x

x

Pena detentiva e diffamazione

da nuovi orizzonti interpretativi a differenti prospettive normative
Sydney
Ph. Antonio Capodieci / Sydney

Abstract

Il presente elaborato affronta il tema della diffamazione a mezzo stampa, a partire dall’analisi della disciplina normativa.

Segue un approfondimento degli approdi della giurisprudenza comunitaria e nazionale in materia e dei profili di criticità sottoposti al vaglio della Corte Costituzionale, in prospettiva di una rielaborazione delle fattispecie incriminatrici in esame.

This paper deals with the issue of press defamation, starting from an analysis of the legal framework.

This is followed by a stud of the approaches of Community and national case law on the subject and of the critical profiles submitted to the scrutiny of the Constitutional Court, in view of a reworking of the criminal matter under consideration.

 

Indice:

L’inquadramento normativo

La libera manifestazione del pensiero nelle forme del diritto di critica e di cronaca

La libertà di espressione nell’ordinamento comunitario

Il punto di vista della giurisprudenza comunitaria sulla proporzionalità delle sanzioni

I tentativi di modifica della disciplina interna

Ipotesi di compatibilità della pena detentiva con la libertà di espressione

La questione di legittimità costituzionale

 

L’ inquadramento normativo

Nell’ordinamento giuridico italiano la diffamazione[1], quale reato contro l’onore, previsto e punito dall’art. 595 c.p., sanziona la condotta di chi, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione.

Dalla lettura della relazione al codice penale del 1930 emerge come il legislatore abbia inteso attribuire una duplice valenza al concetto di onore affermando che «Inteso in senso soggettivo, esso si identifica con il sentimento che ciascuno ha della propria dignità morale, e designa quella somma di valori morali che l’individuo attribuisce a se stesso […]. Inteso, invece, in senso oggettivo, è la stima o l’opinione che gli altri hanno di noi; rappresenta cioè il patrimonio morale che deriva dalla altrui considerazione e che, con termine chiaramente comprensivo, si definisce reputazione. In tal guisa è agevole stabilire che il sentimento personale dell’onore viene leso con fatti immediatamente sensibili alla persona, […] cioè con offese pronunciate alla presenza del soggetto passivo; mentre la reputazione può essere lesa con divulgazione presso gli altri di offese che comunque la sminuiscano»[2].

A fronte di una apparente linearità interpretativa, il bene giuridico in questione è stato oggetto di plurime riflessioni che hanno condotto a diverse opzioni ermeneutiche.

Dal dato letterale della norma emerge l’adesione ad una concezione empirica e fattuale dell’onore[3], in quanto la condotta incriminata viene espressamente descritta quale forma di offesa alla reputazione, il che risulta essere chiara espressione dell’intento del legislatore di tutelare il riflesso oggettivo dell’onore.

Una siffatta interpretazione del bene giuridico tutelato ha determinato una relativizzazione del concetto di onore, del tutto dipendente dall’autovalutazione del soggetto passivo, con conseguente emersione di un vuoto di tutela in una pluralità di situazioni.

Invero, nelle ipotesi in cui un soggetto abbia una solida considerazione di se stesso o, al contrario, qualora si ritenga non degno di onore o risulti sottostimato, non si appalesa la possibilità che si configuri una lesione dell’onore.

In una diversa prospettiva, costituzionalmente orientata, ciascun individuo risulta meritevole di tutela in un’ottica garantista, per cui si perviene ad una concezione normativa[4] dell’onore, la cui essenza consiste «nel considerare l’onore non più come sentimento o stima, ma come valore. […] L’onore, allora, apparterrebbe al mondo dei valori e non a quello dei fatti»[5] e, di conseguenza, a ciascun uomo, in virtù del valore universale della dignità dell’essere umano.

Occorre all’uopo considerare come la dottrina[6] e la giurisprudenza[7] abbiano rinvenuto un addentellato normativo del concetto di onore nell’art. 2 Cost., in virtù della clausola aperta che lo contraddistingue, e nell’art. 3 Cost.[8], includendo il bene giuridico nell’alveo dei diritti fondamentali dell’individuo.

È indubbio che l’avvento della Carta costituzionale ha reso necessario un raffronto tra la nozione di onore e i diritti in essa tutelati, in particolar modo la libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost., che ha dato luogo ad un’ampia produzione giurisprudenziale, nelle declinazioni del diritto di cronaca e del diritto di critica.

In rapporto a tali situazioni, alle quali l’ordinamento riconosce tutela giuridica, l’art. 595 c.p. prevede al comma terzo la circostanza aggravante della diffamazione a mezzo stampa o mediante altro mezzo di pubblicità, sanzionata con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa fino a 516 euro.

La ratio dell’inasprimento sanzionatorio si rinviene nell’intento del legislatore di contrastare fenomeni caratterizzati da una particolare idoneità lesiva delle modalità di realizzazione della condotta.

L’evoluzione culturale e tecnologica ha portato con sé una vera e propria rivoluzione copernicana della comunicazione, della quale è senza dubbio apprezzabile la capacità diffusiva dei mezzi utilizzati, in particolare dei siti internet e dei social network, vista l’indeterminata platea di utilizzatori delle varie piattaforme.

Non può negarsi come il rovescio della medaglia nasconda delle insidie, tra le quali una proliferazione di modalità alternative di realizzazione dei reati e l’introduzione di nuove fattispecie idonee a contrastare fenomeni nascenti.

Occorre considerare che la disciplina della diffamazione a mezzo stampa[9] risulta integrata dall’art. 13 della legge n. 47 del 1948 che prevede l’aggravante del reato commesso con l’attribuzione di un fatto determinato, cui consegue l’applicazione della pena della reclusione da uno a sei anni congiuntamente alla pena pecuniaria.

Con la successiva l. n. 223 del 1990 l’ipotesi in questione è stata estesa alla radio e alla televisione, sia pubblica che privata, al fine di evitare che potessero porsi criticità in ragione di una irragionevole disparità di trattamento.

