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I padroni del caos

di Renato Cristin
La luna
Ph. Anuar Arebi / La luna

Renato Cristin, professore di Ermeneutica filosofica all’Università di Trieste, già direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Berlino e direttore scientifico della Fondazione Liberal, dopo aver curato per Liberilibri il libro di Richard Millet L’antirazzismo come terrore letterario, scrive nel 2017 questo saggio che egli stesso definisce nella Premessa “un libro di filosofia della contemporaneità e di filosofia dell’identità”.

Tre ristampe nel giro di pochi mesi e presentazioni in ogni angolo d’Italia fanno ben comprendere l’interesse che la sua pubblicazione è stata in grado di suscitare.

Nell’insieme, il libro mostra con chiarezza una prospettiva (della realtà e della politica) che, al suo apparire, non era ancora stata esposta. Il pensiero antioccidentale, che si è progressivamente imposto a partire dagli anni Sessanta, si sovrappone oggi al burocratismo delle istituzioni comunitarie narcotizzando la coscienza dei popoli europei, imponendo il politicamente corretto e l’accoglienza dell’altro, extraeuropeo, negando la nostra identità e producendo il caos come orizzonte storico concreto.

Chi sono i padroni di questo caos che si presenta in ogni ambito? Sono coloro che propugnano un’ideologia europeista che mira a dissolvere l’Europa dei popoli e delle nazioni in un contenitore neutro, un’Europa lacerata fra identità e sostituzione culturale.

Dunque, la contemporaneità reclama risposte urgenti alle questioni dirompenti che la stanno scuotendo. La filosofia dovrebbe elaborare quelle risposte, per ritrovare il senso del compito storico dei popoli europei di fronte alla minaccia di essere surrogati.

L’Autore conduce una rigorosa analisi di questo percorso filosofico, culturale, etico e politico consolidatosi nell’ultimo quarantennio, elaborando la teoria filosofica di un nuovo reazionarismo euro-identitario come rigenerazione attualizzata del paradigma liberal-conservatore.

 

Un incisivo estratto dal libro:

Di fronte a tutti questi svariati elementi di crisi e di decadimento, sembra giunto il momento di riflettere da un punto di vista inusuale: anziché seguire la via, catastrofica, dell’europeismo tronfio e strumentale, e anziché optare per la semplice dissoluzione dell’Unione, dietro alla quale c’è il rischio di conflitti, feroci e insanabili, improvvisi e incontrollabili, fra nazionalismi e localismi, bisognerebbe pensare una compagine continentale senza gli apparati burocratici (degenerazioni di quella vecchia e nobile amministrazione pubblica, di stampo francese o asburgico, che ha avuto anche in Italia un’apprezzabile tradizione) con cui e stata imbrigliata e mortificata, quell’Europa cioè dei popoli e delle nazioni che ricorre nei discorsi politici degli antieuropeisti e il cui senso pero non dovrebbe essere lasciato solo agli slogan e alle utili ma inevitabilmente cursorie allocuzioni politiche, ma approfondito – come i pensatori e gli studiosi hanno sempre fatto riguardo ai grandi problemi della civiltà e dell’esistenza nei venticinque secoli di storia del nostro continente –, facendo di questa ipotesi un tema della massima importanza e urgenza.

Aver voluto stroncare le nazioni è stato un errore capitale commesso dai buro-politici europeisti, ignari o dimentichi del fatto che le nazioni europee non sono entità artificiali, ma organismi viventi tanto quanto i popoli che le hanno formate, come insegnava Herder opponendosi a Kant.

E perseverare in questo errore, alzando addirittura l’intensità dell’operazione del loro abbattimento, come gli euroleaders stanno oggi facendo, è fonte di sciagure tanto gravi quanto prevedibili, se solo si facesse attenzione alla storia, non alla cronaca o alla storiografia, ma alla filosofia della storia e alla storia dello spirito, che hanno animato e formato l’Europa, le sue nazioni, con le loro differenze e la loro matrice comune, da cui è nata l’idea stessa di Europa e della sua possibile unità.

Anziché valorizzare le singole nazionalità nel contesto continentale, e concepire quest’ultimo come un’identità plurale che può reggersi solo preservando le identità singolari, l’euroretorica proclama oggi: meno nazioni, più Europa, compromettendo così l’unica possibilità che resta all’Unione europea per continuare a sussistere, cioè la libera volontà delle nazioni che decidono di unirsi e agire insieme. Probabilmente, questa pervicacia antinazionale è non solo motivata da un disegno autoritario e, nei limiti del burocratismo, totalitario, ma è anche frutto di una desolante e imbarazzante ignoranza, di una drammatica incapacità di comprensione storico-concettuale.

Infatti, l’ideologia europeistica non si rende conto che distruggendo lo spirito nazionale, quell’amore cioè per la propria patria che è uno dei cardini della vita sociale umana, sta anche eliminando l’unico efficace antidoto contro il nazionalismo inteso come suprematismo nazionale.

Se non si riconosce che amare la propria patria più di ogni altra cosa significa anche amare il prossimo, cioè colui che ci è autenticamente vicino, come se stessi, si nega un fondamento originario dei popoli, un elemento essenziale di pacificazione interna e di convivenza feconda con gli altri, la cui soppressione, per via bellica come spesso è accaduto in passato o, come e il caso dell’attuale Unione europea, con strumenti di persuasione di massa, anche autoritari, può solo preludere a iperreazioni scomposte, irrazionali e violente.

La principale premessa della mia teoria consiste in una reinterpretazione del pensiero filosofico e dell’ingegneria sociale degli ultimi cinquant’anni. I padroni del pensiero contemporaneo sono stati, anche, le levatrici intellettuali, gli ispiratori occulti e talvolta addirittura inavvertiti dei nuovi padroni dell’Europa, di quelle caste istituzionali e di quei gruppi trasversali che si sono appropriati di tutte le strutture edificate per guidare e sorvegliare il processo di integrazione e i successivi sviluppi dell’Unione europea.

La complessità è certamente difficile da governare, ma le soluzioni adottate finora la lasciano proliferare, finendo con il soccombere alla sua pervasività. L’idea di gestirla con il semplice controllo tecnico è un’ipotesi elementare che solo burocrati della politica potevano immaginare e il cui esito è il disordine crescente.

Nella realtà infatti, l’alto livello di controllo istituzionale e tecnocratico, mediatico e perfino comunicativo con cui viene codificata e quindi monitorata l’intera gradazione esistenziale di tutti i cittadini, restringendone gli spazi di riservatezza e privatezza in misure fino a pochi decenni fa impensabili e anche inaccettabili secondo il canone liberale occidentale, questo penetrante controllo è associato a un altrettanto elevato grado di caoticità, che ha pervaso tutti gli spazi, sia pubblici sia privati, dell’esistenza sociale europea, e che rappresenta l’indice maggiore, più rilevante e più allarmante, della sfera europea attuale. Un indicatore da non sottovalutare, perché, come diceva Hermann Broch, «solo l’ingenuità può forse sopportare il caos».