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Il "Ritratto Parlato" abbandonato?

La nostra quotidianità è fatta di gesti a cui si da poco peso ritenendoli del tutto normali, senza giammai preoccuparsi della loro importanza se non quando gli stessi vengano ad essere lesi; solo allora se ne riconosce tardivamente la necessità.

In effetti, per le persone cosiddette normodotate il parlare, l’ascoltare, il vedere sono atti a cui non si da, se non innanzi a specifiche e determinate situazioni, il giusto valore.

C’è chi ad esempio ha una capacità uditiva eccezionale o piuttosto una vista acuta o un olfatto sopraffino, ma non tutti sviluppiamo allo stesso modo questi sensi, dando per scontato che in ragione della loro comunione, riusciamo a trovare comunque la soluzione a una qualche difficoltà sopravvenuta, facendo ricorso all’uno o all’altro dei sensi all’occorrenza.

Con questo voglio dire che non sempre siamo in grado di descrivere con dovizia ad esempio, la stanza dove passiamo la maggior parte del nostro tempo o il tragitto casa lavoro, peggio ancora se questo è percorso a bordo di un auto o di un mezzo di trasporto pubblico.

In verità, capita che dopo anni scopriamo con grande stupore in quella stanza o su quel percorso cose per noi nuove quando invece le stesse, contrariamente, giacevano lì da sempre, in attesa di essere solo osservate.

Appare strano tutto questo ma non è così; quando si cammina, si va in giro, non ci si sofferma più sui particolari; siamo distratti dal tempo a correre e muoverci disordinatamente, senza metodo e soprattutto una corretta osservazione dello spazio, dei luoghi, delle persone.

In definitiva, fatte salve le eccezioni, l’osservazione pare sia rimasta solo una caratteristica della scienza o di chi lo fa per mestiere. Contrariamente a queste distratte condotte, un certo Bertillon invece ha fatto dell’osservazione la sua gloria e il suo metodo ancorché ritenuto superato, ad avviso dello scrivente, è tuttora dotato di una sua attuale peculiarità, fosse altro per esaltare l’importanza della corretta osservazione. Alphonse Bertillon nacque a Parigi il 23 aprile 1853 da una ricca e colta famiglia e ha guidato a pieno titolo la polizia scientifica, nel periodo antecedente all’utilizzo delle impronte digitali, quale mezzo di identificazione della persona.

Il padre era Louis-Adolphe Bertillon, professore di statistica e demografia alla Scuola di Antropologia di Parigi, il fratello Jacques aveva finito per seguire il padre nella sua professione, facendo lo studioso di statistica e il demografo, nonostante avesse studiato medicina come suo padre. In un ambiente così colto, Alphonse Bertillon non ebbe difficoltà ad immergersi nello studio, tuttavia per colpa del tifo di cui si ammalò, dovette suo malgrado lasciare l’università.

Questo infausto evento, sul suo percorso di vita influì molto sul giovane Bertillon il quale amava sempre portare a termine ogni cosa che intraprendeva, con una dovizia e una puntualità maniacali.

Nonostante la malattia che superò egregiamente, con grande stupore della sua famiglia Bertillon riesce a trovare un’occupazione come scrivano presso la Polizia di Parigi, anche se occorre dire che i suoi genitori anelavano ad un posto di lavoro meno faticoso. In quel contesto lavorativo, ancorchè non calzasse sul suo vissuto culturale e di mancato medico, Bertillon seppe costruirsi con la sua puntualità e precisione un ruolo assolutamente ineguagliabile tanto che la sua applicazione divenne, in seguito, un successo mondiale.

Ma per comprendere la levatura di tale personaggio occorre soffermarci storicamente prima del 1832, quando i criminali, in Francia, venivano marchiati con il fuoco in occasione del loro arresto.

Ad ognuno di questi (criminali) veniva attribuita una sigla in ragione del reato commesso.

La T per i criminali condannati ai lavori forzati, la V per coloro i quali avevano commesso dei furti e infine le meretrici con il disegno del giglio. Marchiature queste che si amplificavano in ragione di una, protremmo definirla, mera reiterazione di un medesimo disegno criminoso.

