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Il processo e le sue parole

Prospettiva
Ph. Paolo Panzacchi / Prospettiva

In nome del popolo italiano …” il Giudice si accinge a leggere la sentenza.

Siamo all’epilogo di un lungo procedimento, il mio assistito più di una volta, nel corso del dibattimento, mi ha chiesto spiegazioni su cosa era stato detto dal Pm, dal Giudice, dai colleghi dei coimputati.

L’imputato e la parte civile sono i protagonisti del processo ma sono avulsi dalle parole del processo. Questa amara realtà ci deve far riflettere, a tutti (avvocati, giudici) sulle responsabilità che abbiamo nel rendere il lessico giuridico astratto e involuto.

Quando la vita vissuta entra in una aula di giustizia viene trasformata da una lingua che ne altera i contenuti.

Questa lingua “sofisticata” rende oscuro, tenebroso il processo ai veri protagonisti che non sono gli avvocati e i giudici ma gli imputati, i testimoni e le parti offese dai reati. Basta frequentare un’aula di giustizia per comprendere come in questo luogo si incrociano tutti i livelli e i tipi di lingua parlati in Italia.

Un microcosmo di dialetti, italiano popolare, italiano degli stranieri, tecnicismi linguistici degli avvocati, dei consulenti, periti e dei giudici.

Il processo, come scrive Carofiglio: “Non è tanto un luogo di incontro linguistico quanto piuttosto di scontro. Tutte le varietà dell’italiano parlato si scontrano con quell’unica rocciosa materia, impermeabile e quasi immutabile nel tempo, rappresentata dall’italiano della giustizia”.  

È vero, ci sono dei tecnicismi che sono necessari ma quante volte usiamo parole di una “inutile bruttezza, come scrive Bice Mortara Garavelli nel suo saggio Le parole e la giustizia.

Questo breve estratto di una motivazione della Suprema Corte risulta più calzante di mille citazioni: “… Lo sciatore che si trovi a monte, nello spostarsi sulle piste, data la sua posizione dominante con possibilità di visione del luogo sottostante, deve regolare la propria condotta in modo da evitare interferenze del proprio movimento con la traiettoria dello sciatore che si trovi a valle”.

La Cassazione ci costringe a scomodare Calvino e la verbalizzazione tragicomica di un furto di fiaschi di vino.

Quando un tribunale della libertà scrive in una ordinanza: “Orbene il Collegio è tenuto ad accertare se fra le due citate ordinanze restrittive, quella del 21 maggio 2007 e quella del 16 marzo 2009, sia o meno riscontrabile un’artificiosa diluizione delle imputazioni attraverso l’emissione di plurime ordinanze in tempi diversi. Cioè se sussistono o meno le condizioni indicate dall’art. 297.3 c.p.p. (anteriorità dei fatti, loro identità o connessione e desumibilità dagli atti) per l’unificazione dei termini custodiali relativi ai due predetti titoli cautelari e la conseguente retrodatazione del termine fasico dell’ultima ordinanza coercitiva”.

Nel leggere il passaggio motivazionale del tribunale, ci rendiamo conto della fuga operata dalla concretezza della parola con l’uso di un linguaggio apparentemente tecnico ma in realtà formato da parole o locuzioni usate per donare una formalità e sacralità vuota e priva di chiarezza all’enunciato.

Il tribunale avrebbe potuto scrivere:” La questione da risolvere è la seguente: se ricorrano le condizioni indicate dall’art. 297.3 c.p.p. e dunque se i termini della custodia cautelare vadano fatti decorrere dall’esecuzione della prima ordinanza”.

Siamo così assuefatti alla trasformazione del parlato che nella prassi giudiziaria si arriva addirittura ad inventarsi delle parole: “endoprocedimentale”. Termine che non troverete in alcun vocabolario e sarebbe meglio sostituire con “interno al procedimento”.

Anche noi avvocati ci mettiamo del nostro per rendere oscuro il linguaggio e lo scritto giuridico. Citiamo degli esempi che sentiamo quotidianamente in una aula di giustizia: “nella denegata ipotesi, reiezione della domanda, proceduto all’escussione di un teste, retrodatazione del termine fasico, la non incompatibilità della interpretazione”. Sono tutti pseudotecnicismi che ostacolano la comprensibilità e circoscrivono la comunicazione ai soli “specialisti”.

Quante clausole, che ci piace chiamare di “stile”, si leggono negli scritti: “Salvezze illimitate, Valga il vero, a tacer d’altro ecc.”. Una sorta di lingua esclusiva, condita da arcaismi, stereotipi, opacità che si insegna sin dall’università agli “iniziati”.

Come acutamente scritto da Carofiglio: “Ci sono giudici o avvocati con i quali non puoi evitare di parlare in modo orribile. Se in un’arringa o una requisitoria parli in italiano corretto, non ti riconoscono come uno del mestiere. Sei uno a cui non dare credito. Il gergo dei giuristi è la lingua straniera che si impara già dall’università per essere ammessi nella corporazione. È una lingua tanto più apprezzata quanto più è capace di escludere i non addetti ai lavori dalla comprensione di quello che avviene nelle aule di giustizia e di quello che si scrive negli atti giudiziari”.

Tutto questo determina un senso di ostilità ed estraneità dal “legalese”, da parte dei cittadini, che dovrebbero invece rivendicare il loro diritto di essere messi in grado di capire le leggi e le parole e gli scritti di chi le applica. Perché l’applicazione della legge incide sulla carne viva delle persone.

Il paradosso linguistico si appalesa in maniera lampante alla lettura del dispositivo: “Il tribunale di …. condanna tizio alla pena di …”. Solo in questo momento l’imputato e la parte civile capiscono e le parole: oscure e astratte assumono improvvisamente la dura crudezza e chiarezza fino ad allora assente.

Ricordiamo cosa scrisse Franz Kafka: “La sentenza non viene ad un tratto, è il processo che poco a poco si trasforma in sentenza”.

Lavoriamo tutti per rendere più comprensibili le parole del processo.

Cass. pen., Sez. IV, n. 1258, dicembre 1996, CED 1997.

Italo Calvino, Per ora sommersi dall’antilingua, pubblicato il 3 febbraio 1965 dal quotidiano “Il Giorno”.

Gianrico Carofiglio, Con parole precise breviario di scrittura civile, Editore Laterza, 2015.

Bice Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia, Einaudi, 2001

Gianrico Carofiglio, La regola dell’equilibrio, Einaudi, 2014.

Franz Kafka, Il processo, Piccola biblioteca Adelphi, 1978.