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Famiglia o Famiglie?

Storicamente, all’interno del codice civile entrato in vigore nel 1942, l’istituto familiare è stato inteso quale unione in matrimonio tra due soggetti la cui discendenza sarebbe stata, pertanto, “legittima”.

Si tratta di una formazione sociale pre-giuridica che, per le caratteristiche sue proprie, può collocarsi tanto tra le comunità volontarie quanto tra le comunità a carattere necessario.

Volontari sono l’atto costitutivo iniziale (dato che si forma sulla base di una libera scelta da parte dei futuri marito e moglie), nonché gli eventuali atti di separazione e divorzio in situazioni di crisi del rapporto. 

La famiglia costituisce una comunità invece necessaria per i figli quanto alla posizione da loro ricoperta per effetto della nascita e almeno fino al compimento dei diciotto anni.

L’evolversi della società nel tempo ha conosciuto la formazione di coppie anche al di fuori del vincolo coniugale[1].

Nel 1968 la Corte Costituzionale[2] ha dichiarato illegittimo il reato di adulterio, con conseguente previsione di irrisarcibilità, in tal caso, del danno morale eventualmente riconosciuto. La giurisprudenza del tempo sull’articolo 2059 codice civile non ammetteva infatti il risarcimento a fronte di una simile tipologia di danno se non nella forma del danno morale soggettivo, ossia per condotta costituente al contempo anche reato[3].

In passato vigeva inoltre una concezione pubblicistica della famiglia, modificatasi solo gradualmente, prima con Legge 19 maggio 1975, n. 151 e poi per effetto delle modifiche alla Legge 1 dicembre 1970, n. 898[4].

Quanto al testo della Costituzione, carta fondamentale nel sistema delle fonti del nostro ordinamento giuridico, l’articolo 29 è sempre stato riferito unicamente alla famiglia legittima intesa come società naturale fondata sul matrimonio.

Base normativa in Costituzione per le unioni non coniugali può essere ravvisata all’articolo 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’Uomo come singolo ma anche nelle formazioni sociali ove svolge la propria personalità.

Secondo gli orientamenti prevalenti, la naturalità della famiglia, come formazione sociale, affermerebbe la piena autonomia della stessa nei confronti dello Stato.

In ogni caso, non esiste contraddizione tra l’autonomia riconosciuta alla famiglia e la competenza statale ad intervenirvi qualora si consideri che la normativa (costituzionale e primaria) debba limitarsi a definire i limiti nel cui rispetto i componenti il nucleo familiare possono autonomamente organizzarsi.

Lo status delle due tipologie di famiglia non è fisiologicamente identico. Le rispettive formazioni sociali, pertanto, non possono essere ex lege pienamente equiparate[5].

In un Paese democratico liberale avanzato dovrebbe riconoscersi a ciascun cittadino il diritto di scegliere le modalità con cui organizzare la propria esistenza, quindi tra celebrare un matrimonio civile, religioso o concordatario, stipulare un patto di convivenza liberamente disciplinato e sottoscritto (prevedendo diritti e doveri, di cui alcuni inderogabili), oppure ancora semplicemente convivere “di fatto”, senza individuazione specifica di obbligazioni o diritti reciproci.

In tale ultimo caso sarebbe comunque rispettata l’autonomia della coppia, che evidentemente non ha inteso sottoscrivere un patto formale.

Il diritto di famiglia disciplina rapporti personali e patrimoniali tramite tanto norme imperative, le quali intendono garantire interessi pubblici (spesso con riferimento alla tutela dei soggetti “deboli”), quanto norme dispositive, che permettono all’autonomia privata di esplicarsi.

Consentire che da un comportamento concreto quale la convivenza derivino ex lege effetti giuridici porrebbe a rischio la posizione di terzi estranei alla relazione in esame e violerebbe, per eccesso di tutela, il diritto di ogni individuo a regolare facoltativamente il rapporto inter partes, in conformità all’ordine pubblico e al buon costume.

Fino ad ora, in Italia, il dibattito sugli accordi di convivenza non ha conosciuto adeguati interventi legislativi, a causa della mancata univocità di intenti, determinata soprattutto dalla coesistenza nel nostro Paese di tradizioni, culture e ideologie differenti, che prospettano ipotesi di assetto della società e dello Stato assai eterogenee.

La Corte Costituzionale ha più volte sollecitato il Parlamento ad intervenire in materia mediante un provvedimento organico e si è espressa in casi specifici riconoscendo, ad esempio, che le convivenze more uxorio esprimano una scelta di libertà rispetto alle regole legislative sancite in dipendenza del matrimonio.

Nel frattempo, numerosi sono stati gli interventi giurisprudenziali.

Nell’ambito dei contratti di locazione, ad esempio, la Consulta[6] ha affermato il diritto di successione per il convivente del defunto-parte contraente.

Sotto altro profilo, il Tribunale di Roma, a inizio Anni ’90, ha sancito il diritto del partner alla risarcibilità del danno biologico nei confronti di terzi in caso di morte del soggetto convivente[7].

Si è anche accostato il termine “patto” a quello di “matrimonio” nell’ambito della (finora assai discussa) categoria degli accordi (o appunto “patti”) prematrimoniali[8].

Il matrimonio comporta numerosi obblighi quanto ai rapporti personali, tra cui assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia, fedeltà e coabitazione (articolo 143, comma 2, codice civile).