Ciò che rileva è l’alternatività tra pena detentiva e pena pecuniaria, prevista dal codice penale, rispetto alla cumulatività che caratterizza la disciplina speciale.

 

La libera manifestazione del pensiero nelle forme del diritto di critica e di cronaca

La libertà di manifestazione del pensiero, quale diritto fondamentale previsto dalla Carta costituzionale, si esprime, in particolar modo, mediante il diritto di critica e il diritto di cronaca[10], che costituiscono espressione della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p.

A fronte di un necessario bilanciamento tra beni di pari rango, quali l’onore e la libera manifestazione del pensiero, la giurisprudenza[11], sulla scia delle indicazioni fornite dal legislatore, ha contribuito a perimetrare l’ambito di rilevanza penalistica della critica e della cronaca, in rapporto con il reato di diffamazione.

Va rilevato, in primo luogo, come, secondo la costante giurisprudenza della Corte di legittimità, il diritto di critica si differenzi dal diritto di cronaca «poiché non si concretizza nella narrazione di fatti - come quest'ultimo - ma nell'espressione di un'opinione, che come tale non può pretendersi rigorosamente obbiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su una interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti»[12].

In merito al diritto di critica giudiziaria, è stato osservato che «il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile, non solo perché la cronaca e la critica possono essere tanto più larghe e penetranti, quanto più alta è la posizione dell'homo publicus oggetto di censura e più incisivi sono i provvedimenti che può adottare, ma anche perché la critica è l'unico reale ed efficace strumento

di controllo democratico dell'esercizio di una rilevante attività istituzionale che viene esercitata - è bene ricordarlo - in nome del popolo italiano da persone che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono giustamente di ampia autonomia ed indipendenza»[13].

Affinchè il diritto di critica non esorbiti i limiti di legalità, è necessario che sussistano quali presupposti, la verità del fatto, l’interesse sociale e la continenza, ovvero la correttezza formale del linguaggio, secondo le linee guida fornite dalle sentenze sul c.d. “Decalogo del giornalista”[14], valide anche in relazione al diritto di cronaca. Ad ogni modo, il requisito della verità[15] risulta limitato all’oggettiva sussistenza della vicenda posta alla base delle opinioni e delle valutazioni espresse[16], non potendosi comunque tradurre in «mera astrazione diffamatoria o pura invenzione congetturale»[17].

Quanto al concetto di continenza, si ritiene che in subiecta materia esso possa essere interpretato in modo particolarmente flessibile, escludendo la rilevanza penale di un linguaggio vivace, polemico, pungente e di toni oggettivamente aspri[18], purchè non si esauriscano in battute infamanti e gratuitamente offensive della reputazione altrui ma proporzionate alla tipologia e all’oggetto della narrazione[19].

I giudici di legittimità hanno da ultimo chiarito come, in caso di diffamazione posta in essere mediante l’utilizzo dei social network,  nella valutazione del requisito della continenza, ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, sia opportuno  tener conto «non solo del tenore del linguaggio utilizzato, ma anche dell'eccentricità delle modalità di esercizio della critica»[20], non potendosi valicare il limite del rispetto dei valori fondamentali dell’individuo, ipotesi che si verifica ove la persona offesa sia esposta, oltre che al ludibrio della sua immagine, al pubblico disprezzo.

I medesimi requisiti consentono il riconoscimento della scriminante del diritto di cronaca, seppur con delle precisazioni.

In particolare, in merito alla valutazione circa la veridicità del narrato, non può il giornalista esimersi da un’analisi approfondita e accurata, facendo esclusivo affidamento sull’attendibilità della fonte dell’informazione, dovendo, al contrario, fornire la prova degli accertamenti posti in essere al fine di superare dubbi e incertezze[21].

Il supremo consesso, inoltre, ha posto l’accento sulla necessaria completezza della notizia riportata, affermando come gli strumenti di ricerca digitale non garantiscano la completezza informativa idonea a consentire l’operatività della causa di giustificazione in esame, risultando necessaria un’integrazione sulle fonti e sui contenuti delle pubblicazioni[22].

La ratio del requisito dell’interesse pubblico, invece, si fonda sull’attitudine di determinate notizie a contribuire ala formazione dell’opinione pubblica, consentendo la libera autodeterminazione dell’individuo nelle proprie scelte[23].

Ciò posto, è da ritenersi lecita la condotta del giornalista che riporti fedelmente le dichiarazioni del soggetto intervistato ove risultino lesive dell’altrui reputazione, purchè il profilo dell’interesse pubblico sia tale da prevalere, non solo sull’onere di verificare la veridicità delle propalazioni riportate, ma anche sulla posizione della persona offesa[24].

 

La libertà di espressione nell’ordinamento comunitario

Non di rado si evidenzia come alla libertà di espressione sia garantita una tutela multilivello, richiamando, non solo il dettato costituzionale, ma anche le fonti comunitarie, e in particolare l’art. 10 Cedu, ove è sancito che «Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche [...]» e l’art. 11 della Carta europea dei diritti fondamentali che aggiunge che «La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati».

La stessa Corte di Strasburgo ha affermato che «La libertà d’espressione costituisce una delle fondamenta essenziali di questa società [democratica], una delle condizioni basilari del suo progresso per lo sviluppo di ogni uomo»[25].

Come si evince dal dato letterale delle disposizioni menzionate, la libertà di espressione si manifesta anche nella libertà di informazione, in quanto preordinata alla libera formazione di un’opinione consapevole nell’individuo.

Occorre, d’altra parte, considerare come la libertà di espressione, sebbene sia considerata quale pietra angolare delle società democratiche[26], in quanto garantisce un pluralismo di idee e culture, non possa qualificarsi come diritto assoluto, dovendo cedere il passo alla tutela di altri diritti e situazioni giuridiche, ove sussistano i presupposti previsti dalla legge.

Un adeguato fondamento normativo di tali limitazioni si rinviene, appunto, nell’art. 10 Cedu, ove è menzionato un espresso riferimento agli interessi di sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione di reati, alla protezione della salute, della morale e della reputazione, al fine impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.

