Fede nel diritto
Non sorprende osservare quanto la figura poliedrica del Calamandrei sèguiti ad affascinare studiosi e persone comuni; in lui ritroviamo, secondo l’angolo visuale fatto proprio, il giurista e l’accademico, l’intellettuale firmatario del manifesto degli Intellettuali Antifascisti (1925) e il cantore della Resistenza (Uomini e città della resistenza), l’uomo politico tra i fondatori del Partito d’Azione ed il costituente, il narratore (Inventario della casa di campagna), accanto all’uomo privato e al padre nel conflittuale rapporto col figlio Franco (Una famiglia in guerra. Lettere 1939-1945).
Ruolo determinante nell’apertura degli archivi della famiglia Calamandrei ha avuto la figlia di Franco, Silvia, la quale ha curato anche la pubblicazione dei diari di suo padre. La grande attenzione dedicata a Piero Calamandrei, al personaggio e all’uomo, da parte della casa editrice Laterza ha consentito anche ai giovani di accedere a scritti dalla provenienza più eterogenea; al lettore è così dato ricostruire attraverso le trame di una singolare vicenda umana e familiare, il clima di un’intera epoca.
L’inedito recentemente pubblicato è un discorso pubblico tenuto in una conferenza presso la FUCI fiorentina, Fede nel diritto, editori Laterza, a cura di Silvia Calamandrei, preceduto da tre brevi saggi introduttivi, di seguito enumerati nell’ordine in cui compaiono: G. Zagrebelsky , Una travagliata apologia della legge; Il rifiuto del sistema normativo dei totalitarismi di P. Rescigno; Un atto di << fede nel diritto>> di G. Alpa.; il testo è concluso da un’appendice in cui figurano le riflessioni di Silvia Calamandrei e la riproduzione di uno scambio epistolare tra il filosofo Guido Calogero e Piero Calamandrei, avente per oggetto proprio il testo della conferenza, che - nelle intenzioni mai realizzatesi dell’autore – doveva essere germe di un futuro saggio.
Gli anni tra il 1939-1942 sono quelli che vedono Calamandrei (malgrado di sentimenti antifascisti, già costretto a prestare formale ossequio al regime attraverso il giuramento di fedeltà per poter continuare a svolgere il suo ruolo di docente universitario) presidente della commissione per la stesura del <<nuovo>> codice di procedura civile, cui presero parte anche Redenti e Carnelutti; del codice sarà proprio Calamandrei a scrivere la relazione al Re per il Guardasigilli pro tempore, Dino Grandi (malgrado G. Alpa ci ricordi che <<gli orpelli di regime che ammantano la relazione (...) sono della penna di Grandi (…)>> e che <<le scelte di fondo>> di quel codice vadano <<considerate di grande pregio>>, p. 57 del saggio introduttivo). Quel 21 gennaio 1940 si colloca nel mezzo di quella difficile collaborazione tecnica, in un’Europa funestata da venti di guerra.
Date queste coordinate storiche, affiora nel lettore la curiosità di leggere un testo che non fu scritto per la pubblicazione; sfogliarlo sembra compiere un gesto furtivo, come se ci si fosse introdotti attraverso un varco incautamente lasciato aperto negli archivi, per cogliere tutto il tormento intellettuale dell’uomo, per trovare il molto di attuale che si annida tra le sue parole. In questa prospettiva i saggi che precedono l’inedito sembrano voler sollecitare, anche nel lettore più sprovveduto, la cautela dovuta verso un testo destinato alla lettura in una conferenza, non alla fissità dello scritto (lo sottolinea in modo efficace G. Zagrebelsky).
Nell’inedito affiora il travaglio del giurista, chiamato a vivere la crisi dello stato liberale, culminata in Italia nelle leggi per la difesa della razza (1938). Calamandrei sembra ragionare dal basso di una trincea, sottolinea come lo stato fascista non fosse giunto agli eccessi cui in Germania aveva condotto la teoria del cosiddetto diritto libero, quella stessa che aveva chiesto al giudice di smettere (totalmente) le vesti del servus legum, per indossare quelle (del tutto politiche) di interprete del volere del Fuhrer, cioè di un imprecisato (né precisabile) sano sentimento popolare (Fuhrerprinzip), da individuarsi imperscrutabilmente e caso per caso. È la politica che soggioga il diritto, come similmente stava accadendo nella Russia sovietica.