In caso di convivenza, una coppia “di fatto” che volesse rendere più sicura l’unione potrebbe prevedere obblighi di contribuzione reciproca al ménage familiare: ad esempio, sarebbe possibile costituire un conto corrente comune con versamento mensile di un determinato importo oppure un regime di comunione, sia pure “anomala”, e quindi distinta dall’istituto della comunione legale.

I conviventi potrebbero intendere determinati loro beni, immobili, mobili registrati o altro, in regime di comunione, impegnandosi reciprocamente l’un l’altra, con mandato, a trasferirli nella quota prevista e non necessariamente pari al 50%.

Inoltre, sarebbero anche ammesse deleghe in favore di un convivente al fine di riordinare i rapporti a livello sanitario e per la informativa dei dati.

Tuttavia, permangono problematiche.

Esemplificativamente, non è priva di difficoltà la valutazione di atti compiuti in favore dell’altro convivente, sotto forma di dono, ove la coppia sia squilibrata dal punto di vista economico-finanziario.

In simili situazioni, tali atti potranno essere considerati vere e proprie donazioni, affetti da nullità in mancanza delle prescritte formalità (articoli 782 e seguenti codice civile e 48, Legge 16 febbraio 1913 n. 89), oppure atti di assolvimento di obbligazioni naturali ex articolo 2034 codice civile.

Per le unioni “di fatto” effettivamente animate da uno spirito simile a quello matrimoniale, anche elargizioni collocate fuori dalla quotidianità possono considerarsi giustificate, tramite ricorso sia alla figura della liberalità d’uso sia alla costituzione giuridica del negotium mixtum cum donatione, non richiedente la forma dell’atto pubblico, in virtù della prevalenza di uno scopo remunerativo inerente a obblighi di tipo sociale e morale[9].

Dal punto di vista successorio, il convivente non è tutelato se non tramite testamento. Nonostante la legge italiana manchi di disciplinare la successione del convivente non coniugato, è auspicata una (prossima) regolamentazione legislativa in materia.

Sempre più frequentemente la legge utilizza il termine “convivente” in aggiunta a quello di “coniuge”, come nel caso dell’istituto della amministrazione di sostegno, introdotto con Legge 9 gennaio 2004, n. 6, cui è previsto l’accesso tramite ricorso presentato dal “coniuge” o anche da “persona stabilmente convivente”.

Nel campo della legislazione socio-assistenziale, la possibilità di assentarsi dal lavoro in caso di malattie è diritto tanto del coniuge quanto del convivente.

Equiparazione si determina, inoltre, anche in materia di operazioni per trapianto di organi, di accertamento della morte cerebrale e di procreazione medicalmente assistita.

La disciplina sulla violenza nelle relazioni familiari (Legge 28 marzo 2001, n. 149, che ha modificato il comma 2 dell’articolo 330 codice civile[10]) prescrive l’allontanamento dalla residenza o altri ordini di protezione anche nel caso in cui la condotta violenta sia tenuta dal convivente, non solo dal coniuge.

In prospettiva processual-penalistica la facoltà di astensione dalla testimonianza è stata estesa anche al partner[11].

All’interno dell’ambito assicurativo, quanto alla disciplina della responsabilità nei confronti del soggetto terzo trasportato, convivente e coniuge sono assimilati.

Da quanto premesso è possibile affermare che la tutela dei diritti della persona non si mostri completa senza garantire qualsivoglia relazione in cui la personalità umana si esprime.

L’individuo è tutelato di per sé e nella sfera dei rapporti personali, ove quindi significativa è anche l’unione “di fatto”.

Riforma determinante per la definizione dei rapporti tra coniugi e per lo status dei figli nati fuori dal matrimonio si è avuta fin dal 1975, con la Legge n. 151.

Attualmente, a seguito della entrata in vigore della recentissima Legge 10 dicembre 2012, n. 219, l’articolo 317 bis codice civile regola la potestà dei genitori non sposati e conviventi[12].

Indirettamente, disciplina non solo il rapporto verticale tra genitori e figli ma anche quello orizzontale tra gli stessi genitori conviventi, applicando la regola dell’accordo.

Differenza notevole per le coppie “di fatto”, rispetto alla famiglia legittima, attiene al momento della crisi, che in questo secondo caso non comporta un passaggio istituzionale ma solo apre questioni relative ad eventuali figli.

Essendo la coppia libera di formarsi o s-formarsi, il danno da rottura del rapporto non è proponibile, a meno che tale rottura sia stata particolarmente negativa, connotata da slealtà e da comportamenti lesivi dei diritti fondamentali dell’individuo.

Al di fuori del matrimonio, da un lato, si delinea un obbligo giuridico, dall’altro, invece, una corrispondente obbligazione naturale di cui non potrà essere chiesta restituzione se spontaneamente adempiuta da parte di un soggetto capace di intendere e di volere.

Talvolta, però, non si tratta solo di contributi alle spese correnti bensì di elargizioni maggiori.

Il riferimento è a somme di denaro conferite in occasione di una determinata situazione, come in caso di ristrutturazioni, doni o intestazioni di immobili.

La configurazione di questi casi come obbligazioni di tipo naturale è messa in dubbio: se due soggetti decidono di vivere insieme e di ripartire le spese della vita comune, sorgono obbligazioni provenienti da un accordo tra loro stipulato, quindi a carattere giuridico.

