Disability e Diversity Management: storia, sviluppo e attualità

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Abstract

per comprendere l’innegabile importanza del Disability e Diversity Management nell’ambito della gestione delle risorse umane è opportuno, quanto doveroso, tracciare il suo iter storico. Percorrere tale percorso permette di comprendere quanto si è fatto e quanto, soprattutto, c’è ancora da fare per garantire una reale inclusione nei contesti lavorativi.

 

Nascita del Diversity e Disability Management

L’approccio al Disability Management nasce alla fine degli anni ‘80 e si diffonde concretamente solo in alcuni paesi, quali Canada e Stati Uniti. Alla fine degli anni Sessanta, negli USA nascono i primi provvedimenti di tutela delle minoranze nei luoghi di lavoro: vengono invero approvate le leggi sull’“Equal Employement Opportunity”, che vietano, definendole illegali, le discriminazioni sui luoghi di lavoro. Protagonisti di questa prima forma di tutela erano donne e persone con disabilità (1).

Il modello delle pari opportunità, in questa nuova sensibilità sociale, impone una chiave interpretativa basata sul concetto di uguaglianza, secondo cui gli individui meritano di essere trattati allo stesso modo, accedendo con i medesimi strumenti alle stesse identiche opportunità. Sul piano giuridico, ciò porta alla convinzione che un livellamento dei diritti corrisponda, in realtà, ad una più ampia visione del riconoscimento dei diritti individuali. Solo in tempi più recenti, la riflessione si sposta dal concetto di uguaglianza al concetto di equità: cambia il concetto stesso di “organizzazione” e ciò è riconducibile al mutato scenario economico, in cui le imprese si trovano ad operare in un mercato sempre più diversificato e globalizzato.

Anche il Nord Europa ha ben accolto questo approccio, sicché tutt’ora vi è una larghissima diffusione di queste figure professionali. In origine, si trattava principalmente di una disciplina volta a minimizzare l’impatto delle situazioni di disabilità temporanea o sopravvenuta, sorte a seguito di infortuni o malattie.

 

Gli obiettivi della nascita e del conseguente sviluppo: la relazione Workforce 2000

Lo scopo di fondo era quello di coinvolgere le aziende in un processo di miglioramento delle condizioni dei lavoratori divenuti disabili o in situazione di svantaggio, al fine di permettergli di mantenere il proprio posto di lavoro. Successivamente, le maglie della tutela si sono estese anche all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità e di tutte quelle che per qualsiasi altro motivo possono subire ogni sorta di discriminazione.

Questa nuova visione della gestione del capitale umano sembra comparire per la prima volta nel 1987, quando lo Hudson Institute pubblicò la Relazione Workforce 2000. In essa venivano analizzati le tendenze della futura composizione della forza lavoro americana. I dati emersi rivelarono una sempre maggior affluenza del multiculturalismo e della progressiva presenza femminile.

Le politiche allora presenti di gestione del capitale umano, che fino a quel momento avevano mirato al livellamento dei diritti individuali garantendo un pari accesso alle opportunità interne ed esterne all’organizzazione produttiva, sotto la nuova luce di siffatti profili iniziarono a designare, per le imprese, la sempre crescente necessità di un approccio di gestione basato non più sulla standardizzazione bensì sulla valorizzazione delle differenze.

È in quel momento che inizia a farsi strada il ragionamento per cui solo valorizzando le diversità è possibile contribuire a migliorare e ad estendere la cultura aziendale, con conseguente possibilità di accoglienza di questo nuovo strumento. Dobbiamo molto ai modelli organizzativi statunitensi, perché hanno gettato le basi, le fondamenta, di un approccio necessario e duraturo. La lungimiranza americana risiede nell’importanza di riconoscere la diversità come valore e abilità da gestire, base di una corretta applicazione del principio di identità personale e, conseguentemente, di tutte le politiche di Diversity Management.

 

I paesi ritardatari: focus sull’Italia

In altri paesi questa modalità di gestione aziendale è stata presa in considerazione solo in tempi recentissimi: oltre alla Cina, al Giappone e alla Francia, anche l’Italia ha accolto in ritardo il Diversity e il Disability Management.

Difatti, solo nel 1999 si assiste ad una prima forma di consapevolezza, quando nel nostro paese si iniziò a lavorare al collocamento delle persone con disabilità, figlio della Legge numero 68 del 12 marzo 1999, denominata “Norme per il diritto al lavoro per i disabili”. Quel testo normativo parlava di “collocamento mirato” evidenziando il cambio di prospettiva: da mero obbligo di assunzione si passò all’obbligo di “assumere attraverso un’azione mirata”.

Il concetto di collocamento mirato permise così di spostare il focus sulle potenzialità e sulle risorse della persona con disabilità, in virtù delle quali può venire scelta dal mondo del lavoro, così come qualsiasi altro collaboratore senza disabilità.

Tuttavia, nella Legge del 1999 nulla si diceva su una figura professionale che si occupasse, in contesti lavorativi pubblici o privati, di favorire il suddetto collocamento mirato e così continuò ad essere fino al 2009, quando la materia venne toccata concretamente per la prima volta, nel Libro bianco su accessibilità e mobilità urbana”, frutto del lavoro del tavolo tecnico istituito tra il comune di Parma e il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali.

La ratio di suddetta manovra legislativa risiedeva anzitutto nella volontà di attuare gli impegni che l’Italia aveva assunto ratificando la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (Legge 3 marzo 2009, numero 18). In quella circostanza, la figura professionale volta a favorire l’inclusione in ambito lavorativo venne intercalata nella pubblica amministrazione, in particolare nei comuni al di sopra dei 50 mila abitanti e nello stesso anno vennero organizzati corsi di perfezionamento. Nel 2013, l’allora Ministro del Lavoro Giovannini affermò che l’inserimento dei Disability Manager doveva avvenire anche nei Ministeri e in enti come Inps e Inail: “Nel ministero non abbiamo un Disability Manager, ma poiché stiamo per riorganizzarlo, per studiare come introdurre questa nuova figura che si occupi delle persone disabili e delle loro problematiche”.

