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Il dovere di schierarsi

Il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo dell’Unione delle Camere penali italiane
The Storming of the Bastille, Jean-Pierre Houel, 1789, Bibliotèque nationale de France
The Storming of the Bastille, Jean-Pierre Houel, 1789, Bibliotèque nationale de France

Abstract

L’avvocatura penale associata denuncia pubblicamente la crisi del garantismo e richiama al dovere di difendere le libertà e i diritti che il pensiero liberale ha concepito per chi subisce un’accusa penale.

The associated penal advocacy publicly denounces the crisis of guarantee and calls on duty to defend the freedoms and rights that liberal thought has conceived for those who suffer a criminal charge.

 

Indice

1. Premessa

2. Le proposizioni e i principi del Manifesto

3. Servono ancora i manifesti?

4. Perché va in crisi il garantismo?

5. La crisi riguarda solo il garantismo?

6. Che fare?

 

1. Premessa

Proprio in questi giorni, a trent’anni di distanza dall’entrata in vigore dell’attuale codice di procedura penale, l’Unione delle Camere penali italiane (UCPI) ha diffuso il Manifesto che dà lo spunto a questo scritto.

È un’iniziativa che merita attenzione per varie ragioni.

L’avvocatura penale si propone come classe sociale piuttosto che corporazione e rivendica un ruolo a difesa di diritti e garanzie di rango costituzionale attribuiti ad ogni individuo.

Promuove un dibattito che, pur giuridico, chiama a raccolta non solo i tecnici del diritto ma chiunque abbia a cuore i principi che tengono insieme la comunità nazionale e il modo con cui sono declinati secondo la sensibilità contemporanea.

Propone non soluzioni per uno o più temi specifici ma una visione compiuta, palesemente alternativa a quella corrente.

È un fatto importante ed è utile comprenderlo.

 

2. Le proposizioni e i principi del Manifesto

L’UCPI ritiene che il garantismo penale viva una stagione di crisi.

Le tutele formalmente riconosciute a chi subisce il procedimento penale sono progressivamente disapplicate o impoverite.

Lo stesso fenomeno si registra riguardo alle sanzioni con l’aumento di quelle atipiche e con la tendenza ad applicarle prima e talvolta a prescindere dal giudizio.

Il legislatore penale, ormai solito intervenire con la logica e gli strumenti dell’emergenza o delegando le sue funzioni all’esecutivo, da un lato vara con allarmante frequenza fattispecie incriminatrici di mero pericolo, retrocedendo la soglia del penalmente rilevante a livelli intollerabili, dall’altro immette incessantemente nell’ordinamento procedure parapenali a cognizione sommaria i cui standard dimostrativi sono meno che labili e i cui effetti punitivi sono tuttavia gravi e irreversibili.

Il processo in senso stretto smarrisce progressivamente la sua funzione tipica di ambito di accertamento del fatto e della responsabilità e diventa piuttosto luogo dimostrativo della rinnovata combattività dello Stato contro ogni forma di malaffare.

Questo disfacimento tecnico e semantico delle politiche penali attribuisce spazi esagerati al potere giudiziario che vede accresciuta a dismisura la sua discrezionalità interpretativa e se ne serve per alterare l’equilibrio classico tra i poteri fondamentali dello Stato, acquistando un’indebita centralità associata alla pretesa di una superiorità etica sugli altri attori del sistema.

I prodromi del fenomeno, manifestatisi fin dalla fine degli anni Ottanta dello scorso secolo, si sono via via trasformati in una tendenza strutturale che è diventata una valanga negli ultimi anni ed ha contribuito alla nascita ed all’affermazione di formazioni politiche ed ideologie dichiaratamente populiste.

L’UCPI, allarmata da questo processo degenerativo e del picco che ha raggiunto, non intende rimanere inerte.

Ha un convincimento: che il costante e sempre più grave tradimento dei principi costitutivi del nostro patto sociale sia dovuto più alla loro inadeguata conoscenza che alla loro consapevole sconfessione.

Si propone quindi, attraverso il Manifesto, di agevolare la migliore comprensione delle garanzie proprie dell’ambito penale e del loro imprescindibile legame con l’essenza stessa della democrazia.

Adotta un’irrinunciabile chiave di lettura, quella propria del pensiero liberale, cui riconosce il merito di essere il primo e ancora oggi il più adeguato incubatore delle libertà e dei diritti che ne sono espressione, in assenza dei quali nessun sistema di norme penali può dirsi finalizzato alla promozione umana.