Ma col tempo il ricorso a siffatte metodiche, assai lesive e disumane, lasciarono il posto all’osservazione, alla cosiddetta “parade”, ovverosia la parata dei pregiudicati.

Non era uno spettacolo, ma una rappresentazione di criminali che erano posti in circolo intorno agli agenti, loro carcerieri, i quali costretti ad osservarli, avevano il compito di memorizzare il loro aspetto, la loro camminata e ovviamente i segni particolari.

Oggi, siffatta identificazione sarebbe inimmaginabile, atteso il rilevante errore che ne può scaturire sulla non corretta individuazione di soggetti, peraltro in movimento.

Non solo; immagazzinare tanti dati, i soli poi da utilizzare per una successiva identificazione, non dava alcuna assolutezza nel riconoscimento.

Infatti, già in quel tempo, tale forma di memorizzazione e riconoscimento non era da sola sufficiente e affidabile, in quanto non tutti gli agenti erano dotati di alta capacità di memoria e di osservazione.

E a tal riguardo il BERTILLON si inventò il cosiddetto “ritratto parlato”, ovvero la catalogazione scritta, mediante delle schede opportunamente predisposte, dove inserire i dati fisici delle persone arrestate.

Tale lavoro, minuzioso e assai laborioso, venne utilizzato per tanti anni dalla polizia francese, in prime cure, poi tale metodo, detto “methode Bertillonage” da tutta la polizia mondiale.

Bertillon registrava le generalità, la corporatura, l’altezza dei detenuti, i loro precedenti e i segni particolari, compilando doviziosamente le schede utili per una futura identificazione.

Questo metodo, tuttavia, trovò per Bertillon un limite insormontabile quando non ebbe modo di identificare l’autore di un crimine in quanto le persone sospettate erano due gemelli.

Mentre l’applicazione del metodo Bertillon andava via via scemando, in Italia, Cesare Lombroso portava avanti le sue conoscenze nelle misurazioni antropometriche, così da stabilire anche una relazione, rispetto alla configurazione fisica per definire potenzialmente un soggetto criminale.

Fu così che Alphonse Bertillon ideò le misurazioni antropometriche a scopo identificativo. Iniziò con fissare nove misurazioni di altrettante differenti parti del corpo: l’altezza in piedi, l’apertura delle braccia distese a croce, la lunghezza del busto, la lunghezza e la larghezza della calotta cranica, le dimensioni dell’orecchio destro, del piede sinistro, della mano sinistra e dell’avambraccio sinistro. In seguito, aggiunse anche il diametro bizigomatico (ossia relativo al punto più prominente di ciascuno degli zigomi) e altre misurazioni degli arti sino ad arrivare ad undici misurazioni.

Occorre dire che il metodo “ Bertillonage”, a scopo identificativo, venne spesso indicato in senso assolutamente ironico, tanto è vero che non era affatto preso in considerazione sia dagli scienziati di quel tempo che dagli intellettuali parigini; in vero, fu spesso criticato dagli stessi poliziotti che ritenevano Bertillon un uomo che si dava arie da scienziato ma di fatto non lo era.

Ma le critiche non fermarono l’investigatore dell’antropometria il quale nel suo indefesso lavoro giunse a schedare circa 80 mila detenuti che avevano trovato ospitalità nelle carceri francesi. Il metodo di BERTILLON si rivelò assai utile e preciso soprattutto innanzi ad un soggetto il quale forniva false generalità. Attraverso le sue impeccabili misurazioni antropometriche, dettate questa da una precisa sequenza di numeri, una volta rilevati i dati dell’arrestato, questi venivano poi confrontati con quello schedario da Bertillon creato; se la frequenza dei dati accertati corrispondeva a quelle catalogate l’identità era accertata. A completare le misurazioni antropometriche, Bertillon introdusse poi la descrizione minuziosa dei tatuaggi, delle cicatrici, anch’esse molto frequenti nei criminali e successivamente mise a punto un metodo anche per descrivere gli occhi, sfruttando i colori pupillari. Solo dopo anni in Francia la polizia riconobbe la validità del metodo di Bertillon, quando poi questi venne nominato, nel 1893 direttore del “Servizio Giudiziario d’Identità”.Tale metodo fu in seguito adottato da tutte le polizie del mondo.