Facendo un passo temporale in avanti, sebbene l’importanza riconosciuta al Disability Management, non è stato attualmente emanato alcun regolamento nazionale che preveda e definisca tali figure in ambito pubblico o privato: il profilo del Disability Manager non trova precisione in alcuna normativa, né esiste tutt’ora un apposito albo professionale. Nel nostro paese questa figura è ancora culturalmente poco conosciuta e non adeguatamente valorizzata nei contesti lavorativi.

È dunque evidente l’esigenza di una regolamentazione seria, stante l’importanza di questo ruolo, creando profili professionali da inserire in tutti i settori del lavoro, senza distinguo tra pubblica amministrazione e impresa privata. In tal modo, verrebbero tutelate tutte le categorie di persone esposte a discriminazioni coprendo, al contempo, ogni ambito del rapporto di lavoro: il processo di inserimento, la formazione e la crescita del lavoratore con disabilità o soggetto a discriminazioni a causa del genere, dell’età o dell’orientamento sessuale. Una figura professionale simile permetterebbe di non lasciare l’aspetto sociale fuori dall’azienda o dal posto di lavoro pubblico, congiungendo così il tessuto sociale alla realtà lavorativa.

 

La Diversity e Inclusion a casa nostra

Sul versante del Diversity & Inclusion, invece, il nostro paese solo recentemente ha preso in considerazione e ha conferito importanza a tale approccio gestionale: dati alla mano, si stima che, nel 2019, oltre un quinto delle imprese (il 20,7%, pari a oltre 5.700 unità) abbia adottato almeno una misura non obbligatoria per legge con l’obiettivo di gestire e valorizzare le diversità tra i lavoratori legate a genere, età, cittadinanza, nazionalità e/o etnia, convinzioni religiose o disabilità. L’applicazione di tali misure coinvolge il 34% delle imprese di grandi dimensioni (con almeno 500 dipendenti), a fronte del 19,8% delle imprese più piccole (50-499 dipendenti) (2).

La legge numero 76 del 2016 (c.d. Legge Cirinnà) ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’unione civile, prevedendo il riconoscimento giuridico della coppia composta da persone dello stesso sesso con conseguenti riflessi nella sfera lavorativa.

L’adeguamento da parte dei datori di lavoro alla normativa investe diversi strumenti del diritto del lavoro:

il congedo equiparabile a quello previsto in caso di matrimonio;

  • l’obbligo di estensione alle parti dell’unione civile dei congedi e permessi previsti dalla legislazione e dalla contrattazione collettiva per determinate esigenze familiari di assistenza (uno fra tanti, il permesso mensile retribuito per assistere il partner con handicap in situazione di gravità accertata dalla Legge numero 104 del 1992);
  • l’obbligo di estensione dei regimi di welfare, introdotti tramite accordi collettivi aziendali, riguardanti agevolazioni aggiuntive rispetto alla contrattazione collettiva in tema di istruzione, ricreazione, assistenza sociale o sanitaria, alla flessibilità dell’orario di lavoro, allo smart working, all’uso dell’autovettura aziendale estesa al partner.

Mentre tutte le imprese sono state chiamate a recepire le disposizioni contenute nella legge, solamente il 7,7% di quelle con almeno 50 dipendenti dell’industria e dei servizi (pari a oltre duemila) si è trovato, dall’entrata in vigore della legge nelle condizioni concrete di applicare su richiesta dei lavoratori quanto previsto dalla c.d. Legge Cirinnà sulle unioni civili.

Le richieste sono state più numerose tra le imprese di grandi dimensioni, interessando circa un’impresa su tre fra quelle con almeno 500 dipendenti, contro il 6% delle imprese con 50-499 dipendenti.

Gli interventi legislativi possono sicuramente rappresentare un veicolo di tale cambiamento: c’è tuttavia bisogno anche di un cambiamento dal punto di vista culturale, al fine di poter giungere ad una vera inclusione.

 

1 Sull’importanza del corretto uso dei termini: http://invisibili.corriere.it/2012/…, di seguito uno stralcio: “Le parole sono importanti. Basta! Proviamo a non usarli più? Diversamente abile, invalido, disabile: basta! Le parole sono importanti. Di più, le parole mostrano la cultura, il grado di civiltà, il modo di pensare, il livello di attenzione verso i più deboli. Non è una esagerazione. Cambiamo il linguaggio e cambieremo il mondo. Ci sono parole da usare e non usare. E quelle da non usare non vanno usate. Hai voglia a dire: chiamami come vuoi, l’importante è che mi rispetti. No! Se mi chiami in maniera sbagliata mi manchi di rispetto. Se parliamo di disabilità, proviamo a usare termini corretti, rispettosi? Parole da usare e non usare. Concetti da esprimere o da reprimere. Semplicemente: persona con disabilità. L’attenzione sta lì, sulla persona. La sua condizione, se proprio serve esprimerla, viene dopo. La persona (il bambino, la ragazza, l’atleta ecc.) al primo posto. Questa è una delle indicazioni fondamentali che giungono dalla “Convenzione Internazionale sui diritti delle persone con disabilità” (New York, 25 agosto 2006, ratificata, e quindi legge, dallo Stato italiano). Non: diversamente abile, disabile, handicappato (ma lo usa ancora qualcuno?)”

2 “il diversity management per le diversità lgbt+ e le azioni per rendere gli ambienti di lavoro più inclusivi”, relazione ISTAT, 11 novembre 2020