Il bell’applauso

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Sono passati duecento anni ormai e le riflessioni di Giacomo Leopardi sul carattere degli italiani risultano ancora più reali. Qui Santerno medita sul costume dell’applauso ai funerali e sul suo possibile perché, citando amare considerazioni di Leopardi sulla moralità della nostra nazione.


Il bell’ applauso

“…Mi sento profondamente offesa e ferita, come italiana, ma ancor prima, come persone umana, quando, ai funerali delle vittime del terrorismo, la bara è salutata con scrosciante e prolungato applauso. E’ forse un’usanza di altri paesi invalsa anche nel nostro? O sarà stato qualcuno inizialmente a dare il via? Non certo qualcuno di coloro che piangono il parente, o l’amico.

“Un altro fatto mi ferisce ( e guardi la contraddizione, proprio come cristiana, stavolta): che i figli degli assassinati (vedi Bachelet) vadano, il giorno dopo, alla ribalta, a proclamare il loro perdono agli assassini. Eh no, caro Santerno, si può essere profondamente cristiani ma il “perdono” il giorno dopo non può che essere parola sforzata. Ce ne vuole, di esercizio spirituale, prima di arrivare al perdono di simili fatti, e forse non ci si arriva mai, se non come aspirazione alla perfezione spirituale.

“Se il vezzo degli applausi diverrà regola per ogni mortale, mi dispiacerebbe che si applaudisse anche al funerale mio, e perciò auspico che tale incivile innovazione venga estirpata al più presto dalle usanze italiane…”.

Queste osservazioni di una lettrice di Piacenza risolvono di colpo il problema settimanale del tema per il colonnino. Una volta, faticavo a trovarli; ora esito nella scelta. E mi portano nel cuore del territorio dove si ricerca quello che Leopardi, il solo scrittore di costume che l’Italia abbia avuto tra la torma di rimatori e letterati, chiamava il “tuono” ossia il tono nazionale, l’educazione, il carattere. Lascio da parte “il perdono”, perché richiederebbe trattazione più approfondita e perché, considerandone la rarità, non è ancora fatto di costume generale.

Ma l’applauso, sì. L’applauso alle vittime è uno dei sintomi più repugnanti della corruzione delle usanze. Per essere genericamente a fin di bene (gli applauditori onorano in quel modo selvaggio, vittime compiante, manifestano rimpianto ed esecrazione degli assassini), l’applauso scrocia indisturbato: non c’è ordinario militare, vescovo, parroco, colonnello, che si attenti a imporre il silenzio agli scalmanati. Se un cronista osasse osservare quanto quel fracasso da arena riesca sguaiato e vergognoso, gli toglierebbero la frase, come cipigliosa, incontentabile, impopolare.

E’ così che l’applauso ai morti si diffonde come uno dei più squallidi reperti del costume di un’età. Chi abbia cominciato, non so. Per quanto ricordo, ci si raccontava, tra le risate, l’applauso oceanico scoppiato tra la folla napoletana quando il carro funebre, trionfale monumento semovente nero e oro, che portava le spoglie di Totò, si mosse. Ma là, ci stava bene. “S’applaudisce in segno di lode, ironica, talvolta”, osserva Tommaseo (Diz. Sin. 211) e, nell’omaggio al grande comico, quell’ironia era un tocco fescennino senza di che un’atmosfera soltanto compunte riuscirebbe stonata. Quell’applauso a Totò morto, che io considero il capostipite dell’odierna mania, sgorgava da un miscuglio di fatalismo e fanatismo, sentimentalismo e cinismo, in cui è intinta tutta l’amara, paradossale, surrealistica comicità napoletana, da Scarpetta fino agl’indimenticabili Giuseppe Marotta e Gugliemo Peirce.

Cinismo. La parola m’è venuta naturalmente, non ricercata. Nella sua ineducazione secolare, la plebe italiana crede che tutto, al mondo, sia teatro comico e opera buffa. Tra i maestri di vita (dico seriamente, senza dileggio: chi per vent’anni conduce spettacoli tanto popolari, acquista un’influenza superiore a quella esercitata da Platone, o Tommaso d ‘Aquino, o Erasmo da Rotterdam) che l’Italia ebbe nel dopoguerra democratico, considero Mike Bongiorno colui che elevò l’applauso al rango di grande premio morale elargito da una coscienza collettiva. La sua esortazione a “Un bell’applauso!” per questo o quell’eroe delle sue trasmissioni d’indovinelli, aveva lo stesso suono che si sente rimbombare nell’Agite applaudamus di Plauto.

E allora, ecco il mio Leopardi: “Gl’italiani ridono della vita; ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale perché la vita per loro vale meno assai che per gli altri, e perché è certo che i caratteri più vivaci e caldi per natura, come quello degl’italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze. Così negl’individui, così nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari…Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci…”.

Mi sembra che Leopardi ci abbia portato alle soglie della risposta. L’applauso alle vittime è la sola forma di compianto di cui sia capace chi non conosca più, o non abbia mai conosciuto, austerità, raccoglimento e devozione profonda; e perciò, volendo esprimere un omaggio (sincero, quanto frettoloso) ricorre ai soli modi che conosce, dello spettacolo e del comizio, che all’omaggio uniscono anche l’amore ancestrale dello strepito e la soddisfazione dell’esibizionismo individualista. E dove dovrebbero avere imparato? La religione è una povera bottega che non gl’insegna più nulla; scuola e servizio militare, le sole forme di educazione collettiva di un tempo, sono finite come sappiamo. Sola educazione comune, è quella dello stadio.

Ritorno a Leopardi: “Si vede dalle sopraddette cose che l’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse qualcun’altra nazione europea e civile,  perocché manca di quelli che ha fatto nascere ed ora conferma ogni dì coi suoi progressi la civiltà medesima, ed ha perduti quelli che il progresso della civiltà dei lumi ha distrutti” (Leopardi, Discorso sopra lo stato presente de costumi degli italiani, 1824).

Sono passati cento e sessant’anni, ma il quadro, mi pare, su per giù, lo stesso.

 

Da “Il Giornale”, 13 marzo 1981