Elezioni in Iraq: ha vinto il boicottaggio (Ispi)
Il movimento guidato da Moqtada al-Sadr ha ufficialmente vinto le elezioni irachene aggiudicandosi il maggior numero di deputati nel nuovo Parlamento.
Quella del potente religioso sciita, noto per la sua resistenza alle forze guidate dagli Stati Uniti durante l'invasione del 2003, era una vittoria annunciata che al Sadr stesso ha riconosciuto accogliendo tutte le ambasciate nel paese “purché non interferiscano negli affari iracheni o nella formazione di un governo”.
Il religioso, che dichiara di voler porre fine all'influenza statunitense e iraniana sulla politica interna dell'Iraq, ha promesso di formare un governo “libero da pressioni e interferenze straniere”. Se con 73 seggi su 329 il movimento Sadrista siederà come prima forza in parlamento, sarà però comunque costretto a cercare alleanze per formare un nuovo governo. In particolare, le trattative per raggiungere un’intesa sul nuovo premier, per tradizione un musulmano sciita, saranno lunghe e difficili considerando l’estrema frammentazione del panorama politico.
E non essendosi candidato, Al Sadr non può concorrere alla premiership. Le elezioni di domenica – fissate per il 2022 ma anticipate in risposta alle proteste di piazza in corso dal 2019 – sono le quinte dalla caduta del regime di Saddam Husein nel 2003 e anche quelle meno partecipate in assoluto.
Ha votato appena il 41% degli aventi diritto. Un dato che mostra la disaffezione dell’opinione pubblica irachena, specie dei giovani, sfiduciati che un vero rinnovamento possa arrivare dalle urne.
Una vittoria annunciata?
A 48 anni, Moqtada al-Sadr, figlio del defunto Grande Ayatollah Mohammed Sadeq al Sadr, è una delle figure più note e potenti dell’Iraq. Salito alla ribalta dopo l’invasione del 2003 come oppositore dell’occupazione straniera e a capo di una milizia che si è scontrata ripetutamente con le forze statunitensi, negli ultimi anni si è speso contro la corruzione dilagante nelle istituzioni e l’inadeguatezza delle élite che hanno mantenuto salda la presa sul potere dal 2003 ad oggi. Al-Sadr ha progressivamente preso le distanze anche da Teheran, giurando agli iracheni che non avrebbe lasciato il paese “nella sua morsa”. Ha anche criticato le milizie sostenute dall’Iran, che hanno sviluppato un significativo apparato politico ed economico da quando hanno aiutato il governo iracheno a sconfiggere il sedicente Stato islamico (Is) nel 2017.
Non sorprende perciò che, poco dopo l’annuncio dei risultati definitivi, Hadi al-Ameri, leader di Fatah, una formazione legata a doppio filo con l’ala più dura della leadership di Teheran, abbia respinto i risultati delle elezioni. “Non accetteremo questi risultati fabbricati, qualunque sia il prezzo, e difenderemo i voti dei nostri candidati ed elettori con tutta la nostra forza”, ha detto in un’intervista all’emittente Al Sumariya. Dal voto di due giorni fa, il suo movimento è uscito sconfitto con 34 seggi in meno rispetto al parlamento uscente.
Un messaggio per Teheran?
La sconfitta alle urne del Fatah riflette la crescente sfiducia nei confronti di alcuni gruppi delle Hashd al Shaabi (Forze di mobilitazione popolare), che rappresenta. Creato nel 2014, l’Hashd ha svolto un ruolo importante nella sconfitta del sedicente Stato Islamico che aveva instaurato il proprio ‘califfato’ in Siria e nelle provincie del nord-est dell'Iraq. Da allora è stato integrato nell’apparato di sicurezza dello stato iracheno ed è riuscito a far eleggere i suoi rappresentanti in parlamento nel 2018, in quello che in molti hanno letto come un chiaro segno della crescente influenza iraniana nel paese. Ma nel 2019, quando il movimento di protesta Tishreen guidato dai giovani iracheni ha cominciato a riempire le piazze del paese per protestare contro la corruzione, la disoccupazione, l’assenza di servizi e l’influenza straniera nella politica interna, le milizie paramilitari legate all’Iran sono intervenute con brutalità per reprimere il dissenso.
ùIl movimento di protesta si è concluso dopo che centinaia di manifesti sono stati uccisi e diversi attivisti sono scomparsi senza fare più ritorno. “I partiti che affermano di rappresentare l’Hashd sono stati puniti dagli elettori per aver schiacciato il movimento Tishreen”, spiega Nisan Al-Zayer, un candidato indipendente al quotidiano Arab News. Da questo punto di vista i risultati delle elezioni contengono un messaggio forte per l'Iran, secondo l'analista politico Ihsan Alshamary: “Il popolo iracheno ha voluto dire a Teheran che respinge le sue pressioni politiche”.
Un ‘non voto’ di condanna?
Ma a dimostrare che la presa di Teheran sulla politica irachena è tutt’ora radicata, il blocco dell’ex primo ministro Nouri Al-Maliki, alleato di Teheran, è arrivato terzo con 37 seggi. Con questi numeri ci vorranno mesi di negoziati e trattative prima di riuscire a formare una coalizione di maggioranza che riunisca almeno 165 membri del parlamento. Uno stallo a cui, comunque, la maggior parte della popolazione irachena non sembra fare caso.
Come non aveva, in precedenza, riservato molta attenzione ad una campagna elettorale trasformata in un campo di battaglia identitario. “I partiti che hanno guidato il sistema politico in Iraq negli ultimi due decenni sono corrotti e hanno esercitato il potere attraverso il clientelismo. I loro leader non credono né nelle istituzioni democratiche né nello stato e non rispettano la Costituzione o la legge. Perché dovrei votarli?”, osservava un’insegnante intervistata da France24 il giorno del voto.
Molti speravano che le modifiche della legge elettorale avrebbero reso più facile per i candidati indipendenti essere eletti per sfidare i partiti al potere e porre fine al loro dominio sul parlamento. Così non è stato e la maggior parte degli iracheni ha disertato il voto. Secondo i dati, l’astensionismo ha colpito soprattutto i giovani, in un paese in cui il 60% degli abitanti ha meno di trent’anni. Il loro non voto è una condanna senza appello all'establishment e all'intero sistema politico iracheno.
Il commento
Di Francesco Salesio Schiavi, ISPI MENA Centre
"Il principale elemento che emerge dal voto di domenica è il protrarsi della crisi di legittimità della classe politica irachena. La combinazione di istituzioni deboli, clientelismo istituzionalizzato e violenza extragiudiziale diffusa hanno infatti reso il voto anticipato più una manovra politica contingente che un reale percorso di cambiamento. Nessuno dei principali partiti (in primis quello di al-Sadr) è stato davvero penalizzato per i legami evidenti con gruppi armati o per la mancanza di trasparenza nella provenienza dei propri fondi, con l’eccezione del Fatah. La bassa affluenza ai seggi è un avvertimento. Non è solo la legittimità del prossimo premier a essere a rischio, ma quella dell’intero sistema”.
A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications).
13 ottobre 2021