Solo nel 1914 fu dichiarato superato e sostituito dalla dattiloscopia durante il congresso Internazionale di Polizia Scientifica che si tenne a Monaco.

Ma la storia ha sempre i suoi corsi e ricorsi, forse quel metodo oggi è stato accantonato, tuttavia vi sono casi in cui l’identità riferita ad un minore straniero, ad esempio, la cui età contrasta con le risultanze del documento di identità, il metodo sopra detto riappare e quindi per scongiurare ogni ragionevole dubbio, occorre ricorrere alle misurazioni radiografiche e antropometriche.

In definitiva, per verificare l’identità e l’età di un imputato talvolta erroneamente indicato come minore, la cui competenza ad accertare la commissione di reati, in tal caso è del Tribunale per i Minorenni , “le risultanze di un documento del quale non si conosce l’efficacia identificativa e fidefacente - indipendentemente da una formale contestazione di falsità - promanando esso da autorità estera, non essendo tradotto e non evidenziandosene la certa provenienza, debbono necessariamente cedere agli esiti di esami radiografici ed antropometrici. (Fattispecie in cui dagli esami medici era emerso che l’indagato era maggiore di età, in contrasto con le risultanze del documento di identità straniero in suo possesso; la cassazione, risolvendo il conflitto insorto tra il giudice ordinario e quello minorile ha affermato la competenza del primo osservando, sulla scorta del principio di cui in massima, che nella specie non si ravvisava nemmeno la semplice insorgenza del dubbio in ordine all’età dell’indagato, che avrebbe comportato la trasmissione degli atti al giudice minorile" [1].

Ma, come sempre, anche il suddetto principio in qualche occasione contrasta, a secondo del caso, con valutazioni del tutto differenti rispetto a comportamenti operativi e procedurali diversi.

Ed ecco il risultato:

“In tema di identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, l’art. 349 cod. proc.pen., non impone - come si desume dalla espressione "può ...ove occorra" - l’espletamento dei rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici - così come il quarto comma della stessa disposizione non prevede come obbligatorio l’accompagnamento da esperirsi solo ove, quanto alle generalità fornite, sussistano elementi per ritenerne la falsità. Ne consegue che il mancato ricorso alle suddette modalità non comporta che sia da ritenersi non identificato colui che abbia dato le proprie generalità, ancorché non successivamente rintracciato presso l’indirizzo indicato e che sulla scorta di ciò si debba pervenire alla declaratoria di "non doversi procedere per essere ignoti gli autori del reato". (Nella fattispecie il Pretore aveva dichiarato non doversi procedere per essere ignoti gli autori del reato nei confronti dell’imputato che, fermato dalla Polizia giudiziaria, si era limitato a declinare le proprie generalità, non essendo in possesso di documenti. Lo stesso era successivamente comparso a prestare l’interrogatorio espletato dalla PG su delega del PM. La S.C. - in applicazione del principio di cui in massima ha ritenuto che allorché l’attribuzione di generalità alla persona avvenga in un atto formale, espletato alla presenza del difensore di fiducia, una formula di proscioglimento non può essere fondata sui dubbi personali del giudice procedente il quale se del caso potrà disporre i relativi accertamenti” [2].

Concludendo, come sempre, ricordo a me stesso che la scienza senza coscienza non ha il giusto valore; che identità ha sempre il significato di uguale a se stesso.

Il metodo è importante, parimenti gli accertamenti, ma nella vita, a mio avviso si parte dall’osservazione prima di tutto, sinonimo di profondità, di introspezione, al di là di ogni fumosa apparenza.