A questo preambolo ideologico del Manifesto segue l’indicazione dei principi, ben 35, che sono necessari per dargli vita.

L’UCPI considera le norme penali come l’ultimo strumento di cui lo Stato deve avvalersi per la prevenzione e repressione di fatti dannosi e le ritiene legittime solo se impongono il minimo sacrificio necessario e sempre che non attentino alla dignità umana e non rinneghino il principio del finalismo rieducativo.

Ritiene altrettanto indispensabile che le norme penali e le previsioni sanzionatorie si fondino su dati scientifici e criminologici condivisi dalla comunità scientifica.

Si oppone all’uso dello strumento penale per finalità politico-elettorali, cioè come mezzo per selezionare e raccogliere consenso.

Numerosi principi attengono al diritto di difesa che nella visione del Manifesto deve essere inteso nella sua massima ampiezza e al ruolo della pubblica accusa per le cui impugnazioni, ad esempio, si auspica il rispetto della formula dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

Il Manifesto chiude infine con una severa stigmatizzazione della proliferazione di procedure parapenali, quali ad esempio quelle di prevenzione personale e patrimoniale, auspicando che vengano pienamente ricondotte nell’alveo della materia penale e quindi circondate dalle tutele proprie dell’ordinamento interno e degli ordinamenti sovranazionali.

 

3. Servono ancora i manifesti?

L’opinione dell’UCPI non avrebbe potuto essere più netta.

Si vive in una stagione, ormai di lungo corso, in cui il politico-legislatore e il giudice-interprete stanno infliggendo con pari responsabilità una duplice lesione all’ordinamento e alla comunità per cui è fatto:

il diritto penale da strumento sussidiario e riservato alla protezione di beni giuridici primari è diventato soprattutto un mezzo per sottolineare manifesti politici e ideologici e raccogliere consenso;

la nuova e indebita centralità della norma penale sta comportando uno spostamento degli equilibri di sistema e l’enfatizzazione dell’ordine giudiziario e dell’esecutivo a scapito del Parlamento.

Questa doppia lesione esige le sue vittime e tra le prime c’è il garantismo, cioè la cultura istituzionale che impone di proteggere da abusi chi subisce un procedimento penale e di assicurargli la pienezza della difesa e il più ampio contraddittorio.

Su ognuna delle proposizioni essenziali del Manifesto si è formata nel tempo una letteratura vastissima alla cui produzione hanno concorso pensatori di grande rilievo, osservatori del costume, massmediologi, opinionisti.

Anche l’opinione pubblica, consapevole della crucialità di questi temi nel dibattito pubblico, manifesta curiosità e interesse crescenti, pretende di sapere e di comunicare.

In questa atmosfera problematica, emerge un primo fatto, tanto netto quanto le convinzioni dell’UCPI.

Aumenta sempre di più la distanza tra il pensiero accademico e forense e quello delle compagini politiche (non solo le attuali) che determinano le direttrici pubbliche in materia penale.

La stessa distanza si registra rispetto all’opinione pubblica, pur con vari distinguo.

Si vuole intendere che i vari segnali di allarme lanciati da organismi rappresentativi di categorie, ambienti accademici, gruppi organizzati e singoli individui non sembrano capaci di raggiungere e convincere i loro naturali destinatari, cioè la politica e la gente, non nella misura necessaria a provocare cambiamenti di rotta.

Non mancano adesioni importanti a quegli allarmi, se ne dibatte negli ambiti più recettivi, ma nessuna iniziativa del genere ha avuto finora la forza di generare una mutata sensibilità.

Non è questa, naturalmente, una buona ragione per rinunciare all’impegno individuale e collettivo: i manifesti servono ancora a qualcosa, non fosse altro che per tenere viva l’attenzione su temi rilevanti per ogni componente della comunità.

 

4. Perché va in crisi il garantismo?

Il Manifesto ci spiega in cosa consiste la crisi, a chi va imputata, chi dovrebbe risolverla e perché è necessario risolverla.

Non ci dice invece perché si è verificata.

Peccato, perché questa è la domanda a cui bisognerebbe riservare la prima risposta.

Perché il consenso elettorale va a formazioni nei cui programmi la tolleranza zero è una specie di passe-partout capace di risolvere ogni emergenza sociale?

Perché lo statuto garantistico di chi è chiamato a rispondere ad un’accusa in sede penale perde progressivamente pezzi e significato?

