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Il vizio della sugar tax e la virtù dell’educazione alimentare

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Indice:

1. La sugar tax: nulla di nuovo sotto il sole

2. L’importanza dell’educazione alimentare. Indicazioni dall’estero

3. Il ruolo delle imprese

4. Come si fa educazione alimentare?

 

1. La sugar tax: nulla di nuovo sotto il sole

Come è noto, fra qualche mese entrerà in vigore la cosiddetta sugar tax, introdotta dalla Legge di bilancio 2020. In proposito, è indispensabile partire da una constatazione importante: e cioè dal fatto che – a dispetto di ciò che l’anglicismo usato potrebbe far pensare – l’imposta sugli zuccheri non è una novità dell’armamentario a disposizione del legislatore tributario. La tassazione sugli alimenti è sempre stata un obiettivo privilegiato delle strategie fiscali, perché la sua riscossione è agevole e sicura (anche se alcune delle rivolte più celebri nella storia dell’umanità sono esplose proprio a causa di simili gabelle…).

Ancora, storica è l’attenzione degli esattori per i vizi o, come pure si dice, per i “consumi voluttuari”: si pensi alle accise su alcol e tabacco. Infine, è comune anche la giustificazione posta a fondamento del prelievo erariale: la scoperta dei danni, più o meno seri, che questi prodotti (per così dire) “viziosi” hanno sulla nostra salute ha offerto una motivazione nobile e importante per (tentare di) scoraggiare il loro consumo attraverso l’impiego della leva fiscale.

Quindi, con una battuta, si può dire che la sugar tax non è nulla di nuovo sotto il sole.

Non sono una novità neanche le critiche che sono state rivolte a questo genere di tassazione. Si è messo in luce come le imposte selettive sui vizi alimentari non funzionino né come politica fiscale né come politica sanitaria: innanzitutto, perché i due obiettivi non sono coerenti tra di loro (da una parte si aspira alla massimizzazione del tributo, dall’altra alla riduzione del consumo e quindi della base imponibile).

Si è detto anche del loro carattere fortemente regressivo, visto che colpiscono in maniera più che proporzionale quelle stesse fasce di popolazione che si mirerebbe invece a tutelare. Si è evidenziato, infine, il loro effetto distorsivo, perché definiscono il loro campo d’azione in modo necessariamente arbitrario e perché rimangono esposte all’influenza di interessi costituititi che possono impiegarle come improprie strategie concorrenziali (chi fosse interessato ad argomentazioni serie in proposito, può trovarle in un volume pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni: Obesità e tasse, a cura di Massimiliano Trovato).

 

2. L’importanza dell’educazione alimentare

C’è un altro aspetto su cui è opportuno concentrare la nostra attenzione. Si tratta della consapevolezza per cui il ricorso alla tassazione finisce per farci dimenticare che la cosa più importante su cui accentrare i nostri sforzi è l’educazione, cioè la promozione del cambiamento delle abitudini individuali. In questo modo, si pone anche il tema dell’approvazione popolare del genus impositivo cui appartiene la sugar tax: tema che si intreccia con la sensibilità personale maturata anzitutto come consumatori. Un paio di esempi in proposito.

Qualche anno fa a Cook County, un’area suburbana di Chicago, fu introdotta una soda tax (una tassa, cioè, dagli effetti analoghi alla sugar tax) con atto del consiglio comunale approvato con un margine ristrettissimo (9 a 8). Quella tassa ha incontrato un’opposizione immensa tra i cittadini ed è stata per questo rapidamente abolita (stavolta con un margine di 15 a 1). All’opposto (non solo geografico), a Berkeley, in California, un referendum propositivo finalizzato all’introduzione della stessa imposta è stato vinto con il 76% dei consensi: un anno dopo l’entrata in vigore della corrispondente legge, si è registrata la riduzione del consumo delle bevande zuccherate del 9,6%. Il dato è importante, ma è il rapporto causa-effetto in oggetto si presta al rischio di essere letto in modo “scorretto”. La domanda da porsi è la seguente: il consumo di quei prodotti è diminuito in forza dell’imposta introdotta o l’imposta è stata introdotta (voluta da una maggioranza così ampia) proprio perché gli elettori-consumatori avevano già radicalmente modificato le proprie abitudini alimentari?