Calamandrei si sforza di trovare – malgrado tutto - nel diritto le risposte, riaffermando , contro la deriva germanica , i pregi di un ordinamento, quello italiano, che aveva pur mantenuto la centralità del formidabile strumento della legge, per sua stessa natura generale ed astratta (così anche nel Codice Penale Rocco: nullum crimen sine lege, quello stesso principio relegato a <<pregiudizio della scienza borghese>> secondo Krylenko, p. 87). Ricordando come il principio di legalità sia, al fondamento, espressione della <<uguale dignità morale di tutti gli uomini>>, consentendo a ciascun cittadino, a ciascuno di noi, di <<sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte>>.
Il discorso di Calamandrei potrà forse essere letto come espressione di una connivenza col regime fascista, conclusione che può essere accolta solo dal lettore superficiale, da colui che non si sforzi di restituire le parole lette al tempo in cui furono pronunciate. Quelle parole sono in realtà una difesa della legge, una difesa strenua della figura stessa del giurista, chiamato ad estrapolare il contenuto normativo dalle astratte formulazioni della legge, nel rispetto delle ferree regole dell’ermeneutica giuridica, dei precetti imposti dal metodo giuridico. Accanto all’interpretazione letterale - nell’armamentario tecnico del giurista - vi è l’interpretazione evolutiva e l’analogica, con l’avvertenza che quest’ultima è possibile nei soli casi consentiti. Tutto ciò, ricordando come spesso è lo stesso legislatore a rimettersi all’interprete nella definizione della norma, attraverso le clausole generali, <<organi respiratori>> dei tessuti normativi, attraverso cui circola <<quel tanto di politica che i giudici ed in generale i giuristi si possono permettere senza tradire la loro missione>> (p.99).
Il testo è una difesa estrema del diritto, di quel diritto che era sopravvissuto alla deriva autoritaria. Per quanto faticoso sia comprendere la posizione dell’autore attraverso lo sguardo della posterità (il cosiddetto senno di poi), è di certo un tentativo che merita di essere portato a termine. Comprendere l’approdo alla Costituzione repubblicana del 1948 è possibile solo attraverso l’adeguata conoscenza di ciò che è stato nei faticosi anni che l’hanno preceduta.
L’analisi dei periodi in cui è smarrita la centralità di certi valori ci consente di apprezzarne oggi l’importanza, di riconoscere autentica grandezza in quanti, nelle asperità del tempo vissuto, cercarono in quei valori l’indicazione della via da percorrere.
Non sorprende osservare quanto la figura poliedrica del Calamandrei sèguiti ad affascinare studiosi e persone comuni; in lui ritroviamo, secondo l’angolo visuale fatto proprio, il giurista e l’accademico, l’intellettuale firmatario del manifesto degli Intellettuali Antifascisti (1925) e il cantore della Resistenza (Uomini e città della resistenza), l’uomo politico tra i fondatori del Partito d’Azione ed il costituente, il narratore (Inventario della casa di campagna), accanto all’uomo privato e al padre nel conflittuale rapporto col figlio Franco (Una famiglia in guerra. Lettere 1939-1945).
Ruolo determinante nell’apertura degli archivi della famiglia Calamandrei ha avuto la figlia di Franco, Silvia, la quale ha curato anche la pubblicazione dei diari di suo padre. La grande attenzione dedicata a Piero Calamandrei, al personaggio e all’uomo, da parte della casa editrice Laterza ha consentito anche ai giovani di accedere a scritti dalla provenienza più eterogenea; al lettore è così dato ricostruire attraverso le trame di una singolare vicenda umana e familiare, il clima di un’intera epoca.
L’inedito recentemente pubblicato è un discorso pubblico tenuto in una conferenza presso la FUCI fiorentina, Fede nel diritto, editori Laterza, a cura di Silvia Calamandrei, preceduto da tre brevi saggi introduttivi, di seguito enumerati nell’ordine in cui compaiono: G. Zagrebelsky , Una travagliata apologia della legge; Il rifiuto del sistema normativo dei totalitarismi di P. Rescigno; Un atto di << fede nel diritto>> di G. Alpa.; il testo è concluso da un’appendice in cui figurano le riflessioni di Silvia Calamandrei e la riproduzione di uno scambio epistolare tra il filosofo Guido Calogero e Piero Calamandrei, avente per oggetto proprio il testo della conferenza, che - nelle intenzioni mai realizzatesi dell’autore – doveva essere germe di un futuro saggio.