Perché nel conflitto perenne tra libertà individuale e sicurezza sociale sta largamente prevalendo la seconda?

Perché la pena è diventata il principale strumento di risoluzione dei conflitti e perché alla pena propriamente intesa si affiancano incessantemente sanzioni in tutto assimilabili alla pena ma nascoste tra le pieghe di altri settori del diritto?

Perché l’ordine giudiziario fatica a mantenere il suo ruolo di costante e saggio manutentore del giusto processo e delle tutele che ne rappresentano una parte imprescindibile?

Il Manifesto non lo spiega, non ci dà queste informazioni cruciali e probabilmente fa bene perché tutte queste domande vanno ben oltre i compiti e i doveri di una classe professionale e interpellano la natura umana come si è venuta conformando in questi anni.

Senza poi contare che, per la stessa ragione, nessuno sarebbe in grado di proclamare una verità accettata da tutti.

 

5. La crisi riguarda solo il garantismo?

Se per garantismo si intende la capacità dello Stato di prendersi cura con lealtà, trasparenza e rispetto di chi subisce un giudizio e di chi sconta una pena, si deve subito constatare che la crisi va ben oltre e si estende a spazi in passato impensabili.

Si pensi alla tendenza diffusissima all’aumento delle pene per fattispecie di reato che, magari a fronte di un fatto eclatante di cronaca, siano giudicate sottodimensionate nella loro portata sanzionatoria.

Si farà un paio di riferimenti specifici, per il resto basta consultare periodicamente la Gazzetta Ufficiale e si avrà un’idea precisa di cosa stia accadendo su questo fronte.

È stata appena approvata dal Senato la legge che modifica la fattispecie dello scambio elettorale politico-mafioso.

La pena per l’ipotesi base è adesso equiparata a quella prevista per la partecipazione a un’associazione mafiosa: la vecchia forbice edittale era tra un minimo di sei anni di reclusione e un massimo di dodici, l’attuale è tra dieci e quindici anni.

È stata inoltre introdotta una nuova aggravante ad effetto speciale. Se lo scambio produce il risultato sperato e il candidato viene eletto, la pena base è aumentata della metà: il minimo edittale sale a quindici anni di reclusione, il massimo a ventidue anni e sei mesi.

Naturalmente segue l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Si comprende adesso che non è più soltanto un problema di rigorismo e di reazione a un fatto che viene ritenuto di elevato allarme sociale.

Il legislatore, avvicinando la pena per lo scambio elettorale aggravato a quella dell’omicidio, ci sta dicendo qualcosa di più: che è mutata la piramide valoriale e che farsi eleggere con i voti della mafia è grave quasi come togliere la vita a qualcuno.

Se poi, per rendere meglio la dimensione della questione, si entra nel dettaglio della pena astrattamente irrogabile per la fattispecie di associazione mafiosa pluriaggravata, si noterà che si può senza troppa difficoltà arrivare a trattamenti sanzionatori largamente superiori a quelli previsti per l’omicidio.

La vita, in sostanza, non è più, non necessariamente, il bene alla cui lesione o messa in pericolo corrisponde il massimo della reazione punitiva statuale.

Si può naturalmente discutere se questo sia giusto o sbagliato, se le emergenze attuali giustifichino oppure no questo sovvertimento e si possono avere le opinioni più disparate.

Ma è un fatto che sta accadendo e precede inevitabilmente la discussione sul garantismo.

Così come sta avvenendo la cosiddetta duplicazione (ma spesso sono applicati multipli più elevati) dei binari.

Si ricorre anche in questo caso a qualche esempio di dettaglio ma con la stessa avvertenza di prima: il campione è assai nutrito.

Da qualche tempo la Corte costituzionale sta ripetutamente dichiarando incostituzionale questo o quel pezzo del Testo unico della Finanza o delle disposizioni correlate perché consentono una gravosissima e complessivamente sproporzionata duplicazione delle sanzioni per le condotte di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato, tutte le volte in cui le medesime condotte sono perseguibili anche penalmente.

La Consulta sta costantemente affermando che, a dispetto della loro classificazione formale, quelle sanzioni amministrative hanno una palese finalità punitiva e rientrano a pieno titolo nella nozione di “materia penale” affermatasi nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo e della Corte del Lussemburgo.

Si usa al riguardo l’espressione “truffa delle etichette”, riferita appunto alla diffusa tendenza di etichettare istituti sostanzialmente penali in modo da nascondere la loro natura e da sottrarli al regime garantistico proprio di quelli.