La Legge 8 febbraio 2006, n. 54, sull’affidamento condiviso, ha specificamente esteso le nuove norme ai procedimenti riguardanti i figli di genitori non coniugati (articolo 4).

Un problema derivante dalla legge summenzionata, oggi comunque superato dalla recente riforma del 2012, ineriva alla ripartizione delle competenze tra Giudice ordinario e Tribunale per i minorenni.

Il provvedimento legislativo ha stabilito all’articolo 38 Disposizioni di attuazione del codice civile, le materie di competenza del Tribunale per i minorenni, ex articoli 84, 90, 330, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, codice civile: ivi è esclusa la competenza di tale Autorità giudiziaria ove tra le medesime parti sia pendente un giudizio di separazione, divorzio oppure ex articolo 316 codice civile[13].

Come già accennato, la Legge n. 219/12 modifica l’assetto giuridico della filiazione, sulla base del principio secondo cui tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico, e dispone la sostituzione, nel codice civile e negli altri testi di legge, dei termini “figli legittimi” e “figli naturali” con la parola “figli”, senza aggettivazioni.

Per apprezzare in modo pieno la rilevanza della legge e così ricostruire il nuovo assetto dei rapporti familiari che essa introduce, è opportuno un breve richiamo alla recente evoluzione del diritto di filiazione.

Il codice civile del 1942 contrapponeva nettamente gli status di “figlio legittimo” e di “figlio illegittimo”: tale ultimo attributo evidenziava il principio per cui, per essere conforme alla legge, la filiazione presupponeva il vincolo matrimoniale tra i genitori. Di conseguenza, i rapporti di famiglia in senso proprio avrebbero potuto radicarsi esclusivamente nell’ambito del matrimonio.

A ciascuna di queste situazioni corrispondeva una ben diversificata posizione giuridica del figlio, fondata sugli articoli 147 e 148 codice civile, nel Capo relativo a diritti e doveri del matrimonio.

Quanto alla prole “illegittima”, il legislatore disponeva per relationem all’articolo 261 codice civile, collegato al precedente articolo 258, alla cui stregua il riconoscimento aveva effetto solo riguardo al genitore da cui era stato fatto.

Sul piano successorio, ai figli legittimi era riservata una quota di eredità doppia rispetto a quella prevista per i figli naturali.

Ancora più negletta era la sorte dei figli non riconosciuti né riconoscibili, tra cui, fino alla riforma del 1975, i figli adulterini, in favore dei quali, in origine, erano previsti esclusivamente un obbligo alimentare e un assegno vitalizio in sede successoria.

Ratio di un simile sistema consisteva nel rafforzare la posizione della famiglia legittima, intesa quale unica entità sociale e giuridica, vera e propria istituzione capace di assolvere ai compiti di mantenimento, di istituzione e di educazione necessari ad assicurare una ordinata vita sociale.

Per lungo tempo il modello familiare tradizionale non è stato discusso, neppure al momento di entrata in vigore della Costituzione, le cui disposizioni, peraltro, enunciavano principi quali la uguaglianza giuridica e morale tra i coniugi nonché il dovere-diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli (anche se nati fuori dal matrimonio).

Il processo di parificazione della filiazione, iniziato con Legge n. 151/75, è stato poi proseguito dal legislatore nel 2006, ove, dettando regole in tema di affidamento condiviso, si sono unificate le regole sostanziali applicabili successivamente alla disgregazione della coppia genitoriale, anche in riferimento ai procedimenti coinvolgenti figli di genitori non coniugati.

Nel 2012, a seguito di interventi in tal senso della Consulta, si è inteso conferire unicità allo stato giuridico della filiazione assorbendo e superando il principio di parità attuato con la riforma degli Anni ’70.

Disposizione centrale è l’articolo 315 codice civile, il quale afferma il medesimo status giuridico per ogni figlio.

A questa norma si collega quella che, modificando l’articolo 74 codice civile, stabilisce che “la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui il figlio è adottivo”.

Ulteriore connessione è possibile riguardo al modificato articolo 258 codice civile, secondo cui “il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso”.

Si pone quindi l’interrogativo della coerenza del nuovo assetto rispetto a quanto enunciato dagli articoli 29, comma 1 e 30, ultimo comma, Costituzione.

L’articolo 315 bis codice civile, rubricato “Diritti e doveri del figlio”, enuncia e trasferisce nella sede opportuna il principio per cui i genitori hanno l’obbligo di mantenere, educare, istruire ed assistere moralmente la prole, rispettandone al contempo capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni.

Il rapporto educativo è stato trasformato nel corso del tempo e delle riforme intervenute: l’attuale articolo 316 è rubricato sotto il titolo “Responsabilità genitoriale”, sostitutivo del precedente “Esercizio della potestà dei genitori”.

Se confrontiamo il testo costituzionale con la Carta di Nizza, ossia la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, del dicembre 2000, quest’ultima, ex articolo 24, prevede un contenuto molto più ampio: l’interesse superiore del bambino dev’essere di preminente considerazione, affermandosi nell’esperienza europea come criterio guida.

Egli ha diritto di esprimere la propria opinione, di dare voce ad aspirazioni ed interessi suoi propri.

