Frode nell’esercizio di commercio: quale responsabilità per i brand?
Frode nell’esercizio di commercio: quale responsabilità per i brand?
Abstract
Il presente elaborato ha l’obiettivo di analizzare il reato di frode nel commercio e la responsabilità dell’ente che ne deriva, in uno dei settori dell’industria trainante dell’economia nazionale.
Abstract
The purpose of this paper is to analyze the crime of fraud in commerce and the resulting liability of the entity, in one of the leading industry sectors of the national economy.
Indice
- Sostanze chimiche nel tessile
- Art. 515 c.p.; art. 25 bis.1, d.lgs. 231/2001
- Profili di rilevanza e conclusione
1. Sostanze chimiche nel tessile
Le aziende del settore della moda devono sviluppare una politica che si concentri su cambiamenti efficaci e sostenibili nell’uso dei tessuti e nelle condizioni di lavoro dei dipendenti.
Dal momento che la moda opera in un contesto internazionale, si è resa necessaria la realizzazione di standard comuni di cui i marchi di lusso devono tener conto: si pensi a titolo meramente esemplificativo agli standard indicati nel GOTS, ISO 9000 (Cfr. Amiranda, ISO Compliance: dalla OHSAS 18001 alla ISO 45001, Ius in Itinere, disponibile su https://www.iusinitinere.it/iso-compliance-dalla-ohsas-18001-alla-iso-45001-30841), e ulteriori accreditamenti specifici, tra cui le certificazioni di Natific’s Mill e quelle dei singoli fornitori di ciascuna maison.
Le industrie della moda e del tessile, che occupano il primo posto tra le aree trainanti dell’economia italiana, negli ultimi anni hanno dovuto fare i conti con le sfide poste dalla globalizzazione e dalla forte concorrenza con i prodotti dei Paesi asiatici. In questo caso, l’antico settore interno ha dovuto immaginare nuove politiche aziendali che permettessero di ridurre i costi di produzione, dunque orientate a reperire materie prime meno impattanti economicamente, provenienti il più delle volte dai mercati cinese e indiano; spesso all’interno di questi territori vengono trasferite anche le unità produttive, mentre i prodotti lavorati o semilavorati vengono acquistati direttamente dai partner commerciali dell’Asia orientale.
Tuttavia, la crescente domanda di importazione delle imprese italiane di tessuti, pellame e prodotti finiti ha dovuto confrontarsi con la precaria – e, molto spesso, assente – regolamentazione dei Paesi dell’Est, con riguardo alla qualità delle materie esportate e agli eventuali pericoli derivanti dal loro utilizzo. Come noto, al contrario, gli Ordinamenti europei sono sempre più attenti a detti fattori, nell’ottica di una sempre più penetrante tutela della salute dell’uomo e dell’ambiente (Cfr. De Ciglia e Rubino, Vestiti tossici, l’inquinamento addosso, in www.inchieste.repubblica.it, 11 maggio 2016. Tale articolo cita, inoltre, uno studio effettuato da Greenpeace: «Greenpeace dal canto suo ha testato 40 prodotti di abbigliamento e attrezzature outdoor (giacche, scarpe, tende, zaini, sacchi a pelo e persino corde), acquistati in 19 Paesi, trovando tracce di Pfc nel 90% degli articoli. Si tratta di sostanze usate per impermeabilizzare che si degradano con molta difficoltà, rimangono nell’ambiente per centinaia di anni e sono dannose per la salute»).
Come accennato in precedenza, i legislatori dell’UE si sono impegnati molto nello sviluppo di normative per l’importazione e l’uso industriale di sostanze chimiche, attraverso anzitutto l’approvazione dei cosiddetti Regolamenti "REACH" (Registration, Evaluation, Authorization of Chemicals) e "CLP" (Classification, Labelling and Packaging), ossia, rispettivamente, il Regolamento n. 1907/2006/CE e il Regolamento n. 1272/2008/CE.
In particolare, affinché una società del settore della moda possa ritenersi esente da responsabilità rispetto alle patologie che eventualmente vengano manifestate dai consumatori (Così De Luca Claudia, in www.masterreach.unina), essa ha l’obbligo di segnalare le sostanze chimiche che vengano considerate pericolose ai sensi del REACH tramite notifica all’Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche (Considerando 29 del REACH: «Poiché i fabbricanti e gli importatori di articoli dovrebbero essere responsabili dei loro articoli, è opportuno imporre un obbligo di registrazione per le sostanze che sono destinate a essere rilasciate da articoli e che non sono state registrate per tale uso. Nel caso di sostanze estremamente preoccupanti che sono presenti in articoli in quantitativi o concentrazioni superiori ai limiti previsti, qualora l’esposizione alla sostanza non possa essere esclusa e qualora la sostanza non sia stata registrata da una persona per tale uso, è opportuno che l’Agenzia ne sia informata». Occorre sottolineare che l’obbligo di segnalazione è imposto ad ogni attore della filiera del tessile. L’art. 34 del REACH, infatti, afferma: «Ogni attore della catena d’approvvigionamento di una sostanza o di un preparato comunica le seguenti informazioni all’attore o al distributore situato immediatamente a monte nella catena stessa: a) nuove informazioni sulle proprietà pericolose, indipendentemente dagli usi interessati; b) ogni altra informazione che potrebbe porre in dubbio l’adeguatezza delle misure di gestione dei rischi identificate in una scheda di dati di sicurezza che gli è stata fornita; queste informazioni sono comunicate soltanto per gli usi identificati. I distributori trasmettono tali informazioni all’attore o al distributore situato immediatamente a monte nella catena d’approvvigionamento»).