La norma, inoltre, prevede che simili ingerenze nella libertà di espressione dell’individuo risultino necessarie in una società democratica, per cui la Corte EDU ha posto una serie di requisiti, al fine di delimitare l’ambito di operatività delle restrizioni summenzionate.

Oltre ai consueti criteri di veridicità, interesse pubblico e continenza delle pubblicazioni, si tende a valutare la notorietà dei soggetti coinvolti e la severità delle sanzioni imposte ai giornalisti o agli editori[27].

 

Il punto di vista della giurisprudenza comunitaria sulla proporzionalità delle sanzioni

La Corte di Strasburgo, riconoscendo il ruolo della stampa come «cane da guardia[28]» della democrazia, ha da tempo avviato una corposa produzione giurisprudenziale avente ad oggetto la proporzionalità delle sanzioni penali inflitte in caso di reati connessi ai mezzi di comunicazione, ritenendole compatibili con la libertà di espressione dei giornalisti, garantita dall'art. 10 CEDU, soltanto in circostanze eccezionali, ovvero nelle ipotesi in cui risultino lesi gravemente altri diritti fondamentali, come in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza[29].

La prima pronuncia in materia è Cumpănă e Mazăre c. Romania[30], nella quale la Grande Camera, sancendo il principio cui si è fatto riferimento, ha precisato che al di fuori di tali ipotesi la previsione di una pena detentiva ha un effetto dissuasivo (c.d. "chilling effect") nei confronti del giornalista nell'esercizio della libertà di espressione.

La Corte EDU ha affermato per la prima volta il principio summenzionato, nei confronti del nostro Paese, nel caso Belpietro c. Italia[31], mediante un iter logico argomentativo che ha posto in luce il nucleo duro della questione.

A giudizio della Corte, infatti, la ratio della perimetrazione della compatibilità della pena detentiva con la libertà di espressione, in particolare in ambito giornalistico, si conforma all’intenzione dell’interprete di evitare l’effetto dissuasivo che potrebbe risultare da sanzioni particolarmente afflittive, ad eccezione delle ipotesi espressamente individuate[32].

Nel caso di specie, il ricorrente aveva lamentato violazione dell’art. 10 CEDU per eccessività del trattamento sanzionatorio, in quanto i giudici territoriali avevano ritenuto configurabile nei suoi confronti il reato di diffamazione, in qualità di responsabile di un giornale, condannandolo alla pena di quattro mesi di reclusione condizionalmente sospesa, contrariamente alla pronuncia dei giudici di prime cure.

A fronte di una conferma della condanna da parte dei giudici di legittimità, il ricorrente contestava il requisito della necessità in una società democratica dell’ingerenza nel suo diritto di espressione, ritendo che l’articolo pubblicato fosse in linea con l’interesse pubblico e volto a porre a conoscenza dei lettori le opinioni del giornalista in materia di giustizia e di lotta alla criminalità organizzata.

La Corte ha precisato come le restrizioni, quali misure necessarie in una società democratica, implichino l’esistenza di un «bisogno sociale imperioso»[33] che risulta passibile di apprezzamento da parte degli Stati contraenti, nei limiti di una successiva valutazione di legittimità operabile da parte della Corte stessa.

Sulla base di tali considerazioni, dunque, la Corte ha ritenuto, in sede di valutazione della proporzionalità dell’ingerenza, come la sanzione detentiva comminata, per la sua natura ed indipendentemente dal quantum, risultasse eccessiva in quanto produttiva di un effetto deterrente non giustificato dalla sussistenza di circostanze meritevoli di una tutela particolarmente pregnante.

In epoca di poco successiva alla pronuncia sul caso Belpietro, la Corte EDU, nel caso Ricci c. Italia[34], è tonata ad affermare la sproporzionalità della pena detentiva irrogata nei confronti di un noto giornalista per il reato di diffamazione.

Nella medesima direzione la Corte si è mossa nel caso Sallusti c. Italia[35], a riprova dell’ostilità della Corte Edu verso l’applicabilità della sanzione detentiva in caso di reati connessi al mezzo della stampa[36].

Nel caso di specie, la Corte di legittimità[37] nel giustificare la condanna per diffamazione e omesso controllo da parte del direttore, ai sensi dell’art. 57 c.p., aveva valorizzato il carattere plurioffensivo della condotta nei confronti  del minore querelante, del medico e dei genitori adottivi, per cui  la severità della sanzione risultava rapportata alla finalità di  impedire la divulgazione di informazioni riservate e l’impatto negativo del fatto diffamatorio sull’autorità del potere giudiziario.

In caso in questione concerneva la condanna del direttore di un giornale, ritenuto responsabile della pubblicazione di un articolo avente ad oggetto l’interruzione di gravidanza di una tredicenne, attribuendo notevoli responsabilità ai genitori, al giudice tutelare e al medico per averla indotta a tale scelta contro la sua volontà, procurandole notevoli sofferenze psicologiche.

La notizia veniva smentita e rettificata, in quanto del tutto falsa, ma sul giornale diretto dal Sallusti veniva pubblicato un articolo che riprendeva la versione originaria della vicenda utilizzando chiose capziose e toni aggressivi.

La Corte EDU, pur ritenendo immune da censure l’affermazione di responsabilità del Sallusti, riteneva violato l’art. 10 Cedu per sproporzionalità della pena comminata, ritenendo di non poter condividere l’impianto argomentativo proposto dai giudici di legittimità, poiché inidoneo a giustificare un siffatto intervento sanzionatorio.

All’indomani della pronuncia sul caso Sallusti, l’Assemblea Parlamentare con la risoluzione n. 1920 del 2013, ha incaricato la Commissione Venezia di redigere un parere sulla conformità della disciplina italiana della diffamazione rispetto alla normativa comunitaria e, in particolare, all’art. 10 della CEDU.