Infine, il bambino ha diritto di stabilire e conservare rapporti personali con entrambi i genitori: è il criterio della bi-genitorialità, principio etico in base al quale un figlio ha la legittima aspirazione e il conseguente parimenti legittimo diritto di mantenere con i genitori una relazione stabile anche in caso di separazione o di divorzio.

Tale diritto si basa sulla considerazione per cui essere genitori rappresenta un impegno nei confronti dei medesimi figli e non dell’altro genitore.

Il principio promuove la pratica dell’affido condiviso in tutela del benessere dei minori, richiedenti cure, educazione ed affetto da entrambi i genitori, a prescindere dalla relazione tra loro esistente.

Considerando le recenti proposte in tema di unioni “di fatto”, si ricorda che a inizio ottobre 2008 era stata elaborata una proposta di riconoscimento per coppie sia eterosessuali sia omosessuali, “Diritti e Doveri di Reciprocità dei conviventi”, effettivamente presentata al Parlamento.

Attualmente, nella vigenza della XVII Legislatura, risulta in corso di esame alla 2° commissione permanente (Giustizia) il Disegno di legge intitolato “Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili[14].

Il tema oggetto di ricerca è eticamente ed ideologicamente sensibile. Suscita quindi vivaci dibattiti e polemiche, in particolare se speculato secondo la prospettiva di una eventuale ed ammissibile estensione di copertura legislativa anche nei confronti di convivenze same-sex.

 

[1] F. CARINGELLA e D. DIMATTEO, “La famiglia di fatto e la tutela dei suoi componenti sta acquistando sempre maggiore spazio nell’elaborazione del diritto vivente”, in Diritto e Giurisprudenza commentata, Roma, 2014, p. 59.

[2] Corte cost., 19 dicembre 1968, n. 126, in Giurisprudenza costituzionale, 1968, p. 2192.

[3] L. LENTI, Violazione dei doveri familiari e responsabilità civile, in (a cura di G. FERRANDO e L. LENTI) La separazione personale dei coniugi, Padova, 2011, p. 573.

[4] Modifiche avvenute tramite Legge 6 marzo 1987, n. 74; v. M. DOGLIOTTI e A. FIGONE, Separazione e divorzio: i presupposti, Milano, 2012, pp. 7 e ss.

[5] V. ROPPO, Diritto privato, Torino, pp. 885 e 886.

[6] Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404.

[7] Trib. Roma, 9 luglio 1991, n. 9693.

[8] Tra gli altri, v. G. ALPA e G. FERRANDO, Se siano efficaci – in assenza di omologazione – gli accordi tra i coniugi con i quali vengono modificate le condizioni stabilite nella sentenza di separazione relative al mantenimento dei figli, in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia, dedicate ad A. TRABUCCHI, Padova, 1989, pp. 505 e ss.; T. AULETTA, Gli accordi sulla crisi coniugale, in Familia, 2003, pp. 45 e ss.; L. BALESTRA, Autonomia negoziale e crisi coniugale: gli accordi in vista della separazione, in Rivista di diritto civile, 2005, II, p. 277.

[9]Per la donazione è richiesta la forma dell’atto pubblico notarile, con la presenza di due testimoni, a pena di nullità. La donazione può essere gravata da un onere. Ad esempio, nel caso della donazione tra conviventi, potrà essere assoggettata all’onere di prestare assistenza morale e/o materiale al convivente donante; il convivente donatario, peraltro, sarà tenuto a tale adempimento nei limiti del valore della cosa donata. L’eventuale risoluzione per inadempimento deve essere espressamente prevista nell’atto. Tra conviventi può essere opportuno inoltre il ricorso alla donazione rimuneratoria, fatta cioè per riconoscenza o per meriti del donatario o ancora per speciale rimunerazione, e come tale non è soggetta a revocazione per ingratitudine o per sopravvenienza di figli. Se è intenzione del convivente beneficiari il proprio partner ma non i suoi eredi, nel caso in cui quest’ultimo deceda prima di lui si può far ricorso alla particolare figura della donazione con patto di riversibilità.”, su http://www.notariato.it/export/sites/default/it/notariato/chi-siamo/allegati-chi-siamo/Guida_Convivenza.pdf.

[10] Articolo 330 codice civile: “Decadenza dalla responsabilità genitoriale sui figli. Il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio.

In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore”.

Inoltre, la Legge 4 aprile 2001, n. 154 ha inserito nel codice civile il Titolo IX bis, su “Ordini di protezione contro gli abusi familiari”. La protezione contro simili abusi è riferita sia il coniuge sia il convivente.

[11] V. articolo 199 codice procedura penale.

In diritto processuale civile, la Corte Costituzionale con sentenza n. 248 del 23 luglio 1974 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 247 codice di procedura civile poichè affermava la impossibilità di testimoniare per coniuge, parenti e affini.

[12] Con riguardo alla tutela approntata dal Giudice verso i figli nel contesto di situazioni familiari problematiche v. gli attuali artt. 337 bis- 337 octies cod. civ., introdotti dalla Legge 10 dicembre 2012, n. 219, “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”.

[13] Per approfondimenti l’argomento v., ad esempio, V. MONTARULI, Il nuovo riparto di competenze tra giudice ordinario e minorile, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2013, n. 4, p. 218.

[14] V. su http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/40058.htm.