Ci sembra, infatti, che chi voti per l’introduzione di una tassa del genere sia già convinto che il cibo oggetto dell’imposizione fiscale non sia salutare e quindi, con ogni probabilità, eviterà accuratamente di includerla nella propria dieta, favorendone così il progressivo e costante declino.

In sintesi, quindi, è possibile dire che far precedere la tassazione al mutamento delle abitudini alimentari rischia di essere controproducente e che farla seguire sia (per fortuna!) sostanzialmente inutile.

 

3. Il ruolo delle imprese

Ma c’è di più. Non dobbiamo dimenticare che le imprese sono soggetti “auto-interessati”. Di pari passo con lo sviluppo di una nuova coscienza alimentare, cresce la domanda di consumi più salutari: e ad essa farà seguito una precisa offerta commerciale. Non dobbiamo dimenticare, ancora, che il cibo cosiddetto “spazzatura” è sempre meno “spazzatura”. I gusti dei consumatori sono da tempo in fase di cambiamento e, pertanto, le imprese si stanno adeguando, riducendo la quantità di zucchero presente nei propri prodotti al fine soddisfare la nuova domanda dei propri clienti.

In Europa, tra il 2000 e il 2015 si è registrato un taglio del 12% degli zuccheri presenti nei soft drink: ed entro il 2020, si assisterà a una ulteriore diminuzione del 10%. La Coca Cola, una tra le principali aziende produttrici di bevande soggette alla sugar tax, ha ormai il 60% dei propri prodotti a ridotto, basso o nullo contenuto calorico e ha introdotto, per ogni versione “full sugar”, anche una versione “zero” dello stesso prodotto. E lo ha fatto senza dover attendere l’introduzione della sugar tax: e lo ha potuto fare spontaneamente, così valutando adeguatamente tempi e modalità della riconversione produttiva.

Ciò, ci sembra, conferma l’ineludibile centralità e importanza dell’investimento sull’educazione alimentare, da svolgere in modo preferibilmente selettivo: non rivolgendosi, cioè, indistintamente alla società nel suo complesso, ma a quelle fasce che sono caratterizzate da una rilevante propensione ad adottare condotte poco salutari. Si tratterebbe, in sostanza, di una lungimirante politica volta a ridurre le cosiddette disuguaglianze sanitarie (cfr. Trovato, “Introduzione”, in Obesità e tasse, p. 22).

 

4. Come si fa educazione alimentare?

C’è un ultimo profilo, però, su cui è bene spendere qualche parola.

Come si fa educazione alimentare? Questa è la domanda delle domande. Difatti, studiando alcune delle proposte avanzate in Parlamento in proposito, si ricava la sensazione che, quando le scelte inerenti allo stile di vita delle persone entrano nel dibattito parlamentare (così uscendo da quello meramente culturale) smettono di essere oggetto soltanto di una legittima scelta di vita individuale, ma diventano un cavallo di battaglia politica e, peggio ancora, un comando sovrano. Promuovere determinati stili di vita corrisponde in genere a svalutarne altri e diversi: e se a incaricarsi di questo compito è il Parlamento, si abbandona il terreno della promozione, per entrare in quello della coercizione.

Molte di queste proposte (una cui dettagliata analisi si trova nella nostra ricerca Panem et salutem) si contraddistinguono per toni e contenuti non condivisibili. Per quanto di presente interesse, è sufficiente ricordare che in queste proposte di legge (che sono trasversali all’arco parlamentare) i consumatori vengono spesso rappresentati – meglio: caricaturizzati – come pronti a cadere in “trappole” mediatiche o a scoprirsi vittime di «mode d’oltreoceano»; e che è fondato e preoccupante il rischio che l’educazione alimentare sia usata per la celebrazione di tecniche agricole costose, superate dallo sviluppo scientifico e di scarsa utilità collettiva.

In conclusione, il nostro suggerimento è quello di prediligere interventi decentralizzati e puntuali di informazione, fondati su solide e riconosciute basi scientifiche. Ciò potrebbe avere come conseguenza quella di una riduzione dell’estensione di interventi simili: ma visto che stiamo parlando di temi delicatissimi, siamo certi che la cautela sia in questi casi non un vizio, ma una virtù.