2. Art. 515 c.p.; art. 25 bis.1, d.lgs. 231/2001
Il Regolamento REACH e il CLP – pur trovando diretta applicazione ex TUE, TFUE e articoli 11 e 117 della Costituzione – non prevedono direttamente una responsabilità dipendente da reato per le società che non osservano la normativa sulla conoscenza delle sostanze chimiche e sugli obblighi di classificazione, etichettatura e imballaggio.
Il mancato rispetto di tali norme può tuttavia integrare fattispecie delittuose ai sensi della normativa italiana, quali: omicidio colposo (art. 589 c.p.; art. 25-septies d.lgs. 231/2001), lesioni personali colpose (art. 590 c.p.; art. 25-septies d.lgs. 231/2001) e frode nell’esercizio del commercio (art. 515 c.p., art. 25-bis.1 d.lgs. 231/2001).
L’articolo 515 del Codice Penale, invece, punisce il comportamento di chi, esercitando un’attività commerciale «consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita».
Il bene giuridico così tutelato dalla norma è la tutela del consumatore e l’affidamento negli scambi. È chiaro che l’integrazione del reato di frode in commercio può avvenire anche quando per la fabbricazione di prodotti d’abbigliamento vengano utilizzate sostanze tossiche o, comunque, vietate dal regolamento REACH, dal momento che il consumatore, alla fine della filiera produttiva, acquista un prodotto che per origine, provenienza e qualità è differente da quello che la maison d’origine avrebbe presentato.
Occorre inoltre precisare per completezza che la responsabilità penale potrebbe altresì essere ascritta alla condotta di colui che, oltre all’utilizzo di sostanze chimiche vietate, immetta sul mercato un prodotto in violazione della normativa sulle etichettature di cui al CLP.
Si badi che il comportamento in questione assume i caratteri della frode per il semplice fatto che un dato prodotto è stato commercializzato e venduto senza l’osservanza delle norme comunitarie e ciò a prescindere dall’insorgenza di danni alla salute dell’acquirente; non si tratta dunque di un reato d’evento.
3. Profili di rilevanza e conclusioni
A partire dalla l. n. 99/2009, recante disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia, entrata in vigore il 15 agosto 2009, la responsabilità da reato degli enti di cui al d.lgs. n. 231/2001 è stata estesa ai delitti contro l’industria e il commercio previsti nel Capo II del Titolo VIII del Libro II del Codice Penale (Cfr. MONGILLO, Responsabilità delle società per reati alimentari. Spunti comparatistici e prospettive interne di riforma, in penalecontemporaneo.it, 2017, p. 304 ss.) e le misure necessarie a gestire il rischio della frode in commercio risultano analoghe a quelle idonee a prevenire gli illeciti di contraffazione, usurpazione, mendacio e adulterazione (Cfr. V. VALENTINI, Sub art. 25 bis 1, in D. CASTRONUOVO, G. DE SIMONE, E. GINEVRA, A. LIONZO, D. NEGRI, G. VARRASO, Compliance. Responsabilità da reato degli enti collettivi. D.lgs. n. 231/2001 - Banche, intermediari finanziari, assicurazioni - Reati transnazionali - Ambiente - Sicurezza del lavoro - Anticorruzione e misure di prevenzione - Whistleblowing, Milano, 2019, p. 544).
Ciò che tuttavia è necessario sottolineare, e che in qualche modo rende più difficile prevenire il rischio di tali illeciti, è la radicata ed endemica competizione cui conduce la globalizzazione.
Ciò che infatti emerge da una disamina del reato di frode in commercio, è la sua perfetta aderenza al principio di autonomia della responsabilità dell’ente sancito all’articolo 8 del d. lgs. 231/2001, in quanto per sua natura e soprattutto nel contesto economico-concorrenziale in cui operano i brand, questa fattispecie, benché nell’interesse e a vantaggio delle società stesse, risulta avere come vero reo la supina convinzione che sia necessario, nel mondo della moda, prediligere il risultato economico.
Edward Hertzman – presidente e fondatore di Apparel Textile Sourching, affermava durante un’intervista: “Per quanto i marchi parlino di conformità e preoccupazione per i diritti e la sicurezza dei lavoratori, la sfortunata realtà è che il prezzo è ancora il re” (per maggiori approfondimenti si legga l’intervista di Hertzman su https://www.businessoffashion.com/articles/opinion/op-ed-industry-denial).