Storicamente, all’interno del codice civile entrato in vigore nel 1942, l’istituto familiare è stato inteso quale unione in matrimonio tra due soggetti la cui discendenza sarebbe stata, pertanto, “legittima”.

Si tratta di una formazione sociale pre-giuridica che, per le caratteristiche sue proprie, può collocarsi tanto tra le comunità volontarie quanto tra le comunità a carattere necessario.

Volontari sono l’atto costitutivo iniziale (dato che si forma sulla base di una libera scelta da parte dei futuri marito e moglie), nonché gli eventuali atti di separazione e divorzio in situazioni di crisi del rapporto. 

La famiglia costituisce una comunità invece necessaria per i figli quanto alla posizione da loro ricoperta per effetto della nascita e almeno fino al compimento dei diciotto anni.

L’evolversi della società nel tempo ha conosciuto la formazione di coppie anche al di fuori del vincolo coniugale[1].

Nel 1968 la Corte Costituzionale[2] ha dichiarato illegittimo il reato di adulterio, con conseguente previsione di irrisarcibilità, in tal caso, del danno morale eventualmente riconosciuto. La giurisprudenza del tempo sull’articolo 2059 codice civile non ammetteva infatti il risarcimento a fronte di una simile tipologia di danno se non nella forma del danno morale soggettivo, ossia per condotta costituente al contempo anche reato[3].

In passato vigeva inoltre una concezione pubblicistica della famiglia, modificatasi solo gradualmente, prima con Legge 19 maggio 1975, n. 151 e poi per effetto delle modifiche alla Legge 1 dicembre 1970, n. 898[4].

Quanto al testo della Costituzione, carta fondamentale nel sistema delle fonti del nostro ordinamento giuridico, l’articolo 29 è sempre stato riferito unicamente alla famiglia legittima intesa come società naturale fondata sul matrimonio.

Base normativa in Costituzione per le unioni non coniugali può essere ravvisata all’articolo 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’Uomo come singolo ma anche nelle formazioni sociali ove svolge la propria personalità.

Secondo gli orientamenti prevalenti, la naturalità della famiglia, come formazione sociale, affermerebbe la piena autonomia della stessa nei confronti dello Stato.

In ogni caso, non esiste contraddizione tra l’autonomia riconosciuta alla famiglia e la competenza statale ad intervenirvi qualora si consideri che la normativa (costituzionale e primaria) debba limitarsi a definire i limiti nel cui rispetto i componenti il nucleo familiare possono autonomamente organizzarsi.

Lo status delle due tipologie di famiglia non è fisiologicamente identico. Le rispettive formazioni sociali, pertanto, non possono essere ex lege pienamente equiparate[5].

In un Paese democratico liberale avanzato dovrebbe riconoscersi a ciascun cittadino il diritto di scegliere le modalità con cui organizzare la propria esistenza, quindi tra celebrare un matrimonio civile, religioso o concordatario, stipulare un patto di convivenza liberamente disciplinato e sottoscritto (prevedendo diritti e doveri, di cui alcuni inderogabili), oppure ancora semplicemente convivere “di fatto”, senza individuazione specifica di obbligazioni o diritti reciproci.

In tale ultimo caso sarebbe comunque rispettata l’autonomia della coppia, che evidentemente non ha inteso sottoscrivere un patto formale.

Il diritto di famiglia disciplina rapporti personali e patrimoniali tramite tanto norme imperative, le quali intendono garantire interessi pubblici (spesso con riferimento alla tutela dei soggetti “deboli”), quanto norme dispositive, che permettono all’autonomia privata di esplicarsi.

Consentire che da un comportamento concreto quale la convivenza derivino ex lege effetti giuridici porrebbe a rischio la posizione di terzi estranei alla relazione in esame e violerebbe, per eccesso di tutela, il diritto di ogni individuo a regolare facoltativamente il rapporto inter partes, in conformità all’ordine pubblico e al buon costume.

Fino ad ora, in Italia, il dibattito sugli accordi di convivenza non ha conosciuto adeguati interventi legislativi, a causa della mancata univocità di intenti, determinata soprattutto dalla coesistenza nel nostro Paese di tradizioni, culture e ideologie differenti, che prospettano ipotesi di assetto della società e dello Stato assai eterogenee.

La Corte Costituzionale ha più volte sollecitato il Parlamento ad intervenire in materia mediante un provvedimento organico e si è espressa in casi specifici riconoscendo, ad esempio, che le convivenze more uxorio esprimano una scelta di libertà rispetto alle regole legislative sancite in dipendenza del matrimonio.

Nel frattempo, numerosi sono stati gli interventi giurisprudenziali.

Nell’ambito dei contratti di locazione, ad esempio, la Consulta[6] ha affermato il diritto di successione per il convivente del defunto-parte contraente.

Sotto altro profilo, il Tribunale di Roma, a inizio Anni ’90, ha sancito il diritto del partner alla risarcibilità del danno biologico nei confronti di terzi in caso di morte del soggetto convivente[7].

Si è anche accostato il termine “patto” a quello di “matrimonio” nell’ambito della (finora assai discussa) categoria degli accordi (o appunto “patti”) prematrimoniali[8].

Il matrimonio comporta numerosi obblighi quanto ai rapporti personali, tra cui assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia, fedeltà e coabitazione (articolo 143, comma 2, codice civile).

