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Il tesseramento del calciatore extracomunitario minore d’età non può essere oggetto di diniego per per motivi di cittadinanza

La Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.) non può negare il diritto dell’atleta extracomunitario minore d’età (legittimamente soggiornante in Italia con i genitori) al tesseramento in forza ad una società professionistica come “giovane di serie”, ovvero in qualità di atleta che instaura con la stessa un rapporto formativo e non di lavoro subordinato.

Inapplicabilità del principio relativo al contingentamento annuale degli sportivi professionisti extracomunitari previsto dall’art. 27, comma 5 bis, T.U. sull’Immigrazione.

Ai fini del puntuale inquadramento giuridico del tema che ci occupa, è necessario considerare, preliminarmente, come l’ordinamento sportivo, al pari di tutti quelli settoriali, si ponga, rispetto a quello statale, in veste di “ordinamento derivato”, poiché persegue interessi collettivi (comuni esclusivamente alla collettività che ne fa parte), e non di natura generale.

In quest’ottica, anche le norme che presidiano tali ordinamenti (di natura regolamentare, nel caso di quello sportivo), assumono, nel sistema della gerarchia delle fonti, il carattere di precetti il cui rango è sottoordinato rispetto alle leggi statali, con cui, di conseguenza, non possono confliggere.

Tuttavia, se da un lato, la disciplina normativa domestica (sportiva) non può prescindere dal puntuale riferimento ai principi dettati dalla legislazione ordinaria, dall’altro, quest’ultima deve essere recepita, dalla prima, secondo criteri di assoluta puntualità e certezza.

La finalità, evidentemente, è quella di evitare che la stessa disciplina settoriale, in un primo momento legittimata dalla piena conformità all’ordinamento statuale, si riveli, sotto altri profili, oltremodo illegittima in seno allo stesso.

In tal senso, è emblematica la vicenda del calciatore marocchino minore d’età, K. A., regolarmente soggiornante in Italia con i genitori, al quale, in forza del richiamo all’art. 27, comma 5 bis, T.U. sull’Immigrazione, è stato negato (da parte della F.I.G.C. e della Lega Nazionale Professionisti Serie C) il diritto al tesseramento per una società professionistica militante nel Campionato Italiano di Serie C2 (F.C. Sudtirol).

Il calciatore sarebbe stato tesserato come di “giovane di serie”e avrebbe instaurato con la società sportiva non un rapporto di lavoro subordinato ma di natura esclusivamente formativa.

Della querelle veniva investito il Tribunale di Bolzano, il quale, in primo grado come giudice unico (a seguito del ricorso promosso dai genitori del minore ex art. 44 T.U. sull’immigrazione, ord. 24/02/2004), in composizione collegiale in sede di appello (a seguito del reclamo interposto dalla F.I.G.C. e dalla Lega Professionisti Serie C avverso l’ordinanza pronunciata a definizione della fase sommaria, sent. 16/04/2004), riconosceva il diritto del minore K. A. ad essere tesserato per il F.C. Sudtirol come “giovane di serie”, senza che, ai fini del contingentamento (per motivi di lavoro) annuale degli sportivi professionisti provenienti dall’area extra U.E., potesse rilevare l’origine marocchina del giovane atleta, se non a costo di violare il diritto all’uguaglianza e alla parità di trattamento del soggetto in ogni sua più ampia espressione.

In tema, peraltro, si sono avvicendate, soprattutto a partire dall’anno 2000, numerose pronunce degne di rilievo (caso Ekong, Trib. Reggio Emilia -calcio-, caso Sheppard, Trib. di Teramo -basket-, casi Gato, Marshall, Hernandez, Dennis e Romero, Trib. Di Verona -pallavolo- caso Hernandez Paz, Trib. Di Pescara -pallanuoto-), tutte univocamente concordi nel sancire che l’ordinamento sportivo non può essere totalmente impermeabile a quello statuale, ove si impedisca all’atleta l’esercizio della pratica sportiva in base ad un ingiustificato (e vietato) elemento di differenziazione, derogandosi, così, ai fondamentali principi di ordine pubblico internazionale desumibili dalla Carta Costituzionale e dagli Accordi Internazionali in tema di libertà e uguaglianza.

È questo, in definitiva, il principio che promana anche dalla sentenza del Tribunale di Bolzano 16/04/2006.

La pronuncia de qua, in maniera puntuale e dettagliata, demolisce l’impianto giuridico-normativo sul quale la F.I.G.C. e la Lega Professionisti Serie C avevano fondato l’asserita legittimità del provvedimento di diniego de quo, da un lato, assumendo “l’ineludibile ortodossa applicazione della normativa statale regolante l’immigrazione degli stranieri”, dall’altro, l’individuazione del minore K. A. quale “calciatore proveniente dall’estero”, dunque, “non tesserabile dalle società di Serie C1 e C2 per la stagione sportiva 2003/2004 “ alla luce di quanto prescritto dal C.U. F.I.G.C. N. 133/03.

Una prima interessante osservazione che il Tribunale di Bolzano ha formulato in parte motiva, afferisce all’assoluta mancanza di criteri normativi in base a cui il richiamato C.U. F.I.G.C. aveva dato esecuzione ai flussi di ingresso degli sportivi professionisti extracomunitari.

E ciò, in considerazione del fatto che solo al Governo, di concerto con il C.O.N.I., e non ai singoli enti federali (tra cui la F.I.G.C.), era stato demandato di regolare il contingentamento degli atleti non appartenenti all’area U.E..

