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Diffamazione - Cassazione Penale: la diffamazione a mezzo stampa può essere punita con una pena detentiva

La Corte Suprema ha stabilito che deve ritenersi legittima, anche in relazione all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’inflizione della pena detentiva in ipotesi di condanna per il delitto di diffamazione a mezzo stampa commesso mediante pubblicazione non già di un giudizio (in ipotesi, denigratorio) nei confronti di una persona o di una condotta umana, bensì di una notizia pacificamente falsa.

Nel caso in esame, il sindaco di Quartu Sant’Elena, sua moglie e il direttore generale del comune venivano discreditati, anche in relazione ai loro ruoli istituzionali, dal contenuto di plurimi articoli del periodico “Quartu Sera”. Il direttore responsabile del giornale era imputato del reato di diffamazione di fronte al giudice territoriale, il quale lo condannava alla pena di 10 mesi di reclusione per il delitto di diffamazione aggravata a mezzo stampa. Il giudizio di secondo grado confermava la pena.

In particolare, il giudice di merito motivava la propria decisione sull’estrema gravità delle false accuse mosse dall’imputato alle persone offese.

Il direttore del periodico proponeva ricorso per Cassazione al fine di rimettere in discussione la scelta della pena detentiva e più in generale l’entità del trattamento sanzionatorio. Il ricorrente lamentava la violazione, fra altri, dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e richiamava la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in merito.

Secondo la Corte europea per i diritti dell’uomo “deve intendersi precluso agli Stati membri di adottare misure punitive atte a dissuadere gli organi di stampa dall’esercizio delle proprie funzioni di controllo”, perciò, il ricorso alla sanzione detentiva poteva intendersi giustificato solo in ipotesi eccezionali. L’argomentazione difensiva si basava sul “numero assai contenuto” delle persone offese e sulla limitata distribuzione territoriale degli articoli in questione, per sostenere l’assenza in questo caso di una ipotesi eccezionale giustificante la pena detentiva.

La Corte ricorda innanzitutto che la graduazione della pena complessiva rientra nella discrezionalità del giudice di merito, potendosi avere un sindacato sulla quantificazione soltanto allorquando la determinazione in concreto della pena sia stata effettuata in limiti superiori a quelli edittali.

Sulla questione della compatibilità con la libertà di espressione di cui all’articolo 10 della Convenzione, la stessa Corte europea ha riconosciuto nella materia in esame la perdurante legittimità di un trattamento sanzionatorio detentivo, nella ricorrenza di ipotesi eccezionali connotate dalla lesione, arrecata attraverso un mezzo di informazione, di altri diritti fondamentali.

Nel caso di specie, i diritti lesi dall’azione diffamatoria non sono solo quelli dei soggetti direttamente offesi, ma, data l’attestata falsità delle notizie, è pregiudicato anche lo scopo di informazione della collettività proprio della stessa libertà di opinione.

La Corte EDU nel caso Belpietro c. Italia ha ulteriormente chiarito che il diritto del giornalista alla libertà d’espressione è tutelato a condizione che egli agisca «in buona fede, sulla base di fatti correttamente riportati, e fornisca informazioni “affidabili e precise” nel rispetto dell’etica giornalistica».

In conclusione, l’indiscutibile falsità nella rappresentazione delle notizie apparse sugli articoli in oggetto preclude in radice qualunque spazio di tutela ai sensi del citato articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La Sezione Penale della Corte di Cassazione rigetta, dunque, il ricorso e condanna il giornalista al pagamento di un’ammenda per colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, oltre che delle spese processuali.

(Corte di Cassazione - Sezione Quinta Penale, Sentenza 28 settembre 2015, n. 39195)

La Corte Suprema ha stabilito che deve ritenersi legittima, anche in relazione all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’inflizione della pena detentiva in ipotesi di condanna per il delitto di diffamazione a mezzo stampa commesso mediante pubblicazione non già di un giudizio (in ipotesi, denigratorio) nei confronti di una persona o di una condotta umana, bensì di una notizia pacificamente falsa.

Nel caso in esame, il sindaco di Quartu Sant’Elena, sua moglie e il direttore generale del comune venivano discreditati, anche in relazione ai loro ruoli istituzionali, dal contenuto di plurimi articoli del periodico “Quartu Sera”. Il direttore responsabile del giornale era imputato del reato di diffamazione di fronte al giudice territoriale, il quale lo condannava alla pena di 10 mesi di reclusione per il delitto di diffamazione aggravata a mezzo stampa. Il giudizio di secondo grado confermava la pena.

In particolare, il giudice di merito motivava la propria decisione sull’estrema gravità delle false accuse mosse dall’imputato alle persone offese.

Il direttore del periodico proponeva ricorso per Cassazione al fine di rimettere in discussione la scelta della pena detentiva e più in generale l’entità del trattamento sanzionatorio. Il ricorrente lamentava la violazione, fra altri, dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e richiamava la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in merito.

Secondo la Corte europea per i diritti dell’uomo “deve intendersi precluso agli Stati membri di adottare misure punitive atte a dissuadere gli organi di stampa dall’esercizio delle proprie funzioni di controllo”, perciò, il ricorso alla sanzione detentiva poteva intendersi giustificato solo in ipotesi eccezionali. L’argomentazione difensiva si basava sul “numero assai contenuto” delle persone offese e sulla limitata distribuzione territoriale degli articoli in questione, per sostenere l’assenza in questo caso di una ipotesi eccezionale giustificante la pena detentiva.

La Corte ricorda innanzitutto che la graduazione della pena complessiva rientra nella discrezionalità del giudice di merito, potendosi avere un sindacato sulla quantificazione soltanto allorquando la determinazione in concreto della pena sia stata effettuata in limiti superiori a quelli edittali.

Sulla questione della compatibilità con la libertà di espressione di cui all’articolo 10 della Convenzione, la stessa Corte europea ha riconosciuto nella materia in esame la perdurante legittimità di un trattamento sanzionatorio detentivo, nella ricorrenza di ipotesi eccezionali connotate dalla lesione, arrecata attraverso un mezzo di informazione, di altri diritti fondamentali.

Nel caso di specie, i diritti lesi dall’azione diffamatoria non sono solo quelli dei soggetti direttamente offesi, ma, data l’attestata falsità delle notizie, è pregiudicato anche lo scopo di informazione della collettività proprio della stessa libertà di opinione.

La Corte EDU nel caso Belpietro c. Italia ha ulteriormente chiarito che il diritto del giornalista alla libertà d’espressione è tutelato a condizione che egli agisca «in buona fede, sulla base di fatti correttamente riportati, e fornisca informazioni “affidabili e precise” nel rispetto dell’etica giornalistica».

In conclusione, l’indiscutibile falsità nella rappresentazione delle notizie apparse sugli articoli in oggetto preclude in radice qualunque spazio di tutela ai sensi del citato articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La Sezione Penale della Corte di Cassazione rigetta, dunque, il ricorso e condanna il giornalista al pagamento di un’ammenda per colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, oltre che delle spese processuali.

(Corte di Cassazione - Sezione Quinta Penale, Sentenza 28 settembre 2015, n. 39195)