In caso di convivenza, una coppia “di fatto” che volesse rendere più sicura l’unione potrebbe prevedere obblighi di contribuzione reciproca al ménage familiare: ad esempio, sarebbe possibile costituire un conto corrente comune con versamento mensile di un determinato importo oppure un regime di comunione, sia pure “anomala”, e quindi distinta dall’istituto della comunione legale.

I conviventi potrebbero intendere determinati loro beni, immobili, mobili registrati o altro, in regime di comunione, impegnandosi reciprocamente l’un l’altra, con mandato, a trasferirli nella quota prevista e non necessariamente pari al 50%.

Inoltre, sarebbero anche ammesse deleghe in favore di un convivente al fine di riordinare i rapporti a livello sanitario e per la informativa dei dati.

Tuttavia, permangono problematiche.

Esemplificativamente, non è priva di difficoltà la valutazione di atti compiuti in favore dell’altro convivente, sotto forma di dono, ove la coppia sia squilibrata dal punto di vista economico-finanziario.

In simili situazioni, tali atti potranno essere considerati vere e proprie donazioni, affetti da nullità in mancanza delle prescritte formalità (articoli 782 e seguenti codice civile e 48, Legge 16 febbraio 1913 n. 89), oppure atti di assolvimento di obbligazioni naturali ex articolo 2034 codice civile.

Per le unioni “di fatto” effettivamente animate da uno spirito simile a quello matrimoniale, anche elargizioni collocate fuori dalla quotidianità possono considerarsi giustificate, tramite ricorso sia alla figura della liberalità d’uso sia alla costituzione giuridica del negotium mixtum cum donatione, non richiedente la forma dell’atto pubblico, in virtù della prevalenza di uno scopo remunerativo inerente a obblighi di tipo sociale e morale[9].

Dal punto di vista successorio, il convivente non è tutelato se non tramite testamento. Nonostante la legge italiana manchi di disciplinare la successione del convivente non coniugato, è auspicata una (prossima) regolamentazione legislativa in materia.

Sempre più frequentemente la legge utilizza il termine “convivente” in aggiunta a quello di “coniuge”, come nel caso dell’istituto della amministrazione di sostegno, introdotto con Legge 9 gennaio 2004, n. 6, cui è previsto l’accesso tramite ricorso presentato dal “coniuge” o anche da “persona stabilmente convivente”.

Nel campo della legislazione socio-assistenziale, la possibilità di assentarsi dal lavoro in caso di malattie è diritto tanto del coniuge quanto del convivente.

Equiparazione si determina, inoltre, anche in materia di operazioni per trapianto di organi, di accertamento della morte cerebrale e di procreazione medicalmente assistita.

La disciplina sulla violenza nelle relazioni familiari (Legge 28 marzo 2001, n. 149, che ha modificato il comma 2 dell’articolo 330 codice civile[10]) prescrive l’allontanamento dalla residenza o altri ordini di protezione anche nel caso in cui la condotta violenta sia tenuta dal convivente, non solo dal coniuge.

In prospettiva processual-penalistica la facoltà di astensione dalla testimonianza è stata estesa anche al partner[11].

All’interno dell’ambito assicurativo, quanto alla disciplina della responsabilità nei confronti del soggetto terzo trasportato, convivente e coniuge sono assimilati.

Da quanto premesso è possibile affermare che la tutela dei diritti della persona non si mostri completa senza garantire qualsivoglia relazione in cui la personalità umana si esprime.

L’individuo è tutelato di per sé e nella sfera dei rapporti personali, ove quindi significativa è anche l’unione “di fatto”.

Riforma determinante per la definizione dei rapporti tra coniugi e per lo status dei figli nati fuori dal matrimonio si è avuta fin dal 1975, con la Legge n. 151.

Attualmente, a seguito della entrata in vigore della recentissima Legge 10 dicembre 2012, n. 219, l’articolo 317 bis codice civile regola la potestà dei genitori non sposati e conviventi[12].

Indirettamente, disciplina non solo il rapporto verticale tra genitori e figli ma anche quello orizzontale tra gli stessi genitori conviventi, applicando la regola dell’accordo.

Differenza notevole per le coppie “di fatto”, rispetto alla famiglia legittima, attiene al momento della crisi, che in questo secondo caso non comporta un passaggio istituzionale ma solo apre questioni relative ad eventuali figli.

Essendo la coppia libera di formarsi o s-formarsi, il danno da rottura del rapporto non è proponibile, a meno che tale rottura sia stata particolarmente negativa, connotata da slealtà e da comportamenti lesivi dei diritti fondamentali dell’individuo.

Al di fuori del matrimonio, da un lato, si delinea un obbligo giuridico, dall’altro, invece, una corrispondente obbligazione naturale di cui non potrà essere chiesta restituzione se spontaneamente adempiuta da parte di un soggetto capace di intendere e di volere.

Talvolta, però, non si tratta solo di contributi alle spese correnti bensì di elargizioni maggiori.

Il riferimento è a somme di denaro conferite in occasione di una determinata situazione, come in caso di ristrutturazioni, doni o intestazioni di immobili.

La configurazione di questi casi come obbligazioni di tipo naturale è messa in dubbio: se due soggetti decidono di vivere insieme e di ripartire le spese della vita comune, sorgono obbligazioni provenienti da un accordo tra loro stipulato, quindi a carattere giuridico.