[1] Sez. 1, Sentenza n. 2993 del 23/06/1993 Cc. (dep. 24/07/1993 ) Rv. 194627

[2] Sez. 2, Sentenza n. 8105 del 26/04/2000 Ud. (dep. 07/07/2000 ) Rv. 216522

La nostra quotidianità è fatta di gesti a cui si da poco peso ritenendoli del tutto normali, senza giammai preoccuparsi della loro importanza se non quando gli stessi vengano ad essere lesi; solo allora se ne riconosce tardivamente la necessità.

In effetti, per le persone cosiddette normodotate il parlare, l’ascoltare, il vedere sono atti a cui non si da, se non innanzi a specifiche e determinate situazioni, il giusto valore.

C’è chi ad esempio ha una capacità uditiva eccezionale o piuttosto una vista acuta o un olfatto sopraffino, ma non tutti sviluppiamo allo stesso modo questi sensi, dando per scontato che in ragione della loro comunione, riusciamo a trovare comunque la soluzione a una qualche difficoltà sopravvenuta, facendo ricorso all’uno o all’altro dei sensi all’occorrenza.

Con questo voglio dire che non sempre siamo in grado di descrivere con dovizia ad esempio, la stanza dove passiamo la maggior parte del nostro tempo o il tragitto casa lavoro, peggio ancora se questo è percorso a bordo di un auto o di un mezzo di trasporto pubblico.

In verità, capita che dopo anni scopriamo con grande stupore in quella stanza o su quel percorso cose per noi nuove quando invece le stesse, contrariamente, giacevano lì da sempre, in attesa di essere solo osservate.

Appare strano tutto questo ma non è così; quando si cammina, si va in giro, non ci si sofferma più sui particolari; siamo distratti dal tempo a correre e muoverci disordinatamente, senza metodo e soprattutto una corretta osservazione dello spazio, dei luoghi, delle persone.

In definitiva, fatte salve le eccezioni, l’osservazione pare sia rimasta solo una caratteristica della scienza o di chi lo fa per mestiere. Contrariamente a queste distratte condotte, un certo Bertillon invece ha fatto dell’osservazione la sua gloria e il suo metodo ancorché ritenuto superato, ad avviso dello scrivente, è tuttora dotato di una sua attuale peculiarità, fosse altro per esaltare l’importanza della corretta osservazione. Alphonse Bertillon nacque a Parigi il 23 aprile 1853 da una ricca e colta famiglia e ha guidato a pieno titolo la polizia scientifica, nel periodo antecedente all’utilizzo delle impronte digitali, quale mezzo di identificazione della persona.

Il padre era Louis-Adolphe Bertillon, professore di statistica e demografia alla Scuola di Antropologia di Parigi, il fratello Jacques aveva finito per seguire il padre nella sua professione, facendo lo studioso di statistica e il demografo, nonostante avesse studiato medicina come suo padre. In un ambiente così colto, Alphonse Bertillon non ebbe difficoltà ad immergersi nello studio, tuttavia per colpa del tifo di cui si ammalò, dovette suo malgrado lasciare l’università.

Questo infausto evento, sul suo percorso di vita influì molto sul giovane Bertillon il quale amava sempre portare a termine ogni cosa che intraprendeva, con una dovizia e una puntualità maniacali.

Nonostante la malattia che superò egregiamente, con grande stupore della sua famiglia Bertillon riesce a trovare un’occupazione come scrivano presso la Polizia di Parigi, anche se occorre dire che i suoi genitori anelavano ad un posto di lavoro meno faticoso. In quel contesto lavorativo, ancorchè non calzasse sul suo vissuto culturale e di mancato medico, Bertillon seppe costruirsi con la sua puntualità e precisione un ruolo assolutamente ineguagliabile tanto che la sua applicazione divenne, in seguito, un successo mondiale.

Ma per comprendere la levatura di tale personaggio occorre soffermarci storicamente prima del 1832, quando i criminali, in Francia, venivano marchiati con il fuoco in occasione del loro arresto.

Ad ognuno di questi (criminali) veniva attribuita una sigla in ragione del reato commesso.

La T per i criminali condannati ai lavori forzati, la V per coloro i quali avevano commesso dei furti e infine le meretrici con il disegno del giglio. Marchiature queste che si amplificavano in ragione di una, protremmo definirla, mera reiterazione di un medesimo disegno criminoso.