La Commissione, preso atto della consolidata giurisprudenza comunitaria elaborata sulla questione e della vetusta normativa nazionale ha rilevato l’inidoneità delle disposizioni penali a soddisfare la disciplina europea in materia di libertà di espressione.

Si trattava, in realtà, di una conclusione ampiamente prevedibile, alla luce delle plurime condanne riportate dall’Italia per violazione dell’art. 10 CEDU, in ragione della sproporzionalità del trattamento sanzionatorio applicato, anche di natura meramente civilistica[38], rispetto alle ragioni giustificative dello stesso.

 

I tentativi di modifica della disciplina interna

L’impulso dell’ordinamento comunitario si è tradotto, nel nostro ordinamento, in istanze volte alla modifica della disciplina in tema di diffamazione a mezzo stampa.

Uno dei più rilevanti tentativi di riforma risale al 2004[39], ma dopo l’approvazione alla Camera fu abbandonato con la fine della XIV legislatura.

Il disegno di legge mirava, sostanzialmente, all’abolizione della pena detentiva e alla previsione, in caso di recidiva, della pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista, all’introduzione di una causa di non punibilità in caso di pubblicazione della rettifica della notizia, alla modifica dell’art. 57 c.p. in tema di responsabilità del direttore del giornale e alla previsione del limite massimo di 30000 euro per il risarcimento del danno non patrimoniale e di una sanzione pecuniaria in caso di querela temeraria.

All’indomani della pronuncia sul caso Sallusti e del notevole impatto mediatico da esso prodotto, è stato presentato il d.d.l. Costa, dal contenuto fondamentalmente analogo a quello della precedente proposta, ma anch’esso non ha raggiunti gli esiti sperati.

Nel tentativo di superare la situazione di stasi che si è venuta a creare negli ultimi anni, nel 2018 è stato presentato il d.d.l. Caliendo e successivamente il d.d.l. Verini.

Entrambi i disegni di legge ripropongono, sostanzialmente, il testo della proposta di legge formulata dall’onorevole Costa.

Il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti non ha tardato ad esprimere un’aspra critica sostenendo come le misure delle quali si propone l’introduzione risulterebbero lesive della libertà di stampa.

La principale contestazione verte sulla rilevata eccessività della multa proposta in sostituzione della pena detentiva.

La proposta del senatore Caliendo prevede una multa compresa tra i cinquemila e i diecimila euro e per la diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato la multa compresa tra i diecimila e i cinquantamila euro, con un evidente aumento rispetto al minimo della pena ora vigente.

Sebbene si abbia la chiara consapevolezza della necessità di un intervento di adattamento della normativa nazionale ai principi formulati dalla giurisprudenza comunitaria, ai quali la Corte di Cassazione[40] non ha tardato ad allinearsi, non si comprendono i motivi di una simile refrattarietà all’approvazione di un testo in grado di soddisfare gli interessi in gioco.

Con l’ultimo disegno di legge cui si è fatto riferimento, è stato ancora una volta ricordato che «L’accesso a un’informazione indipendente, libera e plurale è un requisito fondamentale per il pieno esercizio della cittadinanza. La tutela della dignità umana è un principio sancito dalla

Costituzione»[41].

Al legislatore spetta, dunque, l’arduo compito di bilanciare «il dovere di raccontare contro il diritto a non essere vittima di una macchina del fango»[42].

L’inerzia del legislatore rischia di condurre all’instaurazione di un vero e proprio processo all’informazione e alla comunicazione, dove a pagare il prezzo non saranno solo i giornalisti coinvolti ma l’intera comunità lesa nel suo diritto ad essere informata.

Può, dunque, uno stato di diritto accettare il rischio di un’autocensura del giornalismo italiano di fronte al timore di incorrere in gravose responsabilità sanzionabili con la pena detentiva?

 

Ipotesi di compatibilità della pena detentiva con la libertà di espressione

È opportuno sottolineare come la Corte di Strasburgo abbia aperto la strada ad un’ampia produzione giurisprudenziale nel diritto interno, fornendo la direttrice nel solco della quale anche gli Ermellini hanno dichiarato la compatibilità dell’irrogazione della pena detentiva, nell’ipotesi di un reato di diffamazione connesso ai mezzi di comunicazione, con la libertà di espressione garantita dall'art. 10 CEDU soltanto in circostanze eccezionali nelle quali risultino lesi gravemente altri diritti fondamentali, come in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.

Volgendo lo sguardo alla normativa codicistica interna, tali riferimenti potrebbero apparire ultronei, alla luce delle previsioni di cui agli artt. 604-bis e 604-ter c.p., inserite nella categoria dei delitti contro l’eguaglianza, frutto dell’intervento legislativo operato con il d. lgs. 1° marzo 2018, n. 21, in attuazione della riserva di codice[43].

La prima norma prevede delle fattispecie incriminatrici volte a sanzionare ipotesi di discriminazione razziale, etnica e religiosa e la propaganda di idee fondate sull’odio etnico o razziale, mentre la seconda introduce la circostanza aggravante della finalità discriminatoria o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso.

L’intervento in questione si pone in quella prospettiva vittimologica che anima le più recenti novità legislative e i disegni di legge ancora in discussione in Parlamento, nel tentativo di garantire una tutela pregnante alla vittima del reato in qualità di soggetto debole, la cui vulnerabilità, in alcuni casi, è il frutto di orientamenti culturali retrogradi e discriminatori.

Il filo rosso di tale analisi non può che condurci ad una riflessione in merito al dibattito sollevato attorno al d.d.l. Zan volto a garantire piena tutela contro le discriminazioni basate sul sesso, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere.

Gli oppositori invocano lo scudo della libertà di espressione come costituzionalmente tutelata all’art. 21 Cost. ignorando, probabilmente, la precisazione che il disegno di legge reca all’art. 4 e che si mostra funzionale a scongiurare critiche di tal fatta.

Invero, la disposizione fa salva «la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».

Non può negarsi come i casi di cronaca rendano necessario un simile intervento nella prospettiva della lotta alle nuove frontiere dell’hate speech che trova, senza dubbio, terreno fertile nel web e nell’utilizzo dei social network quali mezzi di comunicazione di massa.