La Legge 8 febbraio 2006, n. 54, sull’affidamento condiviso, ha specificamente esteso le nuove norme ai procedimenti riguardanti i figli di genitori non coniugati (articolo 4).

Un problema derivante dalla legge summenzionata, oggi comunque superato dalla recente riforma del 2012, ineriva alla ripartizione delle competenze tra Giudice ordinario e Tribunale per i minorenni.

Il provvedimento legislativo ha stabilito all’articolo 38 Disposizioni di attuazione del codice civile, le materie di competenza del Tribunale per i minorenni, ex articoli 84, 90, 330, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, codice civile: ivi è esclusa la competenza di tale Autorità giudiziaria ove tra le medesime parti sia pendente un giudizio di separazione, divorzio oppure ex articolo 316 codice civile[13].

Come già accennato, la Legge n. 219/12 modifica l’assetto giuridico della filiazione, sulla base del principio secondo cui tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico, e dispone la sostituzione, nel codice civile e negli altri testi di legge, dei termini “figli legittimi” e “figli naturali” con la parola “figli”, senza aggettivazioni.

Per apprezzare in modo pieno la rilevanza della legge e così ricostruire il nuovo assetto dei rapporti familiari che essa introduce, è opportuno un breve richiamo alla recente evoluzione del diritto di filiazione.

Il codice civile del 1942 contrapponeva nettamente gli status di “figlio legittimo” e di “figlio illegittimo”: tale ultimo attributo evidenziava il principio per cui, per essere conforme alla legge, la filiazione presupponeva il vincolo matrimoniale tra i genitori. Di conseguenza, i rapporti di famiglia in senso proprio avrebbero potuto radicarsi esclusivamente nell’ambito del matrimonio.

A ciascuna di queste situazioni corrispondeva una ben diversificata posizione giuridica del figlio, fondata sugli articoli 147 e 148 codice civile, nel Capo relativo a diritti e doveri del matrimonio.

Quanto alla prole “illegittima”, il legislatore disponeva per relationem all’articolo 261 codice civile, collegato al precedente articolo 258, alla cui stregua il riconoscimento aveva effetto solo riguardo al genitore da cui era stato fatto.

Sul piano successorio, ai figli legittimi era riservata una quota di eredità doppia rispetto a quella prevista per i figli naturali.

Ancora più negletta era la sorte dei figli non riconosciuti né riconoscibili, tra cui, fino alla riforma del 1975, i figli adulterini, in favore dei quali, in origine, erano previsti esclusivamente un obbligo alimentare e un assegno vitalizio in sede successoria.

Ratio di un simile sistema consisteva nel rafforzare la posizione della famiglia legittima, intesa quale unica entità sociale e giuridica, vera e propria istituzione capace di assolvere ai compiti di mantenimento, di istituzione e di educazione necessari ad assicurare una ordinata vita sociale.

Per lungo tempo il modello familiare tradizionale non è stato discusso, neppure al momento di entrata in vigore della Costituzione, le cui disposizioni, peraltro, enunciavano principi quali la uguaglianza giuridica e morale tra i coniugi nonché il dovere-diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli (anche se nati fuori dal matrimonio).

Il processo di parificazione della filiazione, iniziato con Legge n. 151/75, è stato poi proseguito dal legislatore nel 2006, ove, dettando regole in tema di affidamento condiviso, si sono unificate le regole sostanziali applicabili successivamente alla disgregazione della coppia genitoriale, anche in riferimento ai procedimenti coinvolgenti figli di genitori non coniugati.

Nel 2012, a seguito di interventi in tal senso della Consulta, si è inteso conferire unicità allo stato giuridico della filiazione assorbendo e superando il principio di parità attuato con la riforma degli Anni ’70.

Disposizione centrale è l’articolo 315 codice civile, il quale afferma il medesimo status giuridico per ogni figlio.

A questa norma si collega quella che, modificando l’articolo 74 codice civile, stabilisce che “la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui il figlio è adottivo”.

Ulteriore connessione è possibile riguardo al modificato articolo 258 codice civile, secondo cui “il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso”.

Si pone quindi l’interrogativo della coerenza del nuovo assetto rispetto a quanto enunciato dagli articoli 29, comma 1 e 30, ultimo comma, Costituzione.

L’articolo 315 bis codice civile, rubricato “Diritti e doveri del figlio”, enuncia e trasferisce nella sede opportuna il principio per cui i genitori hanno l’obbligo di mantenere, educare, istruire ed assistere moralmente la prole, rispettandone al contempo capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni.

Il rapporto educativo è stato trasformato nel corso del tempo e delle riforme intervenute: l’attuale articolo 316 è rubricato sotto il titolo “Responsabilità genitoriale”, sostitutivo del precedente “Esercizio della potestà dei genitori”.

Se confrontiamo il testo costituzionale con la Carta di Nizza, ossia la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, del dicembre 2000, quest’ultima, ex articolo 24, prevede un contenuto molto più ampio: l’interesse superiore del bambino dev’essere di preminente considerazione, affermandosi nell’esperienza europea come criterio guida.

Egli ha diritto di esprimere la propria opinione, di dare voce ad aspirazioni ed interessi suoi propri.