Si ritiene di non allontanarsi troppo dal vero se si afferma che le persone interessate a questo specifico doppio binario hanno mediamente la possibilità di avvalersi di buoni collegi difensivi e quindi di spiegare ogni lecita reazione giuridica, ivi compresa la sollecitazione dell’intervento del giudice delle leggi.

Ma bisogna pur dire che esistono altri e altrettanto gravi e sproporzionati cumuli di binari che, riguardando categorie di gran lunga meno abbienti e consapevoli, non sono in grado di sollecitare uguale attenzione eppure la meriterebbero perché si abbattono su diritti quali l’elettorato passivo, il lavoro, la retribuzione ed altro ancora.

E forse bisognerebbe aggiungere che esistono altri casi simili per i quali la sensibilità dell’oggi è meno disponibile all’attivazione delle garanzie riconosciute dai principi dell’ordinamento interno e di quelli sovranazionali.

Anche questo è un fatto: si afferma sempre più spesso la necessità di una tutela sociale multilivello, la si soddisfa con plurimi strumenti tra i quali quello penale non è necessariamente il più afflittivo, si dà spazio e peso a strumenti a cognizione talvolta sommaria e affidati alla valutazione di organi amministrativi.

 

6. Che fare?

Come si era iniziato a dire, il circuito che comprende il corpo sociale e i suoi umori più forti e diffusi, i mass media, le formazioni sociali di tipo politico è in gran parte convinto (o sembra esserlo) che il nostro tempo sia caratterizzato da sfide gravi sferrate da nemici temibili e che la migliore o addirittura l’unica risposta sia la norma penale e la sanzione che ne deriva.

Più ce ne è, meglio è.

Pure questo è un fatto, anzi è il fatto più importante che nessun manifesto potrà scalzare.

Si può fare qualcosa? Assolutamente sì.

Si può e si deve riflettere sui fenomeni che il Manifesto dell’UCPI giudica allarmanti, si deve tenere desta l’attenzione, si dovrebbe provare a usare la testa più della pancia.

E, nel frattempo, ci si può schierare, si può uscire dall’invisibilità e prendere posizione.

Chiudo facendolo anch’io.

Pur con tutte le riserve concettuali che ho sulla sufficienza dell’idea liberale di garantismo, credo che il Manifesto si riporti a principi, valori e beni che è sacrosanto difendere e tramandare.

Io sto dalla stessa parte.

 

Puoi visualizzare i video delle due giornate di presentazione del Manifesto, tenutesi il 10 e l’11 maggio 2019 presso l’Università Statale di Milano, cliccando ai seguenti link:

https://www.youtube.com/watch?v=ExxA_5Hkdcs&t=1304s

https://www.youtube.com/watch?v=UynP5Vi8OBw

Letture consigliate

 

R. Bianchetti, La paura del crimine. Un’indagine criminologica in tema di mass media e politica criminale ai tempi dell’insicurezza, Giuffrè Editore, aprile 2018

F. Mazzacuva, Le pene nascoste. Topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico, Giappichelli, novembre 2017

S. Bonini, T. Guerini, G. Insolera, A. Manna, N. Mazzacuva, D. Pulitanò, L. Risicato, A. Sessa, C. SotisLa società punitiva. Populismo, diritto penale simbolico e ruolo del penalista, Diritto Penale Contemporaneo, 21 dicembre 2016

G. FiandacaCrisi della riserva di legge e disagio della democrazia rappresentativa nell’età del protagonismo giurisdizionale, www.edizioninets.com/criminalia/2013

L. Ferrajoli, Questione Giustizia, numero monografico 2016/4 focalizzato su Il giudice e la legge

M. Anselmi, S. Anastasia, D. FalcinelliPopulismo penale. Una prospettiva italiana, CEDAM, 2015

V. N. D’AscolaImpoverimento della fattispecie e responsabilità penale “senza prova”, Iiriti Editore, 2012

G. Carlizzi, Giudice 2.0 e uso del sapere specialistico nel processo penale, in Processo penale e giustizia, Fascicolo 4/2017, Giappichelli

G. Giglio Sarlo, Scienza e diritto si incontrano alla ricerca dell’uomo, in questa rivista, 3 aprile 2019

V. Giglio, Antichi e nuovi malesseri del diritto penale, in questa rivista, 7 novembre 2018