Gli anni tra il 1939-1942 sono quelli che vedono Calamandrei (malgrado di sentimenti antifascisti, già costretto a prestare formale ossequio al regime attraverso il giuramento di fedeltà per poter continuare a svolgere il suo ruolo di docente universitario) presidente della commissione per la stesura del <<nuovo>> codice di procedura civile, cui presero parte anche Redenti e Carnelutti; del codice sarà proprio Calamandrei a scrivere la relazione al Re per il Guardasigilli pro tempore, Dino Grandi (malgrado G. Alpa ci ricordi che <<gli orpelli di regime che ammantano la relazione (...) sono della penna di Grandi (…)>> e che <<le scelte di fondo>> di quel codice vadano <<considerate di grande pregio>>, p. 57 del saggio introduttivo). Quel 21 gennaio 1940 si colloca nel mezzo di quella difficile collaborazione tecnica, in un’Europa funestata da venti di guerra.
Date queste coordinate storiche, affiora nel lettore la curiosità di leggere un testo che non fu scritto per la pubblicazione; sfogliarlo sembra compiere un gesto furtivo, come se ci si fosse introdotti attraverso un varco incautamente lasciato aperto negli archivi, per cogliere tutto il tormento intellettuale dell’uomo, per trovare il molto di attuale che si annida tra le sue parole. In questa prospettiva i saggi che precedono l’inedito sembrano voler sollecitare, anche nel lettore più sprovveduto, la cautela dovuta verso un testo destinato alla lettura in una conferenza, non alla fissità dello scritto (lo sottolinea in modo efficace G. Zagrebelsky).
Nell’inedito affiora il travaglio del giurista, chiamato a vivere la crisi dello stato liberale, culminata in Italia nelle leggi per la difesa della razza (1938). Calamandrei sembra ragionare dal basso di una trincea, sottolinea come lo stato fascista non fosse giunto agli eccessi cui in Germania aveva condotto la teoria del cosiddetto diritto libero, quella stessa che aveva chiesto al giudice di smettere (totalmente) le vesti del servus legum, per indossare quelle (del tutto politiche) di interprete del volere del Fuhrer, cioè di un imprecisato (né precisabile) sano sentimento popolare (Fuhrerprinzip), da individuarsi imperscrutabilmente e caso per caso. È la politica che soggioga il diritto, come similmente stava accadendo nella Russia sovietica.
Calamandrei si sforza di trovare – malgrado tutto - nel diritto le risposte, riaffermando , contro la deriva germanica , i pregi di un ordinamento, quello italiano, che aveva pur mantenuto la centralità del formidabile strumento della legge, per sua stessa natura generale ed astratta (così anche nel Codice Penale Rocco: nullum crimen sine lege, quello stesso principio relegato a <<pregiudizio della scienza borghese>> secondo Krylenko, p. 87). Ricordando come il principio di legalità sia, al fondamento, espressione della <<uguale dignità morale di tutti gli uomini>>, consentendo a ciascun cittadino, a ciascuno di noi, di <<sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte>>.
Il discorso di Calamandrei potrà forse essere letto come espressione di una connivenza col regime fascista, conclusione che può essere accolta solo dal lettore superficiale, da colui che non si sforzi di restituire le parole lette al tempo in cui furono pronunciate. Quelle parole sono in realtà una difesa della legge, una difesa strenua della figura stessa del giurista, chiamato ad estrapolare il contenuto normativo dalle astratte formulazioni della legge, nel rispetto delle ferree regole dell’ermeneutica giuridica, dei precetti imposti dal metodo giuridico. Accanto all’interpretazione letterale - nell’armamentario tecnico del giurista - vi è l’interpretazione evolutiva e l’analogica, con l’avvertenza che quest’ultima è possibile nei soli casi consentiti. Tutto ciò, ricordando come spesso è lo stesso legislatore a rimettersi all’interprete nella definizione della norma, attraverso le clausole generali, <<organi respiratori>> dei tessuti normativi, attraverso cui circola <<quel tanto di politica che i giudici ed in generale i giuristi si possono permettere senza tradire la loro missione>> (p.99).
Il testo è una difesa estrema del diritto, di quel diritto che era sopravvissuto alla deriva autoritaria. Per quanto faticoso sia comprendere la posizione dell’autore attraverso lo sguardo della posterità (il cosiddetto senno di poi), è di certo un tentativo che merita di essere portato a termine. Comprendere l’approdo alla Costituzione repubblicana del 1948 è possibile solo attraverso l’adeguata conoscenza di ciò che è stato nei faticosi anni che l’hanno preceduta.
L’analisi dei periodi in cui è smarrita la centralità di certi valori ci consente di apprezzarne oggi l’importanza, di riconoscere autentica grandezza in quanti, nelle asperità del tempo vissuto, cercarono in quei valori l’indicazione della via da percorrere.