In buona sostanza, il rilievo viene è stato mosso nei riguardi di una certa arbitrarietà in seno al contegno della F.I.G.C. (e di riflesso della Lega professionisti Serie C) che aveva esercitato il potere di assenso e di diniego in relazione al tesseramento degli sportivi professionisti extra U.E., senza operare (nel richiamato C.U. N. 133/03) alcun riferimento alle valutazioni espresse da Governo e C.O.N.I. in ordine agli interessi in gioco: quelli delle società, da una parte, quelli attinenti alla salvaguardia dello sport nazionale e dei settori giovanili, dall’altra.

Il Tribunale di Bolzano, però, ha individuato il vero “punto debole” della tesi assunta dalle istituzioni sportive reclamanti, nel fatto che l’art. 27, comma 5 bis citato subordinava i limiti di ingresso per gli atleti professionisti extra U.E. allo svolgimento di un’attività sportiva a titolo professionistico o comunque retribuita, mentre il vincolo che avrebbe assunto il giovane K. A. sarebbe stato caratterizzato da una funzione eminentemente formativa.

Le stesse norme federali (Norme Organizzative Interne F.I.G.C., c.d. N.O.I.F.), del resto, non solo distinguono la figura del calciatore “giovane di serie” (art. 33 N.O.I.F.) da quello “professionista”, ma stabiliscono anche che l’attività svolta dal primo non può essere remunerata, ma solo indennizzata in base a determinati parametri stabiliti dalle Leghe professionistiche (nel caso specifico Lega Professionisti Serie C).

La circostanza, poi, che il calciatore minorenne, sin dal 1998, risultasse tesserato per una società dilettantistica, l’U.S. Stella Azzurra, quindi già tesserato F.I.G.C., ha indotto il Collegio giudicante a ritenere che, se la ratio ispiratrice della norma statale e dei precetti federali era quella di salvaguardare i vivai, limitando l’ingresso di atleti extracomunitari (professionisti), non si comprende perché la F.I.G.C. non abbia impedito il tesseramento del giovane calciatore sin dall’inizio.

È evidente che mai l’ente federale avrebbe potuto comprimere il diritto del minore di associarsi liberamente all’organizzazione della disciplina sportiva di interesse (F.I.G.C.). Al contrario, il giovane K. A. avrebbe dovuto godere ampiamente di quel diritto, ove si consideri che qualunque altro minore italiano, ovvero comunitario, di pari età, avrebbe potuto, sempre ex art. 33 N.O.I.F., ottenere il tesseramento in qualità di “giovane di serie”, senza impedimento alcuno e, addirittura, stipulare (verificandosi certe condizioni) anche un primo contratto da professionista.

Non sembra potersi negare che, in effetti, le determinazioni assunte dalla F.I.G.C. e dalla Lega Professionisti Serie C, abbiano dato luogo ad una palese e ingiustificata disparità di trattamento in danno del baby calciatore.

Esse, infatti, si pongono in evidente contrasto, in primo luogo, con i principi della legislazione ordinaria che, invece, è volta a favorire, gradualmente, l’ingresso nel mondo del lavoro dell’individuo extracomunitario, sin dalla minore età.

È noto che questi, compiuti i 14 anni e iscritto nel permesso o nella carta di soggiorno dei genitori, può ottenere un permesso per motivi familiari e svolgere, al raggiungimento dell’età prescritta, un lavoro subordinato o autonomo.

Inoltre, una volta maggiorenne, il soggetto può conseguire un proprio e autonomo permesso per accedere al mercato del lavoro.

Inoltre, quelle stesse determinazioni di diniego si pongono in aperto contrasto sia con l’art. 2, T.U. sull’Immigrazione, sia con l’art. 16, D.Lgs. n. 242/1999 (Legge istitutiva del C.O.N.I., c.d. Decreto Melandri), come modificato dal D.Lgs. n. 15/2004 (c.d. Decreto Pescante).

La prima norma, infatti prescrive che “il cittadino extracomunitario, legalmente soggiornante, gode degli stessi diritti in materia civile riconosciuti al cittadino, salvo che non sia diversamente stabilito dal T.U. sull’Immigrazione o da accordi internazionali”.

Il secondo precetto, ad colorandum, stabilisce, invece, che “le Federazioni sportive nazionali e le discipline sportive associate sono rette da norme statutarie e regolamentari sulla base del principio di democrazia interna, di partecipazione all’attività sportiva da parte di chiunque in condizioni di parità e in armonia con l’ordinamento sportivo nazionale ed internazionale”.

In conclusione, la F.I.G.C., e la Lega Professionisti Serie C non hanno tenuto in debita considerazione che non solo il giovane K. A. era già beneficiario di un legittimo permesso di soggiorno che lo abilitava a svolgere qualsiasi attività di studio e di lavoro, ma soprattutto che egli non poteva essere annoverato tra gli atleti extracomunitari da contingentare (per motivi di lavoro), con il conseguente diritto a non essere discriminato in ragione della sua provenienza extracomunitaria.

Per mera completezza espositiva, si segnala, in tema, una recentissima pronuncia del Tribunale di Verona (ord. 14/07/2006) che ha ribadito come il tesseramento dei calciatori extracomunitari minori in qualità di “giovani di serie”, denegato per ragioni di contingentamento (con riferimento alla s.s. 2005/2006, C.U. F.I.G.C. N. 225 A /05), “risulti sottoposto a condizioni e limiti non previsti per i cittadini, con ciò realizzandosi un ostacolo all’inserimento dei calciatori minori extracomunitari nel calcio professionistico”.

Peraltro, anche in questa occasione, sono state riproposte le medesime argomentazioni afferenti sia all’esclusiva funzione regolatrice demandata a Governo e C.O.N.I. in ordine alla fissazione del limite di ingresso annuale riservato agli sportivi extracomunitari, sia alla decisiva circostanza che l’art. 27, comma 5 bis, T.U. sull’Immigrazione, si riferisce agli atleti professionisti o comunque retribuiti, e non a coloro che siano vincolati ad un club da un rapporto di tipo formativo e non remunerato.

