazione del bene, traduzione italiana Garzanti, Milano, 2001

[2]Ceretti & Brunelli, Giustizia riparativa e mediazione reo-vittima, in Danovi & Ferraris (a cura di), ADR. Una giustizia complementare, Giuffrè, Milano, 2018

[3]Borgomaneri, Hitler a Milano. I crimini di Theodor Saevecke capo della Gestapo. Datanews, Roma, 1997

[4]Yacoubian, The (in)significance of genocidal behavior to the discipline of criminology, in Crime, Law and social Change, 34, 2000

[5]Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, traduzione italiana Mondadori, Milano, 2017

[6]Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia, traduzione italiana Einaudi, Torino, 1992

[7]Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? Traduzione italiana Raffaello Cortina, Milano, 2008

[8]Bayard, Sarei stato carnefice o ribelle? Traduzione italiana Sellerio, Palermo, 2018

[9]Taguieff, La forza del pregiudizio, traduzione italiana Il Mulino, Bologna, 1994

[10]Taguieff (ibidem), op. cit.

[11]Taguieff, Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, traduzione italiana Raffaello Cortina, Milano, 1999

[12]Lombroso (ibidem), op. cit.

[13]Friedlander, Le origini del genocidio nazista, Dall’eutanasia alla soluzione finale, traduzione italiana Editori Riuniti, Roma, 1997

[14]Torodov (ibidem), op. cit.

[15]Müller-Hill, Murderous Science: Elimination by Scientific Selection of Jews, Gypsies and Others, Germany 1933-1945, Oxford University Press, Oxford, 1988

[16]Goldhagen (ibidem), op. cit.

[17]Müller-Hill (ibidem), op. cit.

[18]Goldhagen (ibidem), op. cit.

[19]Hitler, Il libro segreto di Hitler. La mia vita, i miei discorsi, traduzione italiana Edizioni Clandestine, Massa, 2017

[20]Ziccardi, L’odio online. Violenza verbale e ossessione in rete, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2016

[21]Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, traduzione italiana LUISS University Press, Roma, 2017

[22]Merzagora, La normalità del male. La criminologia dei pochi, la criminalità dei molti, Raffaello Cortine Editore, Milano, 2019

[23]Merzagora (ibidem), op. cit.

[24]Gilbert, Nelle tenebre di Norimberga. Parla lo psicologo del processo, traduzione italiana Società Editrice Internazionale, Torino, 2005

[25]Gilbert (ibidem), op. cit.

[26]Gilber (ibidem), op. cit.

[27]Gilbert (ibidem), op. cit.

[28]Nielsen & Zizolfi, Rorschach a Norimberga, I gerarchi nazisti al processo fra memoria storica e riflessione psicoanalitica, traduzione italiana Franco Angeli, Milano, 2005

[29]Crescenzi, (a cura di), Processo Eichmann. Imputato Eichmann. Interrogatorio e controinterrogatorio dello spedizioniere della morte, Mattioli, Fidenza, 2016

[30]Bauman, Modernità e olocausto, traduzione italiana Il Mulino, Bologna, 2010

[31]Merzagora (ibidem), op. cit.

[32]Adorno & Frenkel-Brunswik & Levinson & Sanford, La personalità autoritaria, traduzione italiana Edizioni di Comunità, Milano, 1973

[33]Arendt, La banalità del male, traduzione italiana Feltrinelli, Milano, 1963

[34]Kurlander, I mostri di Hitler. La storia soprannaturale del Terzo Reich, traduzione italiana Mondadori, Milano, 2018

[35]Ingrao, Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS, Einaudi, Torino, 2012

[36]Torodov (ibidem), op. cit.

[37]Zimbardo (ibidem), op. cit.

[38]Goldhagen (ibidem), op. cit.