Ma col tempo il ricorso a siffatte metodiche, assai lesive e disumane, lasciarono il posto all’osservazione, alla cosiddetta “parade”, ovverosia la parata dei pregiudicati.

Non era uno spettacolo, ma una rappresentazione di criminali che erano posti in circolo intorno agli agenti, loro carcerieri, i quali costretti ad osservarli, avevano il compito di memorizzare il loro aspetto, la loro camminata e ovviamente i segni particolari.

Oggi, siffatta identificazione sarebbe inimmaginabile, atteso il rilevante errore che ne può scaturire sulla non corretta individuazione di soggetti, peraltro in movimento.

Non solo; immagazzinare tanti dati, i soli poi da utilizzare per una successiva identificazione, non dava alcuna assolutezza nel riconoscimento.

Infatti, già in quel tempo, tale forma di memorizzazione e riconoscimento non era da sola sufficiente e affidabile, in quanto non tutti gli agenti erano dotati di alta capacità di memoria e di osservazione.

E a tal riguardo il BERTILLON si inventò il cosiddetto “ritratto parlato”, ovvero la catalogazione scritta, mediante delle schede opportunamente predisposte, dove inserire i dati fisici delle persone arrestate.

Tale lavoro, minuzioso e assai laborioso, venne utilizzato per tanti anni dalla polizia francese, in prime cure, poi tale metodo, detto “methode Bertillonage” da tutta la polizia mondiale.

Bertillon registrava le generalità, la corporatura, l’altezza dei detenuti, i loro precedenti e i segni particolari, compilando doviziosamente le schede utili per una futura identificazione.

Questo metodo, tuttavia, trovò per Bertillon un limite insormontabile quando non ebbe modo di identificare l’autore di un crimine in quanto le persone sospettate erano due gemelli.

Mentre l’applicazione del metodo Bertillon andava via via scemando, in Italia, Cesare Lombroso portava avanti le sue conoscenze nelle misurazioni antropometriche, così da stabilire anche una relazione, rispetto alla configurazione fisica per definire potenzialmente un soggetto criminale.

Fu così che Alphonse Bertillon ideò le misurazioni antropometriche a scopo identificativo. Iniziò con fissare nove misurazioni di altrettante differenti parti del corpo: l’altezza in piedi, l’apertura delle braccia distese a croce, la lunghezza del busto, la lunghezza e la larghezza della calotta cranica, le dimensioni dell’orecchio destro, del piede sinistro, della mano sinistra e dell’avambraccio sinistro. In seguito, aggiunse anche il diametro bizigomatico (ossia relativo al punto più prominente di ciascuno degli zigomi) e altre misurazioni degli arti sino ad arrivare ad undici misurazioni.

Occorre dire che il metodo “ Bertillonage”, a scopo identificativo, venne spesso indicato in senso assolutamente ironico, tanto è vero che non era affatto preso in considerazione sia dagli scienziati di quel tempo che dagli intellettuali parigini; in vero, fu spesso criticato dagli stessi poliziotti che ritenevano Bertillon un uomo che si dava arie da scienziato ma di fatto non lo era.

Ma le critiche non fermarono l’investigatore dell’antropometria il quale nel suo indefesso lavoro giunse a schedare circa 80 mila detenuti che avevano trovato ospitalità nelle carceri francesi. Il metodo di BERTILLON si rivelò assai utile e preciso soprattutto innanzi ad un soggetto il quale forniva false generalità. Attraverso le sue impeccabili misurazioni antropometriche, dettate questa da una precisa sequenza di numeri, una volta rilevati i dati dell’arrestato, questi venivano poi confrontati con quello schedario da Bertillon creato; se la frequenza dei dati accertati corrispondeva a quelle catalogate l’identità era accertata. A completare le misurazioni antropometriche, Bertillon introdusse poi la descrizione minuziosa dei tatuaggi, delle cicatrici, anch’esse molto frequenti nei criminali e successivamente mise a punto un metodo anche per descrivere gli occhi, sfruttando i colori pupillari. Solo dopo anni in Francia la polizia riconobbe la validità del metodo di Bertillon, quando poi questi venne nominato, nel 1893 direttore del “Servizio Giudiziario d’Identità”.Tale metodo fu in seguito adottato da tutte le polizie del mondo.