Il tesseramento del calciatore extracomunitario minore d’età non può essere oggetto di diniego per per motivi di cittadinanza.

La Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.) non può negare il diritto dell’atleta extracomunitario minore d’età (legittimamente soggiornante in Italia con i genitori) al tesseramento in forza ad una società professionistica come “giovane di serie”, ovvero in qualità di atleta che instaura con la stessa un rapporto formativo e non di lavoro subordinato.

Inapplicabilità del principio relativo al contingentamento annuale degli sportivi professionisti extracomunitari previsto dall’art. 27, comma 5 bis, T.U. sull’Immigrazione.

Ai fini del puntuale inquadramento giuridico del tema che ci occupa, è necessario considerare, preliminarmente, come l’ordinamento sportivo, al pari di tutti quelli settoriali, si ponga, rispetto a quello statale, in veste di “ordinamento derivato”, poiché persegue interessi collettivi (comuni esclusivamente alla collettività che ne fa parte), e non di natura generale.

In quest’ottica, anche le norme che presidiano tali ordinamenti (di natura regolamentare, nel caso di quello sportivo), assumono, nel sistema della gerarchia delle fonti, il carattere di precetti il cui rango è sottoordinato rispetto alle leggi statali, con cui, di conseguenza, non possono confliggere.

Tuttavia, se da un lato, la disciplina normativa domestica (sportiva) non può prescindere dal puntuale riferimento ai principi dettati dalla legislazione ordinaria, dall’altro, quest’ultima deve essere recepita, dalla prima, secondo criteri di assoluta puntualità e certezza.

La finalità, evidentemente, è quella di evitare che la stessa disciplina settoriale, in un primo momento legittimata dalla piena conformità all’ordinamento statuale, si riveli, sotto altri profili, oltremodo illegittima in seno allo stesso.

In tal senso, è emblematica la vicenda del calciatore marocchino minore d’età, K. A., regolarmente soggiornante in Italia con i genitori, al quale, in forza del richiamo all’art. 27, comma 5 bis, T.U. sull’Immigrazione, è stato negato (da parte della F.I.G.C. e della Lega Nazionale Professionisti Serie C) il diritto al tesseramento per una società professionistica militante nel Campionato Italiano di Serie C2 (F.C. Sudtirol).

Il calciatore sarebbe stato tesserato come di “giovane di serie”e avrebbe instaurato con la società sportiva non un rapporto di lavoro subordinato ma di natura esclusivamente formativa.

Della querelle veniva investito il Tribunale di Bolzano, il quale, in primo grado come giudice unico (a seguito del ricorso promosso dai genitori del minore ex art. 44 T.U. sull’immigrazione, ord. 24/02/2004), in composizione collegiale in sede di appello (a seguito del reclamo interposto dalla F.I.G.C. e dalla Lega Professionisti Serie C avverso l’ordinanza pronunciata a definizione della fase sommaria, sent. 16/04/2004), riconosceva il diritto del minore K. A. ad essere tesserato per il F.C. Sudtirol come “giovane di serie”, senza che, ai fini del contingentamento (per motivi di lavoro) annuale degli sportivi professionisti provenienti dall’area extra U.E., potesse rilevare l’origine marocchina del giovane atleta, se non a costo di violare il diritto all’uguaglianza e alla parità di trattamento del soggetto in ogni sua più ampia espressione.

In tema, peraltro, si sono avvicendate, soprattutto a partire dall’anno 2000, numerose pronunce degne di rilievo (caso Ekong, Trib. Reggio Emilia -calcio-, caso Sheppard, Trib. di Teramo -basket-, casi Gato, Marshall, Hernandez, Dennis e Romero, Trib. Di Verona -pallavolo- caso Hernandez Paz, Trib. Di Pescara -pallanuoto-), tutte univocamente concordi nel sancire che l’ordinamento sportivo non può essere totalmente impermeabile a quello statuale, ove si impedisca all’atleta l’esercizio della pratica sportiva in base ad un ingiustificato (e vietato) elemento di differenziazione, derogandosi, così, ai fondamentali principi di ordine pubblico internazionale desumibili dalla Carta Costituzionale e dagli Accordi Internazionali in tema di libertà e uguaglianza.

È questo, in definitiva, il principio che promana anche dalla sentenza del Tribunale di Bolzano 16/04/2006.

La pronuncia de qua, in maniera puntuale e dettagliata, demolisce l’impianto giuridico-normativo sul quale la F.I.G.C. e la Lega Professionisti Serie C avevano fondato l’asserita legittimità del provvedimento di diniego de quo, da un lato, assumendo “l’ineludibile ortodossa applicazione della normativa statale regolante l’immigrazione degli stranieri”, dall’altro, l’individuazione del minore K. A. quale “calciatore proveniente dall’estero”, dunque, “non tesserabile dalle società di Serie C1 e C2 per la stagione sportiva 2003/2004 “ alla luce di quanto prescritto dal C.U. F.I.G.C. N. 133/03.

Una prima interessante osservazione che il Tribunale di Bolzano ha formulato in parte motiva, afferisce all’assoluta mancanza di criteri normativi in base a cui il richiamato C.U. F.I.G.C. aveva dato esecuzione ai flussi di ingresso degli sportivi professionisti extracomunitari.

E ciò, in considerazione del fatto che solo al Governo, di concerto con il C.O.N.I., e non ai singoli enti federali (tra cui la F.I.G.C.), era stato demandato di regolare il contingentamento degli atleti non appartenenti all’area U.E..