Infine, il bambino ha diritto di stabilire e conservare rapporti personali con entrambi i genitori: è il criterio della bi-genitorialità, principio etico in base al quale un figlio ha la legittima aspirazione e il conseguente parimenti legittimo diritto di mantenere con i genitori una relazione stabile anche in caso di separazione o di divorzio.

Tale diritto si basa sulla considerazione per cui essere genitori rappresenta un impegno nei confronti dei medesimi figli e non dell’altro genitore.

Il principio promuove la pratica dell’affido condiviso in tutela del benessere dei minori, richiedenti cure, educazione ed affetto da entrambi i genitori, a prescindere dalla relazione tra loro esistente.

Considerando le recenti proposte in tema di unioni “di fatto”, si ricorda che a inizio ottobre 2008 era stata elaborata una proposta di riconoscimento per coppie sia eterosessuali sia omosessuali, “Diritti e Doveri di Reciprocità dei conviventi”, effettivamente presentata al Parlamento.

Attualmente, nella vigenza della XVII Legislatura, risulta in corso di esame alla 2° commissione permanente (Giustizia) il Disegno di legge intitolato “Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili[14].

Il tema oggetto di ricerca è eticamente ed ideologicamente sensibile. Suscita quindi vivaci dibattiti e polemiche, in particolare se speculato secondo la prospettiva di una eventuale ed ammissibile estensione di copertura legislativa anche nei confronti di convivenze same-sex.

 

[1] F. CARINGELLA e D. DIMATTEO, “La famiglia di fatto e la tutela dei suoi componenti sta acquistando sempre maggiore spazio nell’elaborazione del diritto vivente”, in Diritto e Giurisprudenza commentata, Roma, 2014, p. 59.

[2] Corte cost., 19 dicembre 1968, n. 126, in Giurisprudenza costituzionale, 1968, p. 2192.

[3] L. LENTI, Violazione dei doveri familiari e responsabilità civile, in (a cura di G. FERRANDO e L. LENTI) La separazione personale dei coniugi, Padova, 2011, p. 573.

[4] Modifiche avvenute tramite Legge 6 marzo 1987, n. 74; v. M. DOGLIOTTI e A. FIGONE, Separazione e divorzio: i presupposti, Milano, 2012, pp. 7 e ss.

[5] V. ROPPO, Diritto privato, Torino, pp. 885 e 886.

[6] Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404.

[7] Trib. Roma, 9 luglio 1991, n. 9693.

[8] Tra gli altri, v. G. ALPA e G. FERRANDO, Se siano efficaci – in assenza di omologazione – gli accordi tra i coniugi con i quali vengono modificate le condizioni stabilite nella sentenza di separazione relative al mantenimento dei figli, in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia, dedicate ad A. TRABUCCHI, Padova, 1989, pp. 505 e ss.; T. AULETTA, Gli accordi sulla crisi coniugale, in Familia, 2003, pp. 45 e ss.; L. BALESTRA, Autonomia negoziale e crisi coniugale: gli accordi in vista della separazione, in Rivista di diritto civile, 2005, II, p. 277.

[9]Per la donazione è richiesta la forma dell’atto pubblico notarile, con la presenza di due testimoni, a pena di nullità. La donazione può essere gravata da un onere. Ad esempio, nel caso della donazione tra conviventi, potrà essere assoggettata all’onere di prestare assistenza morale e/o materiale al convivente donante; il convivente donatario, peraltro, sarà tenuto a tale adempimento nei limiti del valore della cosa donata. L’eventuale risoluzione per inadempimento deve essere espressamente prevista nell’atto. Tra conviventi può essere opportuno inoltre il ricorso alla donazione rimuneratoria, fatta cioè per riconoscenza o per meriti del donatario o ancora per speciale rimunerazione, e come tale non è soggetta a revocazione per ingratitudine o per sopravvenienza di figli. Se è intenzione del convivente beneficiari il proprio partner ma non i suoi eredi, nel caso in cui quest’ultimo deceda prima di lui si può far ricorso alla particolare figura della donazione con patto di riversibilità.”, su http://www.notariato.it/export/sites/default/it/notariato/chi-siamo/allegati-chi-siamo/Guida_Convivenza.pdf.

[10] Articolo 330 codice civile: “Decadenza dalla responsabilità genitoriale sui figli. Il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio.

In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore”.

Inoltre, la Legge 4 aprile 2001, n. 154 ha inserito nel codice civile il Titolo IX bis, su “Ordini di protezione contro gli abusi familiari”. La protezione contro simili abusi è riferita sia il coniuge sia il convivente.

[11] V. articolo 199 codice procedura penale.

In diritto processuale civile, la Corte Costituzionale con sentenza n. 248 del 23 luglio 1974 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 247 codice di procedura civile poichè affermava la impossibilità di testimoniare per coniuge, parenti e affini.

[12] Con riguardo alla tutela approntata dal Giudice verso i figli nel contesto di situazioni familiari problematiche v. gli attuali artt. 337 bis- 337 octies cod. civ., introdotti dalla Legge 10 dicembre 2012, n. 219, “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”.

[13] Per approfondimenti l’argomento v., ad esempio, V. MONTARULI, Il nuovo riparto di competenze tra giudice ordinario e minorile, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2013, n. 4, p. 218.

[14] V. su http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/40058.htm.