La Corte di Cassazione  ha chiarito come l’utilizzo di espressioni eccedenti il mero riferimento all’omosessualità di un individuo integrino il reato di diffamazione, con l’eventuale aggravante di cui al comma terzo qualora commesso mediante l’utilizzo di social network, trattandosi di una lesione della reputazione e dell’identità personale che va ben oltre l’attribuzione di una qualità attinente alle preferenze sessuali, ma si traduce in un’esplicita propalazione denigratoria che non può trovare giustificazione nell’evoluzione della percezione sociale e dei costumi.

La ragione primaria dell’incremento esponenziale delle manifestazioni di odio tramite la rete si rinviene nella consapevolezza di una notevole riduzione del rischio di incorrere in responsabilità penale, in quanto l’utilizzo dell’anonimato ostacola le procedure di identificazione degli utenti.

La particolare offensività della condotta, invece, come già affermato nel corso della trattazione, si deduce dalla potenzialità diffusiva e comunicativa della rete.

Secondo un orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione, «la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "facebook" integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di pubblicità" diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone»[44].

Nel contesto normativo e interpretativo così delineato, è opportuno richiamare una recente pronuncia nella quale i giudici di legittimità hanno confermato il principio di derivazione comunitaria relativo alle ipotesi di compatibilità della pena detentiva con la libertà di espressione al reato di diffusione commesso mediante social networks.

Nel dettaglio, la Corte ha asserito che «l'irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il reato di diffamazione connesso ai mezzi di comunicazione (nella specie, Internet), anche se non commesso nell'ambito dell'attività giornalistica, possa essere compatibile con la libertà di espressione garantita dall'art. 10 CEDU soltanto in circostanze eccezionali, qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza»[45].

 

La questione di legittimità costituzionale

La complessità della vicenda e le relative problematiche sviscerate nel corso della trattazione hanno sollecitato la richiesta di un intervento del giudice delle leggi in relazione all’art. 595 c.p. e all’art. 13 l.  n. 47 del 1948.

Con due diverse ordinanze, l’una del Tribunale di Salerno e l’altra del Tribunale di Bari, è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 595, comma terzo, c.p. e dell’art. 13 l. 47 del 1948, in rapporto agli artt. 21, 117, comma 1, cost., in relazione all’art. 10 CEDU, rispetto alla previsione della pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato[46].

A giudizio dei Tribunale di Salerno, le norme in esame risulterebbero incompatibili anche con l’art. 25 Cost., essendo la pena detentiva del tutto sproporzionata, irragionevole e non necessaria rispetto al bene giuridico tutelato dalle norme incriminatici, e con la funzione rieducativa della pena di cui al comma terzo dell’art. 27 Cost.

La Corte Costituzionale ha enfatizzato un aspetto tendenzialmente trascurato, asserendo che «il punto di equilibrio tra la libertà di “informare” e di “formare” la pubblica opinione svolto dalla stampa e dai media, da un lato, e la tutela della reputazione individuale, dall’altro, non può però essere pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni»[47].

La Consulta, in virtù della copiosa giurisprudenza comunitaria in materia, e nella consapevolezza di una necessaria rimodulazione del bilanciamento tra la libertà di espressione e la tutela dell’onore e della reputazione dell’individuo, ha ritenuto opportuno attendere l’intervento del legislatore, in osservanza della leale collaborazione istituzionale, confidando nell’adozione di sanzioni penali non detentive, di rimedi risarcitori di natura civilistica e di misure di carattere disciplinare.

La Corte, dunque, adottando la medesima tecnica adoperata nel caso Cappato[48], ha rinviato di un anno la trattazione delle questioni, al fine di superare l’impasse, nell’eventuale silenzio del legislatore chiamato ad intervenire, e garantire l’applicazione di una disciplina ragionevole e conforme alle istanze sovranazionali.

Sebbene oggetto delle ordinanze di rimessione sia la specifica ipotesi della diffamazione a mezzo stampa, i giudici di legittimità in una recente pronuncia[49] confermativa della sproporzionalità dell’irrogazione della pena detentiva in un’ipotesi di cui all’art. 595 comma terzo, c.p., hanno posto in luce l’eventuale discrasia che si verrebbe a delineare nell’ordinamento qualora la Consulta intervenisse esclusivamente sull’ipotesi posta alla sua attenzione.

Invero, la Corte di legittimità ha rilevato come, sotto il profilo costituzionale, l’esclusione della pena detentiva, salvo eccezioni, per le sole ipotesi di diffamazione commessa in ambito giornalistico, finirebbe per minare il principio di uguaglianza di cui all’art. 3, comma 1, Cost. e di ragionevolezza, ex art. 3, comma 2, Cost., in virtù della previsione di un trattamento sanzionatorio sfavorevole nelle ipotesi connotate, tendenzialmente, da minore offensività.

Dal testo stesso dell’ordinanza n. 132 emerge l’opportunità di una ragionevole rivalutazione dell’intera disciplina, il che consentirebbe un adeguamento delle fattispecie in questione all’evoluzione culturale, sociale e tecnologica del Paese.

Lo scorso 22 giugno la Consulta, sulla scorta del silenzio del legislatore, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 13 l. n. 47 del 1948, che fa scattare obbligatoriamente, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la reclusione da uno a sei anni insieme al pagamento di una multa.

È stato invece ritenuto compatibile con la Costituzione l’articolo 595, terzo comma, c.p., trattandosi di una norma che consente al giudice di sanzionare con la pena detentiva i soli casi di eccezionale gravità, ai quali si è fatto riferimento nel corso della trattazione.

In attesa del deposito della sentenza, ha Corte ha evidenziato la «la necessità di un complessivo intervento del legislatore, in grado di assicurare un più adeguato bilanciamento – che la Corte non ha gli strumenti per compiere – tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, anche alla luce dei pericoli sempre maggiori connessi all’evoluzione dei mezzi di comunicazione, già evidenziati nell’ordinanza 132»[50].