In buona sostanza, il rilievo viene è stato mosso nei riguardi di una certa arbitrarietà in seno al contegno della F.I.G.C. (e di riflesso della Lega professionisti Serie C) che aveva esercitato il potere di assenso e di diniego in relazione al tesseramento degli sportivi professionisti extra U.E., senza operare (nel richiamato C.U. N. 133/03) alcun riferimento alle valutazioni espresse da Governo e C.O.N.I. in ordine agli interessi in gioco: quelli delle società, da una parte, quelli attinenti alla salvaguardia dello sport nazionale e dei settori giovanili, dall’altra.

Il Tribunale di Bolzano, però, ha individuato il vero “punto debole” della tesi assunta dalle istituzioni sportive reclamanti, nel fatto che l’art. 27, comma 5 bis citato subordinava i limiti di ingresso per gli atleti professionisti extra U.E. allo svolgimento di un’attività sportiva a titolo professionistico o comunque retribuita, mentre il vincolo che avrebbe assunto il giovane K. A. sarebbe stato caratterizzato da una funzione eminentemente formativa.

Le stesse norme federali (Norme Organizzative Interne F.I.G.C., c.d. N.O.I.F.), del resto, non solo distinguono la figura del calciatore “giovane di serie” (art. 33 N.O.I.F.) da quello “professionista”, ma stabiliscono anche che l’attività svolta dal primo non può essere remunerata, ma solo indennizzata in base a determinati parametri stabiliti dalle Leghe professionistiche (nel caso specifico Lega Professionisti Serie C).

La circostanza, poi, che il calciatore minorenne, sin dal 1998, risultasse tesserato per una società dilettantistica, l’U.S. Stella Azzurra, quindi già tesserato F.I.G.C., ha indotto il Collegio giudicante a ritenere che, se la ratio ispiratrice della norma statale e dei precetti federali era quella di salvaguardare i vivai, limitando l’ingresso di atleti extracomunitari (professionisti), non si comprende perché la F.I.G.C. non abbia impedito il tesseramento del giovane calciatore sin dall’inizio.

È evidente che mai l’ente federale avrebbe potuto comprimere il diritto del minore di associarsi liberamente all’organizzazione della disciplina sportiva di interesse (F.I.G.C.). Al contrario, il giovane K. A. avrebbe dovuto godere ampiamente di quel diritto, ove si consideri che qualunque altro minore italiano, ovvero comunitario, di pari età, avrebbe potuto, sempre ex art. 33 N.O.I.F., ottenere il tesseramento in qualità di “giovane di serie”, senza impedimento alcuno e, addirittura, stipulare (verificandosi certe condizioni) anche un primo contratto da professionista.

Non sembra potersi negare che, in effetti, le determinazioni assunte dalla F.I.G.C. e dalla Lega Professionisti Serie C, abbiano dato luogo ad una palese e ingiustificata disparità di trattamento in danno del baby calciatore.

Esse, infatti, si pongono in evidente contrasto, in primo luogo, con i principi della legislazione ordinaria che, invece, è volta a favorire, gradualmente, l’ingresso nel mondo del lavoro dell’individuo extracomunitario, sin dalla minore età.

È noto che questi, compiuti i 14 anni e iscritto nel permesso o nella carta di soggiorno dei genitori, può ottenere un permesso per motivi familiari e svolgere, al raggiungimento dell’età prescritta, un lavoro subordinato o autonomo.

Inoltre, una volta maggiorenne, il soggetto può conseguire un proprio e autonomo permesso per accedere al mercato del lavoro.

Inoltre, quelle stesse determinazioni di diniego si pongono in aperto contrasto sia con l’art. 2, T.U. sull’Immigrazione, sia con l’art. 16, D.Lgs. n. 242/1999 (Legge istitutiva del C.O.N.I., c.d. Decreto Melandri), come modificato dal D.Lgs. n. 15/2004 (c.d. Decreto Pescante).

La prima norma, infatti prescrive che “il cittadino extracomunitario, legalmente soggiornante, gode degli stessi diritti in materia civile riconosciuti al cittadino, salvo che non sia diversamente stabilito dal T.U. sull’Immigrazione o da accordi internazionali”.

Il secondo precetto, ad colorandum, stabilisce, invece, che “le Federazioni sportive nazionali e le discipline sportive associate sono rette da norme statutarie e regolamentari sulla base del principio di democrazia interna, di partecipazione all’attività sportiva da parte di chiunque in condizioni di parità e in armonia con l’ordinamento sportivo nazionale ed internazionale”.

In conclusione, la F.I.G.C., e la Lega Professionisti Serie C non hanno tenuto in debita considerazione che non solo il giovane K. A. era già beneficiario di un legittimo permesso di soggiorno che lo abilitava a svolgere qualsiasi attività di studio e di lavoro, ma soprattutto che egli non poteva essere annoverato tra gli atleti extracomunitari da contingentare (per motivi di lavoro), con il conseguente diritto a non essere discriminato in ragione della sua provenienza extracomunitaria.

Per mera completezza espositiva, si segnala, in tema, una recentissima pronuncia del Tribunale di Verona (ord. 14/07/2006) che ha ribadito come il tesseramento dei calciatori extracomunitari minori in qualità di “giovani di serie”, denegato per ragioni di contingentamento (con riferimento alla s.s. 2005/2006, C.U. F.I.G.C. N. 225 A /05), “risulti sottoposto a condizioni e limiti non previsti per i cittadini, con ciò realizzandosi un ostacolo all’inserimento dei calciatori minori extracomunitari nel calcio professionistico”.

Peraltro, anche in questa occasione, sono state riproposte le medesime argomentazioni afferenti sia all’esclusiva funzione regolatrice demandata a Governo e C.O.N.I. in ordine alla fissazione del limite di ingresso annuale riservato agli sportivi extracomunitari, sia alla decisiva circostanza che l’art. 27, comma 5 bis, T.U. sull’Immigrazione, si riferisce agli atleti professionisti o comunque retribuiti, e non a coloro che siano vincolati ad un club da un rapporto di tipo formativo e non remunerato.

La Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.) non può negare il diritto dell’atleta extracomunitario minore d’età (legittimamente soggiornante in Italia con i genitori) al tesseramento in forza ad una società professionistica come “giovane di serie”, ovvero in qualità di atleta che instaura con la stessa un rapporto formativo e non di lavoro subordinato.

Inapplicabilità del principio relativo al contingentamento annuale degli sportivi professionisti extracomunitari previsto dall’art. 27, comma 5 bis, T.U. sull’Immigrazione.

Ai fini del puntuale inquadramento giuridico del tema che ci occupa, è necessario considerare, preliminarmente, come l’ordinamento sportivo, al pari di tutti quelli settoriali, si ponga, rispetto a quello statale, in veste di “ordinamento derivato”, poiché persegue interessi collettivi (comuni esclusivamente alla collettività che ne fa parte), e non di natura generale.

In quest’ottica, anche le norme che presidiano tali ordinamenti (di natura regolamentare, nel caso di quello sportivo), assumono, nel sistema della gerarchia delle fonti, il carattere di precetti il cui rango è sottoordinato rispetto alle leggi statali, con cui, di conseguenza, non possono confliggere.

Tuttavia, se da un lato, la disciplina normativa domestica (sportiva) non può prescindere dal puntuale riferimento ai principi dettati dalla legislazione ordinaria, dall’altro, quest’ultima deve essere recepita, dalla prima, secondo criteri di assoluta puntualità e certezza.

La finalità, evidentemente, è quella di evitare che la stessa disciplina settoriale, in un primo momento legittimata dalla piena conformità all’ordinamento statuale, si riveli, sotto altri profili, oltremodo illegittima in seno allo stesso.

In tal senso, è emblematica la vicenda del calciatore marocchino minore d’età, K. A., regolarmente soggiornante in Italia con i genitori, al quale, in forza del richiamo all’art. 27, comma 5 bis, T.U. sull’Immigrazione, è stato negato (da parte della F.I.G.C. e della Lega Nazionale Professionisti Serie C) il diritto al tesseramento per una società professionistica militante nel Campionato Italiano di Serie C2 (F.C. Sudtirol).

Il calciatore sarebbe stato tesserato come di “giovane di serie”e avrebbe instaurato con la società sportiva non un rapporto di lavoro subordinato ma di natura esclusivamente formativa.

Della querelle veniva investito il Tribunale di Bolzano, il quale, in primo grado come giudice unico (a seguito del ricorso promosso dai genitori del minore ex art. 44 T.U. sull’immigrazione, ord. 24/02/2004), in composizione collegiale in sede di appello (a seguito del reclamo interposto dalla F.I.G.C. e dalla Lega Professionisti Serie C avverso l’ordinanza pronunciata a definizione della fase sommaria, sent. 16/04/2004), riconosceva il diritto del minore K. A. ad essere tesserato per il F.C. Sudtirol come “giovane di serie”, senza che, ai fini del contingentamento (per motivi di lavoro) annuale degli sportivi professionisti provenienti dall’area extra U.E., potesse rilevare l’origine marocchina del giovane atleta, se non a costo di violare il diritto all’uguaglianza e alla parità di trattamento del soggetto in ogni sua più ampia espressione.

In tema, peraltro, si sono avvicendate, soprattutto a partire dall’anno 2000, numerose pronunce degne di rilievo (caso Ekong, Trib. Reggio Emilia -calcio-, caso Sheppard, Trib. di Teramo -basket-, casi Gato, Marshall, Hernandez, Dennis e Romero, Trib. Di Verona -pallavolo- caso Hernandez Paz, Trib. Di Pescara -pallanuoto-), tutte univocamente concordi nel sancire che l’ordinamento sportivo non può essere totalmente impermeabile a quello statuale, ove si impedisca all’atleta l’esercizio della pratica sportiva in base ad un ingiustificato (e vietato) elemento di differenziazione, derogandosi, così, ai fondamentali principi di ordine pubblico internazionale desumibili dalla Carta Costituzionale e dagli Accordi Internazionali in tema di libertà e uguaglianza.

È questo, in definitiva, il principio che promana anche dalla sentenza del Tribunale di Bolzano 16/04/2006.

La pronuncia de qua, in maniera puntuale e dettagliata, demolisce l’impianto giuridico-normativo sul quale la F.I.G.C. e la Lega Professionisti Serie C avevano fondato l’asserita legittimità del provvedimento di diniego de quo, da un lato, assumendo “l’ineludibile ortodossa applicazione della normativa statale regolante l’immigrazione degli stranieri”, dall’altro, l’individuazione del minore K. A. quale “calciatore proveniente dall’estero”, dunque, “non tesserabile dalle società di Serie C1 e C2 per la stagione sportiva 2003/2004 “ alla luce di quanto prescritto dal C.U. F.I.G.C. N. 133/03.

Una prima interessante osservazione che il Tribunale di Bolzano ha formulato in parte motiva, afferisce all’assoluta mancanza di criteri normativi in base a cui il richiamato C.U. F.I.G.C. aveva dato esecuzione ai flussi di ingresso degli sportivi professionisti extracomunitari.

E ciò, in considerazione del fatto che solo al Governo, di concerto con il C.O.N.I., e non ai singoli enti federali (tra cui la F.I.G.C.), era stato demandato di regolare il contingentamento degli atleti non appartenenti all’area U.E..

In buona sostanza, il rilievo viene è stato mosso nei riguardi di una certa arbitrarietà in seno al contegno della F.I.G.C. (e di riflesso della Lega professionisti Serie C) che aveva esercitato il potere di assenso e di diniego in relazione al tesseramento degli sportivi professionisti extra U.E., senza operare (nel richiamato C.U. N. 133/03) alcun riferimento alle valutazioni espresse da Governo e C.O.N.I. in ordine agli interessi in gioco: quelli delle società, da una parte, quelli attinenti alla salvaguardia dello sport nazionale e dei settori giovanili, dall’altra.