Solo nel 1914 fu dichiarato superato e sostituito dalla dattiloscopia durante il congresso Internazionale di Polizia Scientifica che si tenne a Monaco.

Ma la storia ha sempre i suoi corsi e ricorsi, forse quel metodo oggi è stato accantonato, tuttavia vi sono casi in cui l’identità riferita ad un minore straniero, ad esempio, la cui età contrasta con le risultanze del documento di identità, il metodo sopra detto riappare e quindi per scongiurare ogni ragionevole dubbio, occorre ricorrere alle misurazioni radiografiche e antropometriche.

In definitiva, per verificare l’identità e l’età di un imputato talvolta erroneamente indicato come minore, la cui competenza ad accertare la commissione di reati, in tal caso è del Tribunale per i Minorenni , “le risultanze di un documento del quale non si conosce l’efficacia identificativa e fidefacente - indipendentemente da una formale contestazione di falsità - promanando esso da autorità estera, non essendo tradotto e non evidenziandosene la certa provenienza, debbono necessariamente cedere agli esiti di esami radiografici ed antropometrici. (Fattispecie in cui dagli esami medici era emerso che l’indagato era maggiore di età, in contrasto con le risultanze del documento di identità straniero in suo possesso; la cassazione, risolvendo il conflitto insorto tra il giudice ordinario e quello minorile ha affermato la competenza del primo osservando, sulla scorta del principio di cui in massima, che nella specie non si ravvisava nemmeno la semplice insorgenza del dubbio in ordine all’età dell’indagato, che avrebbe comportato la trasmissione degli atti al giudice minorile" [1].

Ma, come sempre, anche il suddetto principio in qualche occasione contrasta, a secondo del caso, con valutazioni del tutto differenti rispetto a comportamenti operativi e procedurali diversi.

Ed ecco il risultato:

“In tema di identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, l’art. 349 cod. proc.pen., non impone - come si desume dalla espressione "può ...ove occorra" - l’espletamento dei rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici - così come il quarto comma della stessa disposizione non prevede come obbligatorio l’accompagnamento da esperirsi solo ove, quanto alle generalità fornite, sussistano elementi per ritenerne la falsità. Ne consegue che il mancato ricorso alle suddette modalità non comporta che sia da ritenersi non identificato colui che abbia dato le proprie generalità, ancorché non successivamente rintracciato presso l’indirizzo indicato e che sulla scorta di ciò si debba pervenire alla declaratoria di "non doversi procedere per essere ignoti gli autori del reato". (Nella fattispecie il Pretore aveva dichiarato non doversi procedere per essere ignoti gli autori del reato nei confronti dell’imputato che, fermato dalla Polizia giudiziaria, si era limitato a declinare le proprie generalità, non essendo in possesso di documenti. Lo stesso era successivamente comparso a prestare l’interrogatorio espletato dalla PG su delega del PM. La S.C. - in applicazione del principio di cui in massima ha ritenuto che allorché l’attribuzione di generalità alla persona avvenga in un atto formale, espletato alla presenza del difensore di fiducia, una formula di proscioglimento non può essere fondata sui dubbi personali del giudice procedente il quale se del caso potrà disporre i relativi accertamenti” [2].

Concludendo, come sempre, ricordo a me stesso che la scienza senza coscienza non ha il giusto valore; che identità ha sempre il significato di uguale a se stesso.

Il metodo è importante, parimenti gli accertamenti, ma nella vita, a mio avviso si parte dall’osservazione prima di tutto, sinonimo di profondità, di introspezione, al di là di ogni fumosa apparenza.



[1] Sez. 1, Sentenza n. 2993 del 23/06/1993 Cc. (dep. 24/07/1993 ) Rv. 194627

[2] Sez. 2, Sentenza n. 8105 del 26/04/2000 Ud. (dep. 07/07/2000 ) Rv. 216522