 

[1] In argomento Fiandaca G., Musco E., Diritto penale. Parte speciale. Vol. II, tomo I, Bologna, 2013, 104 ss.

[2] Relazione Ministeriale al Progetto definitivo di un nuovo codice, in Lavori Preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, parte II, 402, in www.gazzettaufficiale.it.

[3] In tal senso: Antolisei F., Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. II, Milano, 2002, p. 192 ss.; Forchino A., Ingiuria e diffamazione, in N. dig. it., vol. VIII, Torino, p. 684 ss.; Nappi A., Ingiuria e diffamazione, in Enc. Giur. Treccani, vo. XVIII, Roma, 1989, p. 1 ss.; nello stesso senso, Carrara F., Programma del corso di diritto criminale. Parte speciale, vol. III, Lucca, 1873, p. 5.

[4] Fiandaca G., Musco E., Diritto penale. Parte speciale. Vol. II, tomo I, cit., 106; Manna A., Beni della personalità e limiti della protezione penale, Padova, 1989, p. 203; Musco E., Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, p. 35 ss.; Siracusano P., Ingiuria e diffamazione, in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, p. 33.

[5] Manna A., Tutela penale della personalità, Bologna, 1993, 71.

[6] Bettiol G., Sui limiti penalistici alla libertà di manifestazione del pensiero, in AA.VV., Legge penale e libertà del pensiero, Padova, 1966, p. 15;. Esposito C., La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958, p. 44 ss.; Manna A., Beni della personalità, cit., p. 225 ss.; Musco E., Bene giuridico e tutela dell’onore, cit., p. 138 ss.; Pace A., Manetti M., Art. 21 Cost. La libertà di manifestazione del proprio pensiero, in Branca G., Pizzorusso A. (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, 2006., p. 111; Musco E., Bene giuridico e tutela dell’onore, cit., p. 138 ss.

[7] Corte Cost., sent. 6 luglio 1966, n. 87; Corte Cost., sent. 12 aprile 1973, n. 38

[8] Il richiamo alla pari dignità sociale «pretende […], precisamente, che la società e ciascun membro di essa non si elevi mai, in buona o mala fede, a giudice della altrui indegnità e che non esprima con gli atti o con le parole, direttamente o attraverso il riferimento di determinati fatti ritenuti spregevoli, valutazioni negative sulle persone; e che al giudizio qualificato delle autorità non si aggiungano quindi espressioni del giudizio non qualificato della società, ed alle espressioni di condanna di quelle, nuove espressioni di condanna di questa», in ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero, cit., p. 44 ss.

[9] L’art. 1 l. n. 47 del 1948 definisce stampe o stampati «le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione».

[10] In argomento Fiandaca G., Musco E., Diritto penale. Parte speciale. Vol. II, tomo I, cit., 118 ss.

[11]Cass. pen., Sez. 5, Sent. n. 1741 del 16/10/1972 Ud.  (dep. 28/02/1973) Rv. 123384 – 01, «La liberta di pensiero, garantita dall'art 21 della Costituzione, ha i suoi limiti naturali che sono costituiti dal rispetto altrui e dalla tutela dell'ordine pubblico e del buon costume. Per quanto riguarda il rispetto del diritto altrui la facoltà di manifestazione del pensiero trova un preciso limite nel diritto di ogni cittadino all'integrità dell'onore, del decoro e della reputazione; cosicché il diritto di critica quando sconfina nella altrui denigrazione diviene uno strumento di aggressione della altrui sfera morale e non costituisce Esercizio legittimo di un diritto. La liberta di pensiero trova un limite nella legge penale, essendo la diffamazione un atto illecito e non una manifestazione della liberta di pensiero». 

[12] Cass. pen., Sez. 5, sentenza n. 7499 del 27 giugno 2000, in CED Cass., rv. 216534.

[13] Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 34432 del 05/06/2007 (dep. 12/09/2007), in CED Cass., Rv. 237711 - 01

[14] Cass. civ., Sez. 1, sentenza n. 5259 del 18/10/1984; Cass., Sez. Un. pen., sentenza n. 8959 del 30/06/1984- 23/10/1984).

[15] «Quanto al rispetto della verità, va precisato (ai fini dell'Esercizio del diritto in questione) che la verità non può essere considerata come un risultato sempre ricostruibile nella sua intima essenza, non essendo essa un portato acquisibile dal di fuori con i limitati mezzi che sono propri dell'attività umana: devono quindi includersi, entro la sfera della critica lecita sotto il profilo del rispetto della verità, anche quelle circostanze in cui sorge la necessità di denunciare casi sui quali le esigenze pubbliche impongono che sia fatta piena luce, sollecitando gli organi della vita collettiva perchè indaghino e intervengano al riguardo», Cass. pen., Sez. 2, Sentenza n. 876 del 05/06/1961 Ud.  (dep. 26/07/1961), in CED Cass., Rv. 098653 – 01.

[16] In tal senso Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 20474 del 14/02/2002 Ud.  (dep. 24/05/2002), in CED Cass., Rv. 221904 – 01, nella giurisprudenza comunitaria: Corte EDU, sent. del 27.10.2005 caso Wirtshafts-Trend Zeitschriften-Verlags Gmbh c. Austria rie. n 58547/00; Corte EDU, sent. del 29.11.2005, caso Rodrigues c. Portogallo, ric. n 75088/01.

[17] Cass. pen., Sez5Sentenza n. 6416 del 16/11/2004 Ud.  (dep. 21/02/2005), in CED Cass., Rv. 231397 - 01

[18] In tal senso: Sez. 5, Sentenza n. 5757 del 10/04/1981 Ud.  (dep. 08/06/1981), in CED Cass., Rv. 149310 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 8581 del 03/05/1985 Ud.  (dep. 05/10/1985), in CED Cass., Rv. 170572 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 27339 del 13/06/2007 Ud.  (dep. 12/07/2007), in CED Cass., Rv. 237260 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 4853 del 18/11/2016 Ud.  (dep. 01/02/2017), in CED Cass., Rv. 269093 – 01.