Il Tribunale di Bolzano, però, ha individuato il vero “punto debole” della tesi assunta dalle istituzioni sportive reclamanti, nel fatto che l’art. 27, comma 5 bis citato subordinava i limiti di ingresso per gli atleti professionisti extra U.E. allo svolgimento di un’attività sportiva a titolo professionistico o comunque retribuita, mentre il vincolo che avrebbe assunto il giovane K. A. sarebbe stato caratterizzato da una funzione eminentemente formativa.

Le stesse norme federali (Norme Organizzative Interne F.I.G.C., c.d. N.O.I.F.), del resto, non solo distinguono la figura del calciatore “giovane di serie” (art. 33 N.O.I.F.) da quello “professionista”, ma stabiliscono anche che l’attività svolta dal primo non può essere remunerata, ma solo indennizzata in base a determinati parametri stabiliti dalle Leghe professionistiche (nel caso specifico Lega Professionisti Serie C).

La circostanza, poi, che il calciatore minorenne, sin dal 1998, risultasse tesserato per una società dilettantistica, l’U.S. Stella Azzurra, quindi già tesserato F.I.G.C., ha indotto il Collegio giudicante a ritenere che, se la ratio ispiratrice della norma statale e dei precetti federali era quella di salvaguardare i vivai, limitando l’ingresso di atleti extracomunitari (professionisti), non si comprende perché la F.I.G.C. non abbia impedito il tesseramento del giovane calciatore sin dall’inizio.

È evidente che mai l’ente federale avrebbe potuto comprimere il diritto del minore di associarsi liberamente all’organizzazione della disciplina sportiva di interesse (F.I.G.C.). Al contrario, il giovane K. A. avrebbe dovuto godere ampiamente di quel diritto, ove si consideri che qualunque altro minore italiano, ovvero comunitario, di pari età, avrebbe potuto, sempre ex art. 33 N.O.I.F., ottenere il tesseramento in qualità di “giovane di serie”, senza impedimento alcuno e, addirittura, stipulare (verificandosi certe condizioni) anche un primo contratto da professionista.

Non sembra potersi negare che, in effetti, le determinazioni assunte dalla F.I.G.C. e dalla Lega Professionisti Serie C, abbiano dato luogo ad una palese e ingiustificata disparità di trattamento in danno del baby calciatore.

Esse, infatti, si pongono in evidente contrasto, in primo luogo, con i principi della legislazione ordinaria che, invece, è volta a favorire, gradualmente, l’ingresso nel mondo del lavoro dell’individuo extracomunitario, sin dalla minore età.

È noto che questi, compiuti i 14 anni e iscritto nel permesso o nella carta di soggiorno dei genitori, può ottenere un permesso per motivi familiari e svolgere, al raggiungimento dell’età prescritta, un lavoro subordinato o autonomo.

Inoltre, una volta maggiorenne, il soggetto può conseguire un proprio e autonomo permesso per accedere al mercato del lavoro.

Inoltre, quelle stesse determinazioni di diniego si pongono in aperto contrasto sia con l’art. 2, T.U. sull’Immigrazione, sia con l’art. 16, D.Lgs. n. 242/1999 (Legge istitutiva del C.O.N.I., c.d. Decreto Melandri), come modificato dal D.Lgs. n. 15/2004 (c.d. Decreto Pescante).

La prima norma, infatti prescrive che “il cittadino extracomunitario, legalmente soggiornante, gode degli stessi diritti in materia civile riconosciuti al cittadino, salvo che non sia diversamente stabilito dal T.U. sull’Immigrazione o da accordi internazionali”.

Il secondo precetto, ad colorandum, stabilisce, invece, che “le Federazioni sportive nazionali e le discipline sportive associate sono rette da norme statutarie e regolamentari sulla base del principio di democrazia interna, di partecipazione all’attività sportiva da parte di chiunque in condizioni di parità e in armonia con l’ordinamento sportivo nazionale ed internazionale”.

In conclusione, la F.I.G.C., e la Lega Professionisti Serie C non hanno tenuto in debita considerazione che non solo il giovane K. A. era già beneficiario di un legittimo permesso di soggiorno che lo abilitava a svolgere qualsiasi attività di studio e di lavoro, ma soprattutto che egli non poteva essere annoverato tra gli atleti extracomunitari da contingentare (per motivi di lavoro), con il conseguente diritto a non essere discriminato in ragione della sua provenienza extracomunitaria.

Per mera completezza espositiva, si segnala, in tema, una recentissima pronuncia del Tribunale di Verona (ord. 14/07/2006) che ha ribadito come il tesseramento dei calciatori extracomunitari minori in qualità di “giovani di serie”, denegato per ragioni di contingentamento (con riferimento alla s.s. 2005/2006, C.U. F.I.G.C. N. 225 A /05), “risulti sottoposto a condizioni e limiti non previsti per i cittadini, con ciò realizzandosi un ostacolo all’inserimento dei calciatori minori extracomunitari nel calcio professionistico”.

Peraltro, anche in questa occasione, sono state riproposte le medesime argomentazioni afferenti sia all’esclusiva funzione regolatrice demandata a Governo e C.O.N.I. in ordine alla fissazione del limite di ingresso annuale riservato agli sportivi extracomunitari, sia alla decisiva circostanza che l’art. 27, comma 5 bis, T.U. sull’Immigrazione, si riferisce agli atleti professionisti o comunque retribuiti, e non a coloro che siano vincolati ad un club da un rapporto di tipo formativo e non remunerato.

Il tesseramento del calciatore extracomunitario minore d’età non può essere oggetto di diniego per per motivi di cittadinanza.

La Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.) non può negare il diritto dell’atleta extracomunitario minore d’età (legittimamente soggiornante in Italia con i genitori) al tesseramento in forza ad una società professionistica come “giovane di serie”, ovvero in qualità di atleta che instaura con la stessa un rapporto formativo e non di lavoro subordinato.

Inapplicabilità del principio relativo al contingentamento annuale degli sportivi professionisti extracomunitari previsto dall’art. 27, comma 5 bis, T.U. sull’Immigrazione.

Ai fini del puntuale inquadramento giuridico del tema che ci occupa, è necessario considerare, preliminarmente, come l’ordinamento sportivo, al pari di tutti quelli settoriali, si ponga, rispetto a quello statale, in veste di “ordinamento derivato”, poiché persegue interessi collettivi (comuni esclusivamente alla collettività che ne fa parte), e non di natura generale.

In quest’ottica, anche le norme che presidiano tali ordinamenti (di natura regolamentare, nel caso di quello sportivo), assumono, nel sistema della gerarchia delle fonti, il carattere di precetti il cui rango è sottoordinato rispetto alle leggi statali, con cui, di conseguenza, non possono confliggere.

Tuttavia, se da un lato, la disciplina normativa domestica (sportiva) non può prescindere dal puntuale riferimento ai principi dettati dalla legislazione ordinaria, dall’altro, quest’ultima deve essere recepita, dalla prima, secondo criteri di assoluta puntualità e certezza.

La finalità, evidentemente, è quella di evitare che la stessa disciplina settoriale, in un primo momento legittimata dalla piena conformità all’ordinamento statuale, si riveli, sotto altri profili, oltremodo illegittima in seno allo stesso.

In tal senso, è emblematica la vicenda del calciatore marocchino minore d’età, K. A., regolarmente soggiornante in Italia con i genitori, al quale, in forza del richiamo all’art. 27, comma 5 bis, T.U. sull’Immigrazione, è stato negato (da parte della F.I.G.C. e della Lega Nazionale Professionisti Serie C) il diritto al tesseramento per una società professionistica militante nel Campionato Italiano di Serie C2 (F.C. Sudtirol).

Il calciatore sarebbe stato tesserato come di “giovane di serie”e avrebbe instaurato con la società sportiva non un rapporto di lavoro subordinato ma di natura esclusivamente formativa.

Della querelle veniva investito il Tribunale di Bolzano, il quale, in primo grado come giudice unico (a seguito del ricorso promosso dai genitori del minore ex art. 44 T.U. sull’immigrazione, ord. 24/02/2004), in composizione collegiale in sede di appello (a seguito del reclamo interposto dalla F.I.G.C. e dalla Lega Professionisti Serie C avverso l’ordinanza pronunciata a definizione della fase sommaria, sent. 16/04/2004), riconosceva il diritto del minore K. A. ad essere tesserato per il F.C. Sudtirol come “giovane di serie”, senza che, ai fini del contingentamento (per motivi di lavoro) annuale degli sportivi professionisti provenienti dall’area extra U.E., potesse rilevare l’origine marocchina del giovane atleta, se non a costo di violare il diritto all’uguaglianza e alla parità di trattamento del soggetto in ogni sua più ampia espressione.

In tema, peraltro, si sono avvicendate, soprattutto a partire dall’anno 2000, numerose pronunce degne di rilievo (caso Ekong, Trib. Reggio Emilia -calcio-, caso Sheppard, Trib. di Teramo -basket-, casi Gato, Marshall, Hernandez, Dennis e Romero, Trib. Di Verona -pallavolo- caso Hernandez Paz, Trib. Di Pescara -pallanuoto-), tutte univocamente concordi nel sancire che l’ordinamento sportivo non può essere totalmente impermeabile a quello statuale, ove si impedisca all’atleta l’esercizio della pratica sportiva in base ad un ingiustificato (e vietato) elemento di differenziazione, derogandosi, così, ai fondamentali principi di ordine pubblico internazionale desumibili dalla Carta Costituzionale e dagli Accordi Internazionali in tema di libertà e uguaglianza.

È questo, in definitiva, il principio che promana anche dalla sentenza del Tribunale di Bolzano 16/04/2006.

La pronuncia de qua, in maniera puntuale e dettagliata, demolisce l’impianto giuridico-normativo sul quale la F.I.G.C. e la Lega Professionisti Serie C avevano fondato l’asserita legittimità del provvedimento di diniego de quo, da un lato, assumendo “l’ineludibile ortodossa applicazione della normativa statale regolante l’immigrazione degli stranieri”, dall’altro, l’individuazione del minore K. A. quale “calciatore proveniente dall’estero”, dunque, “non tesserabile dalle società di Serie C1 e C2 per la stagione sportiva 2003/2004 “ alla luce di quanto prescritto dal C.U. F.I.G.C. N. 133/03.

Una prima interessante osservazione che il Tribunale di Bolzano ha formulato in parte motiva, afferisce all’assoluta mancanza di criteri normativi in base a cui il richiamato C.U. F.I.G.C. aveva dato esecuzione ai flussi di ingresso degli sportivi professionisti extracomunitari.

E ciò, in considerazione del fatto che solo al Governo, di concerto con il C.O.N.I., e non ai singoli enti federali (tra cui la F.I.G.C.), era stato demandato di regolare il contingentamento degli atleti non appartenenti all’area U.E..

In buona sostanza, il rilievo viene è stato mosso nei riguardi di una certa arbitrarietà in seno al contegno della F.I.G.C. (e di riflesso della Lega professionisti Serie C) che aveva esercitato il potere di assenso e di diniego in relazione al tesseramento degli sportivi professionisti extra U.E., senza operare (nel richiamato C.U. N. 133/03) alcun riferimento alle valutazioni espresse da Governo e C.O.N.I. in ordine agli interessi in gioco: quelli delle società, da una parte, quelli attinenti alla salvaguardia dello sport nazionale e dei settori giovanili, dall’altra.