[19] Si veda: Cass. pen., Sez. 1, Sentenza n. 36045 del 13/0612014 Ud. (dep. 20/0812014), in CED Cass., Rv. 261122; Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 32027 del 23/03/2018 Ud.  (dep. 12/07/2018), in CED Cass., Rv. 273573 – 01.

[20] Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 8898 del 18/01/2021 Ud.  (dep. 04/03/2021), in CED Cass., Rv. 280571 – 01.

[21] In tal senso Cass., Sez. Un. pen., Sentenza n. 8959 del 30/06/1984 Ud.  (dep. 23/10/1984), in CED Cass., Rv. 166252 – 01; sull’inidoneità della “vox populi” a fondare il presupposto della verità della notizia Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 21840 del 11/02/2014 Ud.  (dep. 28/05/2014), in CED Cass., Rv. 260405 – 01.

[22] Sul punto: Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 38896 del 15/04/2019 Ud.  (dep. 20/09/2019), in CED Cass., Rv. 277117 – 01; Cfr. Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 44024 del 04/11/2010 Cc. (dep. 14/12/2010), in CED Cass., Rv. 249126 – 01.

[23] Si veda Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 38096 del 07/10/2010 Ud.  (dep. 26/10/2010), in CED Cass., Rv. 248902 – 01.

[24] Cass., Sez. Un. pen., Sentenza n. 37140 del 30/05/2001 Ud.  (dep. 16/10/2001), in CED Cass., Rv. 219651 – 01; nello stesso senso Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 29128 del 17/09/2020 Ud.  (dep. 21/10/2020), in CED Cass., Rv. 279775 – 01.

[25] Handyside contro il Regno Unito, Sentenza del 7 dicembre 1976, n. ric. 5493/72, www.hudoc.echr.coe.int.

[26] Sent. Corte Cost., n. 1 del 1956; Sent. Corte Cost., n. 11 del 1968; Sent. Corte Cost., n. 84 del 1969; Sent. Corte Cost., n. 126 del 1985; Sent. Corte Cost., n. 206 del 2019.

[27] Sul punto: Corte EDU, 9 gennaio 2018, GRA Stiftung gegen Rassismus und Antisemitismus c. Svizzera, n. 18597/13, in www.hudoc.echr.coe.int.; Corte EDU, 27 giugno 2017, Satakunnan Markkinapörssi Oy and Satamedia Oy c. Finlandia, n. 931/13, ivi; Corte EDU, 10 novembre 2015, Couderc e Hachette Filipacchi Associés c. Francia [GC], n. 40454/07, ivi; Corte EDU, 23 aprile 2015, Morice c. Francia [GC], n. 29369/10; 7 febbraio 2012, Axel Springer AG c. Germania [GC], n. 39954/08, ivi.

[28] Corte EDU, caso Bladet Tromso e Stensaas c. Norvegia, 20.5.1999, in www.hudoc.echr.coe.int.; Corte EDU, caso Cumpana e Mazare c. Romania, 17.12.2004, ivi; Corte EDU, caso Riolo c. Italia, 17.7.2008, ivi; Corte EDU, caso Gutiérrez Suàrez c. Spagna, 1.6.2010, ivi; Corte EDU, caso Belpietro c. Italia, 24.9.2013, ivi.

[29] In materia: Corte EDU, sent. 22 aprile 2010, Fatullayev c. Azerbaijan, in www.hudoc.echr.coe.int.; Corte EDU, sent. 6 dicembre 2007 Katrami c. Grecia, ivi.

[30] Corte EDU, caso Cumpana e Mazare c. Romania, 17.12.2004, § 115, in www.hudoc.echr.coe.int.; nello stesso senso: Corte EDU, caso Norwood c. Regno Unito, 16.11.2004, ivi, in tema di discorso islamofobo; Corte EDU, caso Pavel Ivanov c. Russia, 20.2.2007, ivi; Corte EDU, caso L.P. e Carvalho c. Portogallo, 8.10.2019, ivi, sull’effetto dissuasivo in rapporto all’esercizio delle professioni forense.

[31] Corte EDU, Sez. II, sent. 24 sett. 2013, Belpietro c. Italia, ric. n. 42612/10, in www.hudoc.echr.coe.int.

[32] Nella sent. Corte EDU Magosso e Brindani c. Italia, del 16/01/2020, in  www.hudoc.echr.coe.int, la Corte ha ribadito che si verifica una violazione dell'art. 10 CEDU quando si realizza un effetto dissuasivo per i giornalisti nell'esercizio della propria libertà di espressione, con un'ingerenza da parte dello Stato che la Corte reputa sproporzionata e non necessaria in una società democratica, tanto da minare il ruolo di "cane da guardia" (di watchdog, per usare l'espressione che si ritrova in molte sentenze) attribuito alla stampa nelle società democratiche; principi richiamati da Cass, sez. 5, sent. n. 19889 del 17 febbraio 2021, in CED Cass.

[33] Corte EDU, Riolo c. Italia, cit.

[34] Corte EDU, Ricci c. Italia, ric. n. 30210/2006, in www.hudoc.echr.coe.int.

[35] Corte EDU, Sallusti c. Italia, 7 marzo 2019, ric. 22350/13, in www.hudoc.echr.coe.int.

[36]  Corte EDU, Sent. 2 aprile 2009, Kydonis c. Grecia, n. 24444/07, in www.hudoc.echr.coe.int.; Corte EDU, 22 aprile 2010, Fatullayev c. Azerbajian, n. 40984/07, ivi; Corte EDU, 6 luglio 2010, Mariapori c. Finlandia, n. 37751/07, ivi; Corte EDU, 29 marzo 2016, Bédat c. Svizzera [GC], n.56925/08, ivi).

[37] Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 41249 del 26/09/2012 Ud.  (dep. 23/10/2012), in CED Cass., Rv. 253753 – 01; in senso contrario la Corte di Cassazione ha affermato che, in tema di diffamazione a mezzo della stampa, l'inflizione della pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa, esige la ricorrenza di circostanze eccezionali, annullando con rinvio la decisione con la quale era stata irrogata la sanzione detentiva in considerazione della grave portata diffamatoria del fatto, commesso mediante la pubblicazione di una notizia falsa su un articolo di giornale e della personalità degli offesi, Cass. pen., Sez. 5, sentenza 13/03/2014, n. 12203, Strazzacapa, in CED Cass., Rv. 260398.

[38] Con la sent. Rioli c. Italia,17 luglio 2008, (Ric. 42211/07), la Corte Edu ha condannato l’Itali per violazione dell’art. 10 CEDU in ragione della condanna nei confronti di un giornalista a versare una somma ritenuta eccessiva dalla Corte quale sanzione per il reato di diffamazione, ritenendo che sanzioni di tal fatta avrebbe potuto dissuadere i giornalisti dall’informare il pubblico su questioni di interesse generale.

[39] Atti Senato XIV Legislatura. n. 3176/2004: d.d.l. “Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale e al codice di procedura penale in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante”, in www.senato.it.; si veda su punto Pisapia M., Cherchi C., Detenzione e libertà di espressione. Riflessioni sul trattamento sanzionatorio del reato di diffamazione a mezzo stampa in occasione della pronuncia della Corte Costituzionale, in www.giurisprudenzapenale.com.

[40] Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 12203 del 11/12/2013 Ud.  (dep. 13/03/2014), in CED Cass., Rv. 260398 01; Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 39195 del 26/01/2015 Ud.  (dep. 28/09/2015), in CED Cass., Rv. 264834 - 01; Cass. pen., Sez. 5 - , Sentenza n. 26509 del 09/07/2020 Ud.  (dep. 22/09/2020), in CED Cass., Rv. 279468 – 01; Cass. pen., Sez. 5 - , Sentenza n. 13993 del 17/02/2021 Ud.  (dep. 14/04/2021), in CED Cass., Rv. 281024 – 01 nelle quali la Corte ha affermato la necessaria ricorrenza di circostanze eccezionali ai fini dell’applicazione della pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa.

[41] Atto Camera dei Deputati XVIII legislatura, n. 416 presentato il 27 marzo 2018 d’iniziativa del deputato Verini, in www.camera.it.

[42] Atto Camera dei Deputati XVIII legislatura, n. 416 presentato il 27 marzo 2018 d’iniziativa del deputato Verini, cit.

[43] In argomento Palazzo F., La nuova frontiera della tutela penale dell’eguaglianza, in www. sistemapenale.it.

[44] Cass. Sez. 1, Sentenza n. 24431 del 28/04/2015 Cc.  (dep. 08/06/2015), in CED Cass., Rv. 264007 – 01; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4873 del 14/11/2016 Cc.  (dep. 01/02/2017), in CED Cass., Rv. 269090 – 01; Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 13979 del 25/01/2021 Ud.  (dep. 14/04/2021), in CED Cass., Rv. 281023 – 01.

[45] Sentenza n. 13993 del 17/02/2021 Ud.  (dep. 14/04/2021), cit.

[46] Sulla questione Cuniberti M., La pena detentiva per la diffamazione tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo: l’ordinanza della Corte costituzionale n. 132 del 2020, in www.osservatorioaic.it; Pinardi R., La Corte ricorre nuovamente alla discussa tecnica decisionale inaugurata col caso Cappato, in Forum di Quaderni Costituzionali, 3, 2020, 103 ss.

[47] Corte Cost., ord. n. 132 del 26 giungo 2020, in www.cortecostituzionale.it.

[48] Corte cost., ord. n. 207 del 2018, in www.cortecostituzionale.it.

[49] Cass. pen., Sez. 5 - , Sentenza n. 13993 del 17/02/2021 Ud.  (dep. 14/04/2021), in CED Cass., Rv. 281024 – 01.

[50] Comunicato del 22 giugno 2021, in www.cortecostituzionale.it.

BIBLIOGRAFIA

Antolisei F., Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. II, Milano, 2002, p. 192 ss.

Bettiol G., Sui limiti penalistici alla libertà di manifestazione del pensiero, in AA.VV., Legge penale e libertà del pensiero, Padova, 1966, p. 15

Carrara F., Programma del corso di diritto criminale. Parte speciale, vol. III, Lucca, 1873, p. 5

Cuniberti M., La pena detentiva per la diffamazione tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo: l’ordinanza della Corte costituzionale n. 132 del 2020, in www.osservatorioaic.it; Pinardi R., La Corte ricorre nuovamente alla discussa tecnica decisionale inaugurata col caso Cappato, in Forum di Quaderni Costituzionali, 3, 2020, 103 ss.

Esposito C., La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958, p. 44 ss.

Fiandaca G., Musco E., Diritto penale. Parte speciale. Vol. II, tomo I, Bologna, 2013, 104 ss.

Forchino A., Ingiuria e diffamazione, in N. dig. it., vol. VIII, Torino, p. 684 ss.

Manna A., Beni della personalità e limiti della protezione penale, Padova, 1989, p. 203

Manna A., Tutela penale della personalità, Bologna, 1993, 71.

Musco E., Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, p. 35 ss.

Nappi A., Ingiuria e diffamazione, in Enc. Giur. Treccani, vo. XVIII, Roma, 1989, p. 1 ss.

Pace A., Manetti M., Art. 21 Cost. La libertà di manifestazione del proprio pensiero, in Branca G., Pizzorusso A. (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, 2006., p. 111

Palazzo F., La nuova frontiera della tutela penale dell’eguaglianza, in www. sistemapenale.it.

Pisapia M., Cherchi C., Detenzione e libertà di espressione. Riflessioni sul trattamento sanzionatorio del reato di diffamazione a mezzo stampa in occasione della pronuncia della Corte Costituzionale, in www.giurisprudenzapenale.com.

Siracusano P., Ingiuria e diffamazione, in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, p. 33.