Il Tribunale di Bolzano, però, ha individuato il vero “punto debole” della tesi assunta dalle istituzioni sportive reclamanti, nel fatto che l’art. 27, comma 5 bis citato subordinava i limiti di ingresso per gli atleti professionisti extra U.E. allo svolgimento di un’attività sportiva a titolo professionistico o comunque retribuita, mentre il vincolo che avrebbe assunto il giovane K. A. sarebbe stato caratterizzato da una funzione eminentemente formativa.

Le stesse norme federali (Norme Organizzative Interne F.I.G.C., c.d. N.O.I.F.), del resto, non solo distinguono la figura del calciatore “giovane di serie” (art. 33 N.O.I.F.) da quello “professionista”, ma stabiliscono anche che l’attività svolta dal primo non può essere remunerata, ma solo indennizzata in base a determinati parametri stabiliti dalle Leghe professionistiche (nel caso specifico Lega Professionisti Serie C).

La circostanza, poi, che il calciatore minorenne, sin dal 1998, risultasse tesserato per una società dilettantistica, l’U.S. Stella Azzurra, quindi già tesserato F.I.G.C., ha indotto il Collegio giudicante a ritenere che, se la ratio ispiratrice della norma statale e dei precetti federali era quella di salvaguardare i vivai, limitando l’ingresso di atleti extracomunitari (professionisti), non si comprende perché la F.I.G.C. non abbia impedito il tesseramento del giovane calciatore sin dall’inizio.

È evidente che mai l’ente federale avrebbe potuto comprimere il diritto del minore di associarsi liberamente all’organizzazione della disciplina sportiva di interesse (F.I.G.C.). Al contrario, il giovane K. A. avrebbe dovuto godere ampiamente di quel diritto, ove si consideri che qualunque altro minore italiano, ovvero comunitario, di pari età, avrebbe potuto, sempre ex art. 33 N.O.I.F., ottenere il tesseramento in qualità di “giovane di serie”, senza impedimento alcuno e, addirittura, stipulare (verificandosi certe condizioni) anche un primo contratto da professionista.

Non sembra potersi negare che, in effetti, le determinazioni assunte dalla F.I.G.C. e dalla Lega Professionisti Serie C, abbiano dato luogo ad una palese e ingiustificata disparità di trattamento in danno del baby calciatore.

Esse, infatti, si pongono in evidente contrasto, in primo luogo, con i principi della legislazione ordinaria che, invece, è volta a favorire, gradualmente, l’ingresso nel mondo del lavoro dell’individuo extracomunitario, sin dalla minore età.

È noto che questi, compiuti i 14 anni e iscritto nel permesso o nella carta di soggiorno dei genitori, può ottenere un permesso per motivi familiari e svolgere, al raggiungimento dell’età prescritta, un lavoro subordinato o autonomo.

Inoltre, una volta maggiorenne, il soggetto può conseguire un proprio e autonomo permesso per accedere al mercato del lavoro.

Inoltre, quelle stesse determinazioni di diniego si pongono in aperto contrasto sia con l’art. 2, T.U. sull’Immigrazione, sia con l’art. 16, D.Lgs. n. 242/1999 (Legge istitutiva del C.O.N.I., c.d. Decreto Melandri), come modificato dal D.Lgs. n. 15/2004 (c.d. Decreto Pescante).

La prima norma, infatti prescrive che “il cittadino extracomunitario, legalmente soggiornante, gode degli stessi diritti in materia civile riconosciuti al cittadino, salvo che non sia diversamente stabilito dal T.U. sull’Immigrazione o da accordi internazionali”.

Il secondo precetto, ad colorandum, stabilisce, invece, che “le Federazioni sportive nazionali e le discipline sportive associate sono rette da norme statutarie e regolamentari sulla base del principio di democrazia interna, di partecipazione all’attività sportiva da parte di chiunque in condizioni di parità e in armonia con l’ordinamento sportivo nazionale ed internazionale”.

In conclusione, la F.I.G.C., e la Lega Professionisti Serie C non hanno tenuto in debita considerazione che non solo il giovane K. A. era già beneficiario di un legittimo permesso di soggiorno che lo abilitava a svolgere qualsiasi attività di studio e di lavoro, ma soprattutto che egli non poteva essere annoverato tra gli atleti extracomunitari da contingentare (per motivi di lavoro), con il conseguente diritto a non essere discriminato in ragione della sua provenienza extracomunitaria.

Per mera completezza espositiva, si segnala, in tema, una recentissima pronuncia del Tribunale di Verona (ord. 14/07/2006) che ha ribadito come il tesseramento dei calciatori extracomunitari minori in qualità di “giovani di serie”, denegato per ragioni di contingentamento (con riferimento alla s.s. 2005/2006, C.U. F.I.G.C. N. 225 A /05), “risulti sottoposto a condizioni e limiti non previsti per i cittadini, con ciò realizzandosi un ostacolo all’inserimento dei calciatori minori extracomunitari nel calcio professionistico”.

Peraltro, anche in questa occasione, sono state riproposte le medesime argomentazioni afferenti sia all’esclusiva funzione regolatrice demandata a Governo e C.O.N.I. in ordine alla fissazione del limite di ingresso annuale riservato agli sportivi extracomunitari, sia alla decisiva circostanza che l’art. 27, comma 5 bis, T.U. sull’Immigrazione, si riferisce agli atleti professionisti o comunque retribuiti, e non a coloro che siano vincolati ad un club da un rapporto di tipo